. | | MASSIMO FICUCIELLO "Noi militari impariamo a sopportare il dolore, ma non riusciremo mai ad abituarci" L´orgoglio del padre-generale "Non voglio bugie pietose" di GIANCARLO MOLA ROMA - «A noi militari crescono le palle più dure, impariamo a sopportare il dolore. Ma non riusciremo mai ad abituarci». Nel giorno più triste, il generale Alberto Ficuciello e il padre Alberto Ficuciello sono più che mai la stessa persona: il ricordo del figlio e tenente Massimo - morto a 35 anni a Nassirya, dove aveva l´incarico di accompagnare gli autori del film-documentario sull´Iraq - è perfettamente sovrapposto all´orgoglio della divisa, l´uniforme indossata dal nonno materno, dal padre, dai fratelli della moglie, dagli amici più cari. La sua è la voce di un uomo ferito che però sa tenere dritta la schiena, come lui stesso ha appreso in caserma e come ha insegnato nella sua lunga carriera di addestratore militare. «Aspetto che qualcuno mi possa dire quello che di vero si sa sulla dinamica dei fatti: è una curiosità professionale ma anche un desiderio di padre», dice il 63enne ufficiale, rispondendo al telefono mentre parla con Repubblica: «Non ho bisogno di bugie pietose». Generale, suo figlio aveva lasciato il posto in banca per tornare temporaneamente sotto le armi. Non ha cercato di scoraggiarlo? «Assolutamente no. Anzi, mi è sembrata una scelta lusinghiera, un apprezzamento per il mio mondo da cui si era allontanato, quasi un volerne raccogliere l´eredità». E quando ha saputo che sarebbe partito per l´Iraq? «Gli ho soltanto manifestato una riserva di tipo tecnico. Per partire serve un addestramento adeguato, ci vuole il tempo necessario a inserirsi in una macchina rodata. Ha avuto solo un paio di settimane, per prepararsi alla missione. Un po´ poco». Questa accelerazione può aver influito sulla tragedia? «No, ci tengo a sottolinearlo. Primo perché i suoi compiti erano di addetto ai rapporti con la stampa. Secondo perché era un uomo forte, atletico, tutt´altro che sprovveduto. Terzo perché era nelle mani di persone responsabili e competenti. Siamo un corpo professionale, non giocatori di calcetto della domenica». Ma perché suo figlio ha scelto di tornare a indossare la divisa? «Mi ha detto che voleva spezzare la routine del lavoro in banca a Milano, dove faceva l´analista finanziario. Che voleva fare un´esperienza sul terreno, che ci teneva a partecipare a un´operazione di peacekeeping. Era nel suo carattere: anche durante la leva, pur potendo rimanere in un ufficio, aveva preferito i Lagunari, cioè un reparto operativo». Quando lo ha sentito l´ultima volta? «Venerdì scorso, per pochi minuti». Cosa vi siete detti? «Pochi pensieri. Gli ho chiesto, come sempre, se stava bene». E lui? «Era tranquillo ed entusiasta, proprio come il giorno dell'arrivo in Iraq». Nient'altro? «No, siamo una famiglia abituata alle lontananze. Facciamo un uso parsimonioso del telefono, a volte ci scambiamo le notizie via sms. Non c´era ragione, venerdì, per parlarsi più a lungo». Anche l´altro suo figlio, Corrado, è stato ufficiale di complemento. Se decidesse, come Massimo, di tornare sotto le armi, lei avrebbe lo stesso atteggiamento? «Non potrei dirgli di no. Il mio problema sarebbe al limite contenere le mie riserve. Gli spiegherei però quali rischi ci sono in missioni così difficili. Ma non lo fermerei. Anzi, posso raccontarle un aneddoto?». Lo racconti. «Quando, dopo essersi laureati, Massimo e Corrado scelsero professioni civili invece della carriera militare ebbi molti dubbi, pensai di non averli stimolati abbastanza. Mi rassicurai solo anni dopo, quando mi resi conto che la vita militare era entrata nelle loro personalità per sempre». E lei? Da pochi mesi ha lasciato il servizio attivo ed è in ausiliaria. Dunque può essere richiamato. Se la sentirebbe di tornare sul campo? «Anche domani, se servisse. Sono un militare e lo resterò fino alla morte».
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