La meglio gioventù I sogni, la generosità, le piccole manie dei militari morti nella strage di Nassiriya di PINO AGNETTI Voglio parlarvi di Massimo. Un ragazzone vagamente introverso, con una sottile vena di inquietudine negli occhi. L'esatto opposto del militare caciarone e casinista tanto caro a un certo cinema e a una certa televisione di serie B (ammesso che in Italia ne esistano di una categoria superiore). Era stato il padre, il Generale Alberto Ficuciello, alla cui scuola si sono formati la maggior parte dei comandanti delle nostre missioni all'estero dell'ultimo decennio, ad anticiparmi la presenza del figlio in Iraq. «Visto che sta tornando laggiù, è probabile che incontri anche lui. Me lo saluti, poi se capiterà mi dirà le sue impressioni sul giovanotto». Lì per lì, devo dire che quel tenente col pizzetto e la barba ben curati che mi ero trovato di fronte nell'Ufficio stampa del contingente italiano all'inizio del mio secondo viaggio a Nassiriya mi era parso perfino troppo preoccupato di mostrarsi all'altezza di cotanto padre. Giudizio sbagliato. Perché Massimo era uno che aveva deciso di percorrere la propria strada da solo. Con le proprie idee, i propri valori, i propri tempi. Non si lascia un lavoro di consulente finanziario in un grande istituto di credito milanese per raggiungere la prima linea irachena soltanto per rinverdire le tradizioni di famiglia. Magari, in quella sua domanda di poter vestire nuovamente l'uniforme dei Lagunari presentata a inizio estate c'era anche una certa voglia di fuga dalla routine. E forse, come si era lasciato sfuggire quasi di sorpresa una mattina mentre camminavamo per le vie di Nassiriya, anche l'esigenza di un primo bilancio concernente la propria sfera affettiva ed esistenziale. A 35 anni, si è ancora in tempo per farlo. Dopo, non si sa. Sta di fatto che, più ci inoltravamo quel giorno fra i sobborghi più poveri e desolati della città, e più vedevo l'uomo e il militare Massimo Ficuciello prendere la sua esatta forma. Ecco la solita truppa di sciuscià scalzi e sporchi da far paura prenderci d'assalto. Uno di loro, in groppa a un asinello, ci raggiunge. Sgrana il sorriso sdentato e fa il segno della vittoria con la mano. Massimo si toglie l'elmetto, gli parla smozzicando qualche parola d'arabo, gli offre una bottiglia d'acqua. E naturalmente finiamo ambedue travolti dalla masnada urlante. A quel punto, l'ufficiale aveva preso di nuovo il sopravvento, preoccupato che l'ingorgo creatosi intorno a noi bloccasse il passaggio delle auto e che tutto quel caos finisse con l'esporci eccessivamente. «Adesso è meglio togliersi da qui», mi aveva detto rimettendosi un po' di malavoglia l'elmetto. «Magari quando torniamo alla base segnalo a quelli che si occupano della cooperazione civile-militare di venire a portare un po' di derrate alimentari». A un suo cenno, gli altri uomini della Brigata Sassari che ci accompagnavano erano rimontati rapidi sul gippone. E anche quel suo piglio deciso nell'impartire gli ordini, privo al tempo stesso di qualunque arroganza, mi aveva ulteriormente confermato che la stoffa del bravo tenente era rimasta intatta, nonostante gli anni passati ad analizzare le oscillazioni dei mercati finanziari. Ma Massimo, come si è già visto, apparteneva al reggimento Lagunari «Serenissima», uno dei reparti scelti dell'Esercito, così chiamati perché discendenti dei «fanti di marina» della Repubblica di Venezia degli inizi del XVI secolo. E qual è il sogno di qualsiasi «lagunare» che si rispetti che un giorno si trova in missione in Iraq, l'antico Paese dei due fiumi, e nella fattispecie in una città come Nassiriya solcata da parte a parte dall'Eufrate? Riuscire a «buttare in acqua» almeno un paio di barchini, i mezzi d'assalto anfibio di cui è dotata l'unità. Ormai, era diventato un vero tormentone fra i vari componenti dell'ufficio stampa della Sassari affidato alle mani esperte del colonnello Gianfranco Scalas, forse il più noto e apprezzato di tutto l'Esercito. Ad ogni briefing, Massimo non perdeva mai occasione di segnalare al suo superiore, con il solito tono calmo e non invadente, che i famosi barchini erano tirati a lucido dal primo all'ultimo e pronti all'uso. Magari anche solo per compiere una semplice esercitazione. E il colonnello a rispondergli in stretto dialetto sardo e dandogli del «lei» messo lì apposta per simulare un certo qual distaccato fastidio: «Tenente, ma vogliamo portare un po' di pazienza? E poi scusi, qui ci troviamo in Iraq, mica nella laguna veneta!». Anche di battute e di finte schermaglie come questa era fatta la giornata in prima linea del tenente Massimo Ficuciello. Come dimenticarlo? E come dimenticare il maresciallo della Sassari Silvio Olla (un altro dell'ormai inesistente staff del colonnello Scalas) che, per quanto silenzioso e perennemente concentrato sul proprio lavoro, si illuminava al solo sentir parlare del mare verde e blu che bagna l'isola di Sant'Antioco dove era nato 32 anni fa? O il maresciallo dei Carabinieri Enzo Fregosi, che un giorno d'agosto mi aveva mostrato orgoglioso alcune tavole d'argilla istoriate di caratteri cuneiformi appena rinvenute dal suo team specializzato nel recupero delle opere archeologiche trafugate dai musei iracheni? O quell'altro Maresciallo dell'Arma, Filippo Merlino, che poco prima di una operazione notturna mi aveva strappato la promessa di andarlo a trovare a Viadana, in provincia di Mantova, dove comandava la stazione dei carabinieri? Conservo ancora il suo numero di telefono annotato sul taccuino mentre ci preparavamo a uscire insieme dal piazzale della caserma della strage. I loro volti, al pari di altri ai quali solo oggi mi è possibile abbinare un nome e un cognome precisi, continuano a danzarmi nella mente. Ma quello che proprio non riesco a togliermi dagli occhi, ha i tratti e l'aria vagamente inquieta del tenente dei Lagunari Massimo Ficuciello. Quando, per tenere fede alla parola data, ho chiamato ieri per telefono suo padre, sono riuscito a raccontargli in qualche modo della scena dei bambini che, meno di dieci giorni fa, saltellavano felici attorno al suo «giovanotto». E mentre quel generale pieno di dignità continuava a chiedermi avido qualche altro ricordo, ho visto Massimo scendere le sponde sabbiose dell'Eufrate e salire su una barca. Come un pescatore, che conosce bene dove lo porterà la corrente. |