LA REGIA MARINA DURANTE LA GRANDE GUERRA A DIFESA DELLA “SERENISSIMA”
L’eventuale perdita della Serenissima avrebbe significato riaprire
l’Adriatico e il Mar Ionio alla flotta austroungarica
Nell’immaginario collettivo la Grande Guerra si identifica con il
conflitto terrestre: trincee, fango e montagne. Ciò si spiega con il
numero dei mobilitati del Regio Esercito, oltre 6 milioni di uomini (ma
tra loro anche donne, le “Portatrici carniche”, per esempio) su 36
milioni di abitanti. Il ruolo della Regia Marina è invece solitamente
correlato alla rievocazione di singoli, per quanto straordinari, episodi
come l’affondamento delle corazzate austro-ungariche Wien, Santo Stefano
e Viribus Unitis o, tutt’al più, a quell’eccezionale impresa strategica,
organizzativa, nautica e umanitaria che fu il salvataggio dell’Esercito
Serbo.
Questa percezione è comprensibile, ma oscura il fatto essenziale che la
Prima Guerra Mondiale sia stata combattuta anche sul mare, e che grazie
al mare e alla Marina, la vittoria del conflitto sia stata, alla fine,
conseguita.
Una vittoria determinata, in ultima istanza, dal collasso economico
degli Imperi Centrali causato da 4 anni di blocco navale alleato:
italiano in Adriatico (prima del 24 maggio 1915 passava, alla
spicciolata, di tutto), e inglese nel Mare del Nord.
I fatti, puri e semplici, sono i seguenti: senza il controllo
dell’Adriatico, conseguito nei confronti della Marina austro-ungarica, e
del Mediterraneo, ottenuto contro la minaccia dei sommergibili tedeschi,
non sarebbe stato possibile vincere la guerra. Questo perché, ieri come
oggi, oltre l’80% del traffico commerciale passa dal mare e senza
approvvigionamenti un popolo è semplicemente destinato a morire. Ebbene,
senza il blocco navale assicurato dalle Regie Navi e dai loro equipaggi
tra il 1915 e il 1918, la guerra sull’Isonzo, sulle Alpi e sul Piave non
solo non sarebbe stata vinta, ma avrebbe comportato, assieme alla rovina
dell’Italia, anche quella della Francia e dell’Inghilterra.
Delineato, quindi, lo scenario e l’obiettivo da raggiungere, il metodo
adottato fu l’esercizio del Potere Marittimo sulla base di direttive
elaborate e imposte dall’Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, capo di stato
maggiore della Marina e artefice della vittoria sul mare nella Grande
Guerra. Il mezzo si tradusse nell’azione coordinata, quotidiana e
pressante esercitata dai MAS, dalle torpediniere, dai caccia, dalle
mine, dai sommergibili, dagli idrovolanti, dai mezzi speciali e dalla
Marina tutta che confinò in maniera silenziosa (e mortale) la flotta
austro-ungarica dentro le proprie basi, le precluse l’uscita nel Mar
Jonio, e quindi nel Mediterraneo e nel Levante, e chiuse di fatto, una
volta per tutte, la partita, vecchia di 5 secoli, tra l’Italia e
l’Impero Asburgico.
Uno sforzo titanico riassumibile in poche cifre: 86.000 missioni di
guerra, 2 milioni di ore di moto e 25 milioni di miglia percorse, pari a
1.200 volte la circonferenza terrestre all’equatore.
Dato questo quadro generale, concentriamoci su Venezia, ovvero sulla
funzione determinante assolta dalla Marina per la difesa di Venezia e,
con essa, per l’esito favorevole del conflitto. Una difesa che fu
preparata ben prima del 24 maggio 1915.
L’ammiraglio Thaon di Revel, sulla base di un lucido e corretto
apprezzamento di situazione, aveva individuato in Venezia la chiave di
volta dell’Alto e Medio Adriatico. La città era, infatti, l’unica grande
base navale italiana in grado di mantenere sotto scacco diretto Trieste
e, soprattutto, Pola, la maggiore tra le basi navali asburgiche.
