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Farina e l’Esercito del futuro: «Utili i droni, ma
conta l’uomo. Siamo tutti in continua formazione» di Maurizio Caprara Per le Forze armate la necessità di combinare
l’innovazione del modo di agire e pensare con la tradizione è radicale. Oggi
l’Esercito italiano compie 157 anni e nella sua prima intervista da quando
in febbraio ne ha assunto la guida Farina spiega che cosa si prefigge di
fare. I militari italiani hanno un’età media avanzata per il
loro lavoro, circa 38 anni, ed esistono ancora molti doppioni tra strutture
e funzioni delle varie forze armate. Quali obiettivi si pone per rendere
l’Esercito più dinamico? «Finora siamo stati in grado di
ridurre del 30% i generali rispetto al 2012. Lo abbiamo fatto sulla base
del Libro
Bianco della Difesa. Per strutture e
infrastrutture la tendenza è raggiungere il 30% in meno. Allo stesso tempo,
vanno potenziate le capacità operative». Le nuove tecnologie cambiano i sistemi di arma e i modi di
fare la guerra. In che cosa aggiornerà le attività di formazione? «Il capo di Stato maggiore della Difesa ha fatto
costituire un centro interforze per le difese cibernetiche, noi abbiamo
contribuito molto. Abbiamo perfezionato presso il Comando Trasmissioni la
formazione di addetti che lavoravano sulle nostre reti. Alla Cecchignola c’è
un nucleo che si evolve per dotare le nostre missioni all’estero di esperti
nella tutela delle reti. Arrivare a una conoscenza tecnica avanzata non
richiede anni, però elementi giusti e formazione adeguata». Per evitare doppioni e utilizzare meglio i fondi pubblici
su che cosa interverrà? Per esempio: tra le diverse armi andrebbe
centralizzata la manutenzione degli elicotteri? «È stato fatto già molto per integrare le forze speciali,
auspichiamo lo stesso per le truppe anfibie. Per la guida degli elicotteri
ci sono iniziative in atto: a Frosinone nostri piloti frequentano un corso
con quelli dell’Aeronautica. Si tende e bisogna tendere all’integrazione
interforze, fare di più e insieme». Quante persone lavorano nell’Esercito? «Le effettive sono circa 95 mila. Adesso ne abbiamo
undicimila schierate: settemila in Italia per l’operazione “Strade sicure” e
quattromila all’estero. Con le forze pronte a intervenire arriviamo a
20mila. Di queste, circa 8.900 in caso di emergenza nazionale e per crisi
internazionali. L’impiego continuo dei 20 mila militari comporta turnazioni
per garantire il necessario recupero, addestramento e “approntamento”» . Generale, nell’era di droni, aerei invisibili, unità
d’élite, attacchi informatici, a che cosa serve la fanteria? «Una difesa credibile deve disporre di tutte le
componenti. Nell’Esercito la stragrande maggioranza delle forze di manovra è
della fanteria, una volta chiamata la “la regina delle battaglie”. Serve a
presidiare il terreno, conoscere e vedere, prevenire ed eventualmente
dimostrare la possibilità di uso proporzionato della forza. Per la
prevenzione è necessaria presenza avanzata e vigilanza». In che cosa consiste la presenza avanzata? «Considero l’uomo la parte centrale di un meccanismo di
difesa, perché in natura è il sistema più evoluto. Le aree urbane crescono:
tra milioni di abitanti i droni sono utili, sì, tuttavia negli edifici,
nelle linee sotterranee di metropolitane ci vuole l’uomo». Immagino lo pensi anche per gli ufficiali, non solo per i
soldati. «Ne parlavo giorni fa con Franco
Angioni (che comandò il contingente italiano a Beirut nei primi anni ’80, ndr>),
abituato all’estero a incontrare le personalità locali. La chiusura di una
fabbrica di mobili di qualche serbo, una volta, mi creò un problema su una
strada che portava dal Kosovo in Serbia. Trenta operai in sciopero la
bloccarono. Noi avevamo mezzi cingolati blindati e pesanti».
