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06 dicembre 2006

  
      
  

 

Capacità anfibie europee, si va avanti, ma in ordine sparso

di Pietro Penge

 

Le capacità europee di intervento dal mare sono state, per tutto il secondo dopoguerra, pesantemente sottodimensionate rispetto a quelle che erano le potenzialità e le effettive ambizioni mondiali di alcune delle nazioni del vecchio continente, Francia e Regno Unito in primis. Né poteva essere altrimenti: con le armate corazzate sovietiche alle porte, tutte le attenzioni, tutti gli sforzi e tutti i fondi dedicati alla difesa dovevano essere prioritariamente destinati a evitare la totale disfatta in terra tedesca.

In Francia, la divisione di fanteria di marina (una normale unità dell’Esercito, addestrata a operare da navi anfibie), come parte della Far (Forza d’Azione Rapida, costituita negli anni 80 da due divisioni blindate, una da montagna, una di paracadutisti, una di fanteria leggera della legione e una di fanteria di marina, ciascuna di forza leggermente superiore a una brigata standard Nato), aveva quale compito primario quello di farsi massacrare in Germania nel tentativo di fermare le incursioni dei Gruppi operativi di manovra sovietici (raggruppamenti di 5-6 divisioni meccanizzate-corazzate, aventi il compito di incunearsi dietro le linee Nato sfruttando i varchi aperti da altre unità e di seminarvi il caos).

In Gran Bretagna, le forze anfibie, consistenti in una robusta brigata, avevano il compito di correre in aiuto della Norvegia per puntellare il fronte nord, col supporto di una ulteriore piccola brigata anfibia olandese, che però non aveva proprie navi da trasporto e sperava in un ‘passaggio’ ad opera della Royal Navy. Una tale prospettiva di impiego era però estremamente limitante, non fosse altro che perché per un simile tragitto, in un simile contesto, non servivano certo navi anfibie ‘oceaniche’ in grado di sbarcare in assalto e sostenere per giorni un cospicuo contingente, risultando ben più proficuo fare ricorso a unità mercantili noleggiate e aerei da trasporto.

E infatti, la Reale Marina Olandese negli anni 80 non aveva unità da sbarco, e la Royal Navy britannica si fece cogliere all’atto dell’invasione delle Falkland da parte dell’Argentina con le sole due unità maggiori da sbarco, le LPD Fearless e Intrepid, già uscite di linea e prossime al disarmo senza sostituzione. In realtà, l’Intrepid era addirittura già in disarmo e rimetterla in linea in tempo assieme alla gemella fu un’impresa tanto gloriosa quanto disperata. La Royal Navy aveva inoltre a disposizione solo le misere unità logistiche da supporto allo sbarco classe Sir e la portaelicotteri Hermes, che però, essendo troppo importante per la condotta delle operazioni aeree, venne riconvertita in portaerei, lasciando buona parte dei Royal Marines letteralmente a piedi e si dovette requisire una grande nave da crociera per portarli in battaglia.

Nel resto d’Europa, la specialità letteralmente non esisteva: l’Italia contava su un minuscolo battaglione di 300 uomini che pianificava di condurre solo improbabili e improponibili colpi di mano. La Spagna su una piccola brigata, che però era un unità ‘trasportabile via mare’ più che una unità anfibia in senso stretto e con limitatissime capacità di trasporto per mancanza di navi. La Grecia contava su una robusta brigata, il cui impiego era però limitato a difendere le isolette greche del mar Egeo da colpi di mano degli alleati turchi. Disponevano pertanto solo di unità da trasporto specificamente adattate allo scopo, e quasi inutilizzabili in altri contesti. Gli altri Stati europei praticamente avevano rinunciato alla specialità.

La guerra delle Falklands costituì, per tutte quelle nazioni europee che ancora contavano a vario titolo su dominions e colonie oltremare (sostanzialmente Regno Unito, Francia e Olanda), un chiaro campanello d’allarme e un chiaro segnale di quale fosse la via da percorrere. Ma l’incombere della minaccia sovietica non permetteva di stornare pesanti aliquote del bilancio della difesa a favore di tali capacità, che restano pur sempre estremamente ‘pesanti’ dal punto di vista della sostenibilità economica. Esse infatti presuppongono un pesante addestramento per il personale, un considerevole dispendio di risorse logistiche, la creazione e sostentamento all’interno della flotta di unità dedicate, una apposita mentalità acquisibile solo con anni di operazioni congiunte, capacità nuove e specifiche.

