Storie di lagunari di Angelo Boaretto | |||||||
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Lagunare Angelo Boaretto Mestre, 1966 Sezione di Bergamo e-mail:
boarettoangelo@gmail.com |
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* San Marco
Vigevano, la città in cui vivo, di Lagunari non se ne sente parlare
molto e tanto meno se ne vedono in giro, perciò le mie informazioni su
questo corpo, si sono fermate a oltre quarant’anni fa quando ho
terminato il mio servizio di leva.
In realtà qualche notizia di cronaca su questo reggimento, si poteva
leggere sui giornali o vedere per televisione, ma tolti quei brevi
momenti un po’ asettici dell’informazione ufficiale, non restava gran
che per chi ne voleva sapere di più.
Navigando su internet qualche tempo fa, fu più per caso che scopri un
sito dedicato a questo corpo e per me fu una grande e bella sorpresa.
La prima volta che lo vidi, mi sorprese la vista del grosso “mao” che
c’è sulla sinistra, ma poi familiarizzando con il menu e scorrendo le
tante pagine a disposizione, scoprii che è ben organizzato, ben
aggiornato e molto interessante, ma soprattutto colma le mie lacune sul
passato e sul presente di questo Corpo Speciale.
Ovviamente come tutti i siti importanti, anche questo riserva una
rubrica dedicata a coloro che volessero scrivere alla redazione, quindi
anch’io mi accingerò a scrivere sulla vita trascorsa in questo
reggimento e a raccontare la mia esperienza, anche se sono passati tanti
anni.
Non è mia intenzione di raccontare i sempre simpatici episodi della
naja, anche perché ne ho pochi da raccontare, ma cercherò invece di
sottolineare che cosa e stato per me il Reggimento Lagunari Serenissima,
da un punto di vista personale e soggettivo.
Il servizio militare è una esperienza che non scordi per tutta la vita,
farlo nei lagunari ti senti speciale.
*
Una disgrazia
Gennaio 1966. Mentre tornavo a casa in treno da Milano, dopo una
giornata di lavoro, me ne stavo appartato accanto al finestrino del
treno, leggendo un ennesimo libro, dato che la lettura è sempre stata
una delle mie grandi passioni. Quando all’improvviso un enorme bagliore
fuori dal finestrino, illumina la campagna circostante con fiamme alte
che superavano le cime degli alberi; ad un passaggio a livello mal
custodito, un’auto di un salumiere fu investita dal nostro treno,
causando la morte di questi e spargendo salami e prosciutti lungo la
massicciata.
Il nostro treno purtroppo, si fermò dopo qualche km in mezzo alla
campagna buia e silenziosa, attendendo per diverse ore le autorità
giudiziarie per i rilievi del caso, prima di far ripartire il treno che
mi avrebbe riportato a casa.
Quella sera, arrivando a casa molto tardi, pensavo di essere al centro
dell’attenzione con i miei famigliari per parlare della disgrazia appena
avvenuta. Ma invece, oltre che essere al centro dell’attenzione per
parlare della disgrazia del treno, ero al centro dell’attenzione anche
per un’altra vicenda; i carabinieri quel pomeriggio avevano consegnato a
casa mia
*
La sfilata
Due giorni dopo, ero in partenza per Pesaro assieme ad alcuni futuri
commilitoni conosciuti al distretto e con loro, dopo un lungo e noioso
viaggio, arrivammo a destinazione a notte inoltrata.
Nei giorni successivi il solito rito della vestizione e
dell’addestramento formale, dopo di che ci fu un primo trasferimento in
un’altra compagnia, dove al nostro plotone fu consegnato in dotazione il
fucile Garand.
Uno dei ricordi di quel periodo, era il tormentone che si doveva subire
ogni volta che si andava allo spaccio a consumare qualcosa; l’ascolto
della canzone ‘Il ragazzo della via Gluk’ di Celentano, che le reclute
in quel momento gettonavano in continuazione nel
jukebox dello spaccio.
Intanto i giorni passavano e uno dei primi traguardi che dovevamo
superare in questa nuova esperienza, era il giuramento e dato che questo
giorno si avvicinava sempre più, bisognava quindi prepararsi per la
sfilata.
Il mio plotone, seppur tra i migliori, esigeva che alcuni di noi fossero
eliminati, perché in esubero numerico per sfilare in formazione di
parata. La soluzione fu trovata, nel mandar via coloro che avessero
sbagliato nel marciare, oppure di qualche volontario che preferiva
emigrare verso qualche altro plotone incompleto, prima di subire
l’umiliazione di essere mandato via.
Io fui tra questi volontari, dopo di che consegnai il mio Garand in
cambio del Moschetto 91 per adattarmi a questo nuovo plotone; anche se
più degradante, quest’arma era più leggera e più maneggevole da portare
in giro.
Di buono in questo plotone, composto da reclute un po’ diversificate e
avanzi di altri gruppi, era più rilassato e meno esagerato del
precedente, quindi mi trovavo a mio agio in mezzo a loro.
Alla sfilata comunque, risultammo i più disordinati di tutto il
battaglione.