L’eventuale perdita della Serenissima avrebbe significato riaprire
l’Adriatico e il Mar Ionio alla flotta austroungarica, in quanto i punti
d’appoggio di Brindisi e Valona non potevano ospitare forze in grado di
contrastare efficacemente il grosso della squadra imperial-regia.
Taranto, unica località tra Venezia e il Mar Ionio dove potevano essere
dislocate le maggiori e più moderne navi da battaglia italiane, era,
infatti, troppo distante. Perdere Venezia, inoltre, avrebbe significato
consentire all’esercito imperiale asburgico di accerchiare le linee
italiane e di sbucare, senza possibilità di contrasto, attraverso tutta
la Pianura padana, fino alle Alpi e agli Appennini.
Ecco perché l’Ammiraglio Thaon di Revel, per essere certo che Venezia
non capitolasse, pretese, nel pieno della crisi politica successiva a
Caporetto, che la difesa della città e della laguna fosse affidata in
toto, anche sul fronte costiero terreste, agli uomini della Marina, alla
sua gente, in cui confidava e che credeva in lui.
Venezia fu, pertanto, oggetto di pazienti, silenziose ed efficaci cure
da parte della Marina. In particolare fu curata l’infrastruttura
dell’Arsenale, dotandola, per l’epoca, di mezzi senz’altro adeguati e,
soprattutto, di maestranze capaci e ben organizzate.
Furono, inoltre, compiuti interventi sulla stessa geografia: a terra
furono scavati e dragati un’infinità di nuovi canali; in mare furono
posate oltre 5.000 mine, poi diventate 14.000 alla fine del conflitto.
Queste azioni si tradussero, all’apertura delle ostilità, nella
decisione austro-ungarica di non attaccare Venezia dal mare.
Tra i compiti strategici assegnati alla Marina fin dall’inizio del
conflitto va ricordato l’appoggio dell’ala a mare del Regio Esercito.
Per poter assolvere al meglio questa missione, la Marina italiana armò,
ancor prima di entrare in guerra, i propri primi “pontoni armati”.
Contemporaneamente l’Arsenale di Venezia realizzò anche mezzi speciali
quali la “Mignatta”,
i barchini saltatori della classe “Grillo”,
gli idroscivolanti armati di siluro e modificò in efficaci vettori di
sommozzatori i sommergibili
tascabili delle classi “A” e “B”.
L’arsenale di Venezia assicurò anche il proprio indispensabile supporto
tecnico ai MAS e di cui la città lagunare fu, assieme a Grado, la
principale base operativa dell’Alto Adriatico.
Sempre dentro l’Arsenale di Venezia furono realizzate le protezioni per
la salvaguardia del patrimonio artistico e architettonico veneziano. Fu
proprio l’Ammiraglio Thaon di Revel a pianificare e far mettere in opera
una serie di intelligenti iniziative tese a tutelare le opere, i
monumenti i palazzi della città. Ben sapeva, infatti, come emerge dalla
sua lunga corrispondenza con D’Annunzio protratta fino alla morte del
Poeta che la guerra è cultura perché l’anima di un popolo e dei singoli
è cultura.
Si perfezionò poi al massimo la difesa contraerea della città lagunare,
impiantando numerose batterie di cannoni montati sulle antiche fortezze
e su apposite strutture lungo le coste spingendosi fino alle altane
organizzate, sopra i tetti, per piazzare mitraglieri e fucilieri.
Alla difesa contraerea si aggiunse, nel 1916, la progressiva conquista
della superiorità aerea da parte dell’Aviazione di Marina che aveva
proprio a Venezia la base principale, ovvero la grande stazione
aeronavale di Sant’Andrea. Nel corso del conflitto gli idrovolanti della
Marina effettuarono oltre 36.000 missioni.
Tra le istallazioni che contribuirono alla difesa di Venezia e, quindi,
alla vittoria finale, spicca però l’opera della Batteria navale 001 “Bordigioni”
impiantata a Cortellazzo, ala estrema dello schieramento italiano sul
basso Piave e punto più avanzato dello schieramento difensivo veneziano
dopo Caporetto.