Per garantire l’operatività di una brigata anfibia, occorrono estese capacità di comando e controllo in situazioni complesse, molto diverse dalla scorta ai convogli atlantici e dalla interdizione navale, che costituiva l’incarico primario delle marine europee negli anni 80, grandi capacità logistiche navali orientate ad operazioni terrestri, fregate e cacciatorpediniere in grado di fornire supporto di fuoco controcosta, estese capacità elicotteristiche da trasporto e relative navi, capacità di condurre operazioni speciali in preparazione a sbarchi di grossa entità, eccetera.

Con la caduta del muro di Berlino e il tracollo dell’Urss, ma ancor più con l’interminabile serie di missioni di varia natura ad esso seguito, che ha definitivamente infranto il sogno di ‘un secolo di pace’ e la conseguente idea che si potesse portare alle estreme conseguenze il principio dei ‘dividendi della pace’ (ossia i risparmi conseguiti con la drastica riduzione dei budget della difesa), molte nazioni si sono ritrovate nella pratica incapacità di far fronte alle nuove missioni e ai nuovi compiti che si profilavano all’orizzonte. Poco importava, in tale contesto, avere a disposizione eserciti di 200mila uomini con duemila carri armati, se non si era in grado di portarne nemmeno l’uno per cento dove serviva e quando serviva.

In tale ottica, sia nell’ambito della revisione delle capacità complessive della Nato che nel tentativo di creazione di analoghe capacità in ambito UE, si faceva sempre più spazio la considerazione che le capacità anfibie e di trasporto navale avrebbero costituito, per il futuro, un Key Enabler, una capacità chiave che avrebbe dato a chi la possedeva un ruolo e una importanza decisiva e nel contempo avrebbe costituito, per chi non la possedeva, un collo di bottiglia dove si sarebbero arenate le velleità di protagonismo a livello mondiale. Le capacità di proiezione dal mare, in altri termini, diventavano uno degli obiettivi primari a cui tendere e a cui sacrificare altri programmi.

In tutta Europa, in conseguenza di tale presa di coscienza, si svilupparono rapidamente cospicui programmi di riarmo navale nella specialità anfibia, anche a costo di sacrificare per essa capacità fino ad allora ritenute cruciali: ad esempio quella sottomarina o quella antisommergibile o, in campo interforze, il riequipaggiamento di unità pesanti dell’Esercito o di alcuni stormi aerei, il tutto in nome di una maggiore flessibilità complessiva dello strumento che avrebbe garantito, negli anni a venire, di poter intervenire con maggiore efficacia pur in presenza di strumenti militari fortemente ridimensionati.

Pur in tale chiarezza di intenti comuni, però, veniva nuovamente a mancare, come fin troppe volte in ambito europeo, la chiara percezione del fattore ‘dimensionale’ quale ineludibile complemento di quello ‘capacitivo’. In altri termini, come al solito, in Europa non ci si rese conto che ciò che permetteva alla marina di riferimento in tale campo (quella Usa) di mantenere le proprie ineguagliabili capacità anfibie e di proiezione non era soltanto un budget di tutto rispetto, ma una fortissima spinta alla razionalizzazione, alla standardizzazione, alla omogeneizzazione delle capacità, delle strutture, delle unità. In altri termini, in tutta Europa le spinte localistiche e autarchiche prevalsero sul buon senso, dando origine a una serie sterminata e pressoché irrealizzabile di progetti di unità anfibie specializzate che hanno alla fine condotto - come era inevitabile - alla realizzazione di un incredibile numero di ‘Marine dei prototipi, in spregio ai più elementari principi di standardizzazione e ai relativi risparmi.

E’ bene però specificare che tale incredibile risultato è stato raggiunto col tacito ma esplicito appoggio delle Marine militari nazionali, che ben si sono ingegnate a fare in modo da trovare, per rispondere a requisiti operativi sostanzialmente identici per tutti, risultati costruttivi totalmente opposti, dando origine a una serie di requisiti nazionali talmente variegati da non permettere fra gli stessi alcun tipo di accordo, col chiaro scopo di foraggiare una industria nazionale di dimensioni costantemente troppo piccole per potersi davvero proporre quale concorrente valido dei pochi veri colossi mondiali in campo militare.