*
Car Avanzato
Mi aspettavo dopo il giuramento che mi spedissero ad una nuova
destinazione, invece mi trattennero lì per far il Car Avanzato, che tra
percorsi di guerra e marce notturne, si rivelò una rottura di scatole
con un altro mese da far passare.
Mi confortava in quel periodo, la possibilità di comprare dei dolcissimi
e fragranti bomboloni, ogni volta che si usciva dalla caserma per andare
a fare l’addestramento sul poligono, perché dei venditori ambulanti
molto pazienti, ci seguivano strada facendo per vendere questi dolci in
cambio di poche lire.
Fu proprio in questo periodo di addestramento che cominciai a sentire
parlare dei Lagunari, io fino allora ne ignoravo l’esistenza.
Era convinzione tra noi reclute, che chi faceva il Car Avanzato, fosse
destinato ad essere trasferito su qualche reggimento di fanteria e
quindi a rigor di logica, anch’io sarei finito su uno di questi
reggimenti.
Perciò, nella mia modesta conoscenza dei corpi militari, sapevo degli
alpini, dei paracadutisti, dei bersaglieri; tutti corpi che mi auguravo
di evitare per ovvie ragioni.
Adesso a complicare le cose c’erano anche i lagunari, che dalle
chiacchiere che si sentivano in giro, dovevano essere dei soldati di
prima categoria, cioè gente preparata ad un addestramento molto severo,
a condizione di disagio, a sbarchi sull’acqua, ecc.; tutte cose che io
desideravo evitare.
*
Tradotta
Purtroppo nel foglio di viaggio che mi dettero per salire sulla
tradotta, c’era come destinazione il Reggimento Lagunari Serenissima
Venezia; una cosa decisamente inaspettata.
Un po’ ero orgoglioso di questa destinazione, ma ero anche un po’
preoccupato, perché se per
me già era duro l’addestramento lì al Car, figuriamoci ad entrare in
corpo così specializzato.
Anche se qualche giorno prima li avevo considerati una ‘compagnia di
matti’, in quel momento capivo che stavo per entrare in un corpo
militare di tutto rispetto e quindi dovevo prepararmi idealmente ad
accettare questa incombente e inaspettata realtà.
Comunque dentro di me pensai, se mi hanno scelto per questa
destinazione, vuol dire che qualcosa di buono hanno trovato nella mia
persona; un po’ di autostima non guastava.
Salii sul treno che era già pieno di soldati perché il convoglio
arrivava dal Sud, tutte reclute desiderose di raggiungere il reggimento
a loro assegnato.
Io trovato un angolo libero sul corridoio di una carrozza, mi sedetti
sul mio zaino-valigia tutto solo in mezzo a quella baraonda, tra
schiamazzi di gente euforica e persone che volevano dormire perché
oramai s’era fatto notte.
Dopo una interminabile sosta per poter caricare e sistemare tutti, con
uno strattone il convoglio riprese la sua corsa, ovviamente in direzione
verso Nord, dove erano la maggioranza delle destinazioni.
*
Caserma Pepe
Arrivammo alla stazione di Mestre verso mattino che era ancora buio,
scesi dal treno assieme ad altri e tra una confusione generale,
individuai il graduato di riferimento e questi ci fece salire su un
camion militare parcheggiato nello scalo della stazione.
Il viaggio fu breve verso Venezia e ad un imbarcadero a me sconosciuto,
ci fecero indossare un giubbotto salvagente e ci fecero salire su un
barcone scoperto con i nostri bagagli.
Attraversammo la città lagunare di primo mattino, scansando barche e
natanti di gente laboriosa e mattiniera e nel chiaror del giorno che
stava avanzando, sembravamo più soldati in missione di guerra, che
reclute imbranate ed impaurite.
Era domenica mattina e la caserma era quasi vuota perché buona parte
della truppa era in permesso, facemmo colazione e ci assegnarono una
branda, quindi tempo libero per sdraiarsi e recuperare un po’ di sonno
Nel pomeriggio libera uscita e io assieme ad altri, ne approfittammo per
un giro turistico a Venezia, dove le ragazze molto numerose, indugiavano
con lo sguardo nei nostri confronti con su la divisa. Era una pacchia!
Credevo di sognare.
Purtroppo la sveglia, ce la dettero gli anziani di ritorno alla sera e
la realtà si fece subito evidente.
Lazzi, versi, scherzi, era un incubo. In caserma loro facevano il bello
e il cattivo tempo e nessuno diceva niente.
Urlavano come forsennati, non ti lasciavano in pace, esigevano cose
assurde e illogiche; non ne potevo più. Deciso, andai dall’Ufficiale di
Picchetto in portineria per reclamare un minimo di rispetto e che
mettesse un freno a quella baraonda.
Ufficiale di Picchetto in quel momento, era un Sergente di Complemento,
che molto cortesemente mi ascoltò, dopo di che sorridendo mi disse che
c’era passato anche lui per quella esperienza e che l’unica cosa da
fare, era di assecondare le richieste degli anziani e tutto si sarebbe
risolto in breve tempo.