L’Italia e l’Europa, che oggi conosciamo, si giocarono il tutto per
tutto proprio davanti alle acque di Cortellazzo, il 16 novembre 1917,
allorquando l’Esercito austro-ungarico, nel pieno dello slancio
successivo all’insperato successo strategico, e non solo tattico, di
Caporetto, era giunto alle porte di Venezia. Il piano prevedeva, a
questo punto, di sfondare lungo la strada costiera, accerchiare lo
schieramento italiano dal Piave al Monte Grappa e farla finalmente
finita. Proprio la posta decisiva indusse, finalmente, la flotta
asburgica ad appoggiare l’attacco dal mare con le corazzate Wien e
Budapest, uscite da Pola e scortate, oltre che dagli idrovolanti
asburgici, da 13 torpediniere. Giunte in prossimità di Cortellazzo le
corazzate austriache aprirono il fuoco, alle 10.45, contro la batteria
comandata dal tenente di Vascello Bruno Bordigioni, dapprima da circa
9.000 metri, accorciando poi la distanza fino a 6.500 metri, ovvero a
bruciapelo per i cannoni da 240 e 150 mm di quelle navi.
La batteria di Cortellazzo, 4 cannoni da 152 mm, resistette sotto il
bombardamento dei grossi calibri nemici danneggiando, col proprio
preciso tiro, le due corazzate austro-ungariche.
I marinai serventi ai pezzi non mollarono, infatti, di un millimetro
sotto quel fuoco infernale sparando a loro volta, secondo i dettami
della tradizione navale italiana, con precisione e con metodo. Il Wien
incassò così, complessivamente, sette colpi nell’opera morta mentre al
Budapest andò peggio, venne colpito sotto la linea di galleggiamento da
un proiettile, oltre che da numerose schegge di altri colpi caduti
vicino che aprirono diverse vie d’acqua.
Nel cielo, nel frattempo, gli idrocaccia della Marina giunti in
supporto, duellarono e respinsero gli aerei avversari. I MAS 9, 13 e 15,
al comando del Capitano di fregata Costanzo Ciano, e una squadriglia di
cacciatorpediniere, al comando del capitano di corvetta Domenico
Cavagnari, attaccarono la divisione navale austro-ungarica. L’arrivo
sulla scena delle corazzate Saint Bon ed Emanuele Filiberto, uscite da
Venezia agli ordini dell’ammiraglio Mario Casanuova, convinse infine le
unità austro-ungariche a rientrare a Pola forzando le macchine.
Quello stesso giorno, i marinai dei battaglioni della Brigata Marina
difesero, con successo, le trincee e le buche scavate nel fango e nei
canneti. Il coraggio e la forza dimostrata dagli uomini di quello che
sarebbe diventato il San Marco divennero subito leggendari, lasciando
un’impressionante dimostrazione della determinazione e dello spirito di
corpo dell’Unità: nella difesa del Piave il Reggimento non ebbe alcun
prigioniero né dispersi e, al contrario, riuscì a catturare oltre 1.200
soldati avversari.
Tutto questo è il Potere Marittimo, ovvero la salvaguardia ogni giorno,
in pace e in guerra, dei legittimi interessi della Nazione, sia in
ambito continentale sia globale, assicurata attraverso il continuo,
incessante battere il mare delle navi. Ieri come oggi e come sempre,
imponendo la propria iniziativa nei confronti dell’avversario di turno,
si tratti di un nemico palese, di pirati o altro. Il ruolo della Marina
quale protagonista decisivo per l’esito favorevole del conflitto e la
determinante funzione attribuita dalla Marina alla difesa di Venezia
fanno parte di questa straordinaria vicenda millenaria vissuta sui mari,
nei cieli, nelle basi e sopra e sotto le onde, nella scia delle secolari
tradizioni dell’Italia sul mare.
Giosuè Allegrini
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