E’ così che ogni nazione ha proceduto per proprio conto alla progettazione e realizzazione di unità tutte sostanzialmente simili ma tutte profondamente diverse, con l’unico ovvio risultato di duplicare studi e progetti, costi non ricorrenti, costi d’impianto, costi di specializzazione del personale addetto alle lavorazioni, senza mai raggiungere una ‘massa critica’ capace, di per sé, di giustificare gli investimenti iniziali. Unica eccezione a tale quadro di nazionalizzazione degli interventi è stato quello delle unità tipo Rotterdam-Galicia, realizzate in quattro unità, due per la marina olandese e due per quella spagnola. Ma, per non contraddire il principio esposto, ogni nazione ha provveduto a produrre in proprio le unità e addirittura a differenziarle abbondantemente le une dalle altre, in maniera da raggiungere il ben poco invidiabile risultato di avere, a costruzione ultimata, quattro unità che, al di là dell’aspetto esteriore simile, sono profondamente diverse l’una dall’altra.

All’esigenza di trasportare, mettere a terra in tempi accettabili e sostenere un robusto contingente anfibio supportato da un adeguato quantitativo di elicotteri, ogni nazione ha risposto in maniera differente, sopportando spese molto elevate, ricorrendo poi al pericoloso trucco di adottare standard costruttivi mercantili per abbattere quei costi che, pur mantenendo standard militari, avrebbero potuto essere ridotti in maniera ben più consistente semplicemente standardizzando le unità e producendole in serie in pochi, grandi cantieri.

Il Regno Unito ha provveduto a costruire una flotta anfibia di tutto rispetto, consistente nella Lph Ocean, destinata unicamente a operare come portaelicotteri, vista la mancanza di bacino allagabile, da due grandi Lpd classe Albion, destinate a operare solo come unità da sbarco, visto che, pur avendo un ponte elicotteri, non hanno hangar, e da quattro unità classe Bay, derivate dalle olandesi Rotterdam (ma, ovviamente, tanto per non smentirsi, totalmente rivisitate in ordine ai requisiti nazionali e costruite in casa propria), che, pur avendo anch’esse ponte elicotteri, non hanno hangar e, pur dislocando ben 16mila tonnellate a pieno carico (tpc), hanno una bacino allagabile in grado di accogliere un solo Lcu (e pensare che si era partiti da una unità, la Rotterdam, che pur con tremila tpc in meno aveva un hangar per quattro elicotteri pesanti o sei medi e un bacino di tutt’altre capacità).

Nel complesso si tratta di una flotta di tutto rispetto, che con le tre unità principali può proiettare una forza considerevole da sostenere nel tempo con l’intervento delle quattro Bay, ma è facile notare come sarebbe sufficiente la temporanea indisponibilità della Ocean a far crollare miseramente i suoi equilibri, lasciando i Royal Marines in seria difficoltà quanto a capacità di intervento verticale.

A voler essere cattivi, si potrebbe rilevare che quando il piano di realizzazione di tale - peraltro eccellente - flotta è stato redatto, la Royal Navy aveva ben tre portaeromobili classe Illoustrious, che essendo sostanzialmente analoghe alla Ocean - benché parecchio più vecchie - avrebbero potuto facilmente sostituirla, ma che ora che ne resta solo una in servizio attivo gli ammiragli inglesi facciano finta di non essersene accorti. E quando anche quest’ultima sarà radiata, le cose saranno ancora peggiori, a meno di non voler utilizzare una portaerei da 60mila ton (peraltro, ancora da realizzarsi) come portaelicotteri anfibia. E’ forse per questo, ossia per non chiudere la porta a un eventuale ulteriore futuro ampliamento della flotta anfibia, che le effettive capacità di carico delle unità inglesi vengono così incredibilmente sottostimate, al punto che sia per le Albion che per le Bay, di dislocamento superiore alle 16mila tpc, viene dichiarata una capacità standard inferiore a quella delle microscopiche Lpd italiane classe Santi, che stentano ad arrivare a ottomila tpc, salvo poi, leggendo tra le righe, scoprire che tali capacità in caso di necessità quasi triplicano.