E come faceste a passare? «Andai dal sindaco. Gli dissi: tu lo sai che ho la
missione di tenere libera la strada, che cosa vuoi? Proteste così ci sono
anche in uno Stato libero e democratico come il nostro. Ti faccio venire una
telecamera, poi mandate il filmato della manifestazione alla tv che vi pare.
Però aspetto un’ora soltanto. Non di più». In quale modo andò a finire? «Mi disse: assicuro che sarà così. La strada si sbloccò in
un’ora. Se avessi usato i mezzi pesanti o la ruspa ci saremmo fatti 30
nemici più 30 famiglie più il Comune e in seguito non saremmo potuti passare
di lì»>. Da quali nemici potenziali deve difenderci oggi l’Esercito
italiano? «L’Italia oggi non ha alcuna minaccia incombente palese
nel senso convenzionale, del tipo degli anni più bui della Guerra fredda.
Però è al centro dell’area mediterranea e dell’euro-atlantica, vicina a Nord
Africa e Medio oriente, è circondata da rischi di instabilità di Stati
disintegrati che lasciano fiorire gruppi terroristici, altra instabilità e
conflitti locali capaci di diventare regionali ed espandersi». E quando si espandono? «Se questi pericoli si consolidano, anche l’Italia può nel
medio-lungo termine esserne interessata. Rischi di infiltrazione di
terroristi ci sono già in Europa. “Strade sicure” è mirata a controllare e
prevenire questi pericoli come lo è il nostro essere presenti in aree
d’instabilità o dove va mantenuta una pur fragile pace. Penso in Kosovo, ma
anche altrove». Dopo oltre 30 anni di missioni militari all’estero,
pubblicamente non se ne parla quasi eppure il nostro è anche un Paese di
reduci e veterani. Alcuni di loro non sono tornati nelle condizioni
psicologiche migliori da luoghi di scontri armati come l’Afghanistan, Iraq e
altri. Come vengono aiutati? «Abbiamo psicologi inseriti in ogni brigata, poi figure di
sostegno al rientro. Vengono effettuate visite e controlli. Quanti hanno
subito traumi o ferite permanenti sono veterani da assistere continuamente,
e per questo c’è un nostro sforzo costante. L’Esercito è una grande
famiglia».
Qual è il messaggio che nell’anniversario della vostra fondazione rivolge
agli uomini e alle donne ai suoi comandi? «Siamo cresciuti di pari passo con la società italiana. Ho
ereditato un esercito sano, solido e pronto. Chiaramente non ci fermiamo
qui. Dobbiamo proseguire nello sviluppare le nostre capacità aggiornandoci
rispetto alle sfide tecnologiche. Essere sempre più integrati con le altre
forze armate e i nostri alleati in una prospettiva interforze ed europea».
Come riassumerebbe per un non addetto ai lavori la sua idea di integrazione? «E’ bello competere tra il paracadutista, l’alpino, tra
l’artigliere e il geniere. Ma pensiamo al fante senza il Genio che poi getta
i ponti oppure apre i campi minati o a colui che deve intervenire in
emergenza e non ha l’elicotterista che lo trasporta. Agiscono insieme>. E con gli alleati? Sia la Nato sia gli Stati Uniti
insistono molto sull’esigenza di aumentare l’«interoperabilità», la capacità
di far agire in sinergia le componenti multinazionali chiamate a intervenire
in situazioni di tensione o conflitto. «L’Esercito è stato tra i primi
nell’Alleanza atlantica a costituire il corpo di reazione rapida di Solbiate
Olona. Mentre parliamo abbiamo sia quel comando sia una brigata inserita
nella Nato
response force (Forza di risposta della
Nato, ndr) e
addirittura nella Very
high readiness joint task force (Forza
congiunta di risposta ad alta prontezza, ndr)
che deve reagire a emergenze ed eventuali esigenze di difesa collettiva
entro 30 giorni. Non sono tantissimi considerate le dimensioni dell’impegno.
Nel 2018 il corpo d’armata di Solbiate Olona è il comando terrestre deputato
a dirigere un eventuale intervento. E la Brigata Ariete, italiana e con
contributi internazionali, sarebbe schierata per prima in caso di
emergenza».
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. | Estratto dal Corriere della Sera, 04 maggio 2018. | ||||||
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