I francesi hanno risolto il medesimo problema in maniera radicalmente opposta, ossia ricorrendo a due portaelicotteri classe Mistral che però hanno anche bacino allagabile, in modo da poter fungere da unità anfibie completamente autonome, supportate da due Lsd (unico caso di tali unità in Europa) classe Foudre, con un ampio ponte di volo ma, soprattutto, in grado di mettere in mare in un’unica soluzione un numero ineguagliato in ambito UE di mezzi da sbarco, pagando tale importante capacità con la mancanza di aree di stoccaggio in cui accumulare i mezzi necessari a sostenere le ondate successive: in pratica una ‘pallottola d’argento’ di valore elevatissimo, ma dietro cui c’è il nulla. Pertanto, la Francia può ora disporre di capacità eccellenti di ‘first shot’, potendo lanciare con le sue quattro unità un’ondata d’assalto sia marittima che aerea di dimensioni davvero considerevoli, senza però avere la capacità di sostenerla nel tempo.

L’Olanda, dal canto suo, ha provveduto a dotarsi di una forza di due moderne Lpd, appartenenti alla stessa classe seppur diverse fra loro, che soddisfano pienamente le sue necessità e, pur non garantendo capacità strabilianti, sono tuttavia pienamente adeguate a sostenere nel tempo il ruolo che l’Olanda si è ritagliata sulla scena internazionale. Un ruolo, è bene specificarlo, da comprimario e non da protagonista, ma perfettamente attagliato alle possibilità olandesi e per cui le capacità militari nazionali sono state perfettamente tarate. Per molti versi, pur tenuto conto delle ovvie differenze di scala, un esempio da seguire per tutta l’Europa.

Per quanto riguarda la Spagna, essa è innegabilmente compressa fra sogni di grandezza e bilanci che non permettono un deciso balzo in avanti (almeno non della portata desiderata). E’ per questo che a due Lpd analoghe a quelle olandesi si sta per affiancare una grossa unità anfibia: la Bpe, paragonabile alle Mistral ma di maggiori dimensioni, costruita però, per ragioni di economia, in maniera decisamente mercantile (molto più delle altre unità anfibie europee, al punto da avere un solo motore, una compartimentazione stagna difficilmente in grado di reggere un serio colpo, una dotazione elettronica ridotta all’osso, sistemi di autodifesa pressoché inesistenti) e quindi decisamente gracile, che pur essendo la più grossa unità anfibia d’Europa rischierà di trovarsi schiacciata fra troppi ruoli, essendone previsto anche l’impiego come portaerei. In realtà, le caratteristiche della nave la rendono un buona piattaforma alternativa per gli Harrier della Principe de Asturias (la portaerei spagnola), ma difficilmente potrebbe operare come portaerei vera e propria in una situazione di vera crisi.

Si distingue per originalità di soluzioni la piccola Danimarca che, non potendosi permettere una flotta degna di tale nome, ricorre a soluzioni originali e calibrate per poter ancora essere in grado di dire la sua. Dal punto di vista anfibio, non potendosi permettere una nave da sbarco tradizionale, ha generato con le due unità classe Absalon la nuova figura della fregata da sbarco senza bacino, in pratica una unità che presenta un armamento paragonabile a quello di una piccola fregata tipo le italiane Lupo di 30 anni fa (un cannone da 127, 16 vecchi missili antiaerei Sea Sparrow, 8 missili antinave, e armamenti secondari), pur con una suite elettronica moderna, un ponte di carico di 900 mq ma senza bacino, quindi adatto a sbarcare mezzi solo in porto, un portellone di messa a mare per due Lcvp, in grado di far operare in assalto fanteria leggera o forze speciali ma non veicoli, una grande autonomia (per una fregata), la capacità di caricare fino a 200 uomini oltre all’equipaggio e una velocità di 24 nodi, via di mezzo fra quella tipica di una nave da sbarco (20 nodi) e quella di una fregata (28-30 nodi).

E’ bene notare come la costruzione di tali navi sia costata alla Danimarca la esplicita rinuncia a qualunque rilevante capacità antisom e come – ciò nonostante - per risparmiare anche tali unità adottino standard mercantili: l’adozione di tali standard, come risultato secondario, ha comportato che i danesi hanno potuto farle costruire da un piccolo cantiere nazionale che mai prima di allora aveva prodotto navi militari. E sono così soddisfatti della loro creatura che le loro nuove tre fregate da combattimento vere le realizzeranno su progetto Absalon modificato, senza ponte di carico e con un motore potenziato, con l’ovvio casuale corollario che se le potranno costruire autarchicamente. E poco importa se dovranno rinunciare, pur con una flotta così piccola, alle ben più sicure specifiche di tipo militare.

Considerato che, in tale settore, il resto dell’Europa virtualmente non esiste (la Grecia, unica grossa nazione non considerata, vive di surplus ex-Usa e opera ancora con lo scenario precedentemente descritto), rimane solo l’Italia, nazione dalle grandi ambizioni ma dai pochi denari, che sta costituendo una moderna Forza di proiezione dal mare, anticamente equipaggiata, ma che continua a supportarla con tre minuscole Lpd, che, quando tutte disponibili, non consentiranno di imbarcarne nemmeno la metà. Che per costruire una portaerei (la Cavour) ha dovuto camuffarla da mezza nave anfibia dotandola della capacità di imbarcare 325 fanti di marina a scapito della componente aerea imbarcata. Che nel progettare una nuova nave anfibia (ovviamente, autarchica e pezzo unico), deve stare attenta a farci stare quanta più gente e mezzi possibile, perché difficilmente potrà permettersene un’altra, a non darle un ponte di volo continuo altrimenti, sembrando essa stessa una portaerei, addio sostituzione del vecchio incrociatore portaeromobili Garibaldi, a darle comunque una cospicua capacità elicotteristica, a pagarla il meno possibile, a camuffarla da nave ospedale per farla digerire a talune forze politiche.

In sostanza, a breve le forze anfibie europee avranno a disposizione, in termini di naviglio di recente costruzione: Regno Unito: una Ocean, due Albion, quattro Bay; Francia: due Foudre, due Mistral; Spagna: una Bpe, due Galicia; Olanda: due Rotterdam; Danimarca: due Absalon; Italia: una Lpd nuovo tipo (forse). In pratica, quattro portaelicotteri di tre tipi diversi, 11 lpd di tre tipi diversi (di cui un tipo con cinque sottoclassi), due Lsd di un’unica classe, due fregate da sbarco di un’unica classe. Poi, qualcuno ha anche l’ardire di chiedersi perché le navi anfibie europee, pur costruite con standard mercantili, hanno un rapporto costo-capacità assolutamente spropositato se rapportato a quello delle unità anfibie americane, pur costruite con standard pienamente militari, che però vengono costruite in classi di decine di unità (per quelle più grandi e costose, almeno una mezza dozzina) sostanzialmente identiche le une alle altre, eccezion fatta per modifiche di minore importanza.

Ormai da anni si è infranta, se non nella teoria certo nella pratica, l’idea di una Europa-nazione, dove a contare sono gli interessi dell’Unione e non quelli nazionali, dove la Spagna magari non avrà più cantieri navali militari e la Danimarca produrrà solo pescherecci, in cui Fincantieri sia fusa con la Dcn e abbia due poli produttivi d’eccellenza invece che quattro che stentano a stare sul mercato. Ostinarsi a crederci ancora è follia, perché gli egoistici interessi nazionali vengono prima di tutto e tutti, ed è ormai chiaro che l’Unione Europea è un insieme di interessi particolaristici che non si sfalda solo perché i vantaggi dello stare insieme sono superiori agli svantaggi, ed è ben lungi dall’essere semplicemente l’espressione politico-territoriale della presa di coscienza di un popolo unico di più etnie (italiani, francesi, inglesi, tedeschi…) che si identifica in un semi-continente, quale avrebbe voluto essere nelle idee dei suoi sostenitori alle origini.

Ma a questo punto viene da chiedersi se sia ancora lecito sperare almeno in obiettivi ben più modesti, ma comunque importanti; ad esempio un’Europa dove l’Italia commissioni le sue portaerei e le sue navi anfibie in Francia, permettendole di diventare un polo d’eccellenza in tali costruzioni, e in cambio ottenga di produrre in Italia le Fremm francesi, diventando essa stessa un polo d’eccellenza in tale tipo di unità. Il tutto abbattendo in maniera colossale i prezzi, migliorando l’interoperabilità, la manutenibilità, ottimizzando e aumentando gli investimenti in ricerca e sviluppo, permettendo a ogni nazione, specializzata, di poter contare su un mercato continentale in cui non ha rivali se non quelli provenienti da oltreoceano e di competere con le aziende d’oltreoceano sui mercati mondiali, invece di essere, come oggi, una realtà nel complesso marginale che, in competizione con altre realtà marginali, si contende le poche briciole di mercato mondiale scampate alle fameliche attenzioni delle grandi aziende americane e, presto, russe e cinesi.

 

Per gentile concessione di Pagine di Difesa.

 

  
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