Avevo imparato la prima lezione e non l’avrei più scordata.
*
Hotel Piave
L’accoglienza alla Caserma Piave, non fu né morbida, né cordiale e
quando quella mattina il camion ci scaricò davanti all’edificio delle
compagnie, iniziò la gazzarra degli anziani.
“Sono arrivati i baffiii!!!”, gridavano a squarciagola e ci assalirono
da ogni parte con grida;
“baffi maledetti!”, “baffi dovete morire!” e via con urla di questo
genere.
A parte che fino allora non sapevo cosa volesse dire quella parola,
intuii comunque che avesse a che fare con la nostra sudditanza nei loro
confronti e che molto probabilmente queste persone erano gli anziani di
turno; praticamente i famigerati ‘nonni’.
Come insetti fastidiosi, continuavano a ronzarci intorno gridando al
nostro indirizzo ogni sorta di contumelie e di improperi. Mi chiedevo
io; cosa avevo fatto di male a loro per essere così bistrattato! Non
riuscivo a capirlo.
Ce n’erano tre o quattro di questi, che seppi poi essere del Minuto
Mantenimento, che a forza di gridare erano diventati rossi e paonazzi
come dei tacchini. Rozzi, maleducati, con la divisa sporca e in
disordine, ti urlavano in faccia con l’alito che puzzava di vino; era
evidente che già di primo mattino questi erano ubriachi e che nel loro
sgabuzzino avranno avuto di sicuro la scorta.
Nella mia mente, prima di arrivare in questo reggimento, i lagunari me
li ero immaginati come dei super-guerrieri non certo dei bifolchi
alcolizzati.
Finalmente, dopo un tempo che per me sembrò interminabile, finì tutta
quella baraonda perché uscirono dall’edificio delle compagnie, dei
furieri con un tavolino e delle sedie. Dopo di che arrivò anche un
ufficiale che si sedette al tavolo con davanti degli elenchi.
Iniziò chiamando uno per volta i nuovi arrivati, associando a loro nome
la compagnia di destinazione, costoro prendevano il proprio zaino e
sparivano dal piazzale.
Alla fine in mezzo al cortile rimanemmo in due, io e uno spilungone di
Portogruaro che ci guardavamo in faccia, interrogandoci a vicenda sulla
possibile nostra destinazione.
La risposta non si fece attendere troppo, perché l’ufficiale consultò di
nuovo l’elenco e disse guardandoci distrattamente,
“Questi due”
e spiccando i nostri nomi disse,
“Compagnia Comando; cannonieri!”,
poi si alzo, se ne andò via e fu tutto finito.
I furieri raccolsero gli elenchi, portarono via le sedie e il tavolo.
Uno di loro, avviandosi verso l’ingresso della compagnia, sorridendoci
compiaciuto ci disse;
“Siete proprio fortunati!”
*
Il cannone 106 s.r.
Il Cannone Anticarro 106 Senza Rinculo, è formato da tre sezioni: un
cavalletto, un congegno di puntamento ed un affusto con fucile di
aggiustamento.
Nel programma di addestramento a quest’arma, il cavalletto e il congegno
di puntamento non si dovevano smontare, restavano quindi l’affusto con
fucile di aggiustamento.
In tutto circa 30-40 parti da conoscere e imparare a memoria, per
poterlo smontare per fargli un po’ di manutenzione.
Dopo tre lezioni, io e il mio amico sapevamo tutto di quello che c’era
da sapere su quest’arma e mentre gli altri continuavano con
l’addestramento con marce e esercitazione sul campo, noi dovevamo
trovare il modo di imboscarsi da qualche parte.
Il mio amico, dopo qualche giorno, andò nel magazzino del vestiario a
dare una mano ai magazzinieri perché avevano bisogno di aiuto e da
allora rimase là fino alla fine della naja.
Io invece, per farmi vedere attivo, davo una mano al piantone della
camerata che di solito era un anziano che preferiva far lavorare gli
altri.
Un giorno mi vide a fare niente un sergente che lavorava in fureria, mi
chiamò e senza tanti preamboli mi disse;
“Boaretto, allo spaccio cercano un nuovo aiutante, vuoi andare tu a fare
quel lavoro?”
ed io senza esitare risposi
“Si, Signor Sergente”.
*
Rosa Pineta
Non serviva la scuola alberghiera per lavorare allo spaccio, quello che
importava era soddisfare le consumazioni di militari che venivano a bere
qualcosa, nella pausa del quarto d’ora.
Dopo 15 giorni di questa nuova vita, arrivò l’ordine di organizzare uno
spaccio da campo; toccava a me e lo spaccista anziano preparasi per la
trasferta.
La spiaggia di Rosa Pineta era la località prescelta. Il viaggio lo feci
nel cassone del camion, tra casse di bibite e scatole di biscotti. Ero
in compagnia di due furieri del Comando di Battaglione, che con la loro
chitarra, cercavano di azzeccare gli accordi giusti di Jestday, la
canzone dei Beatles in voga da poco; fino all’arrivo, due palle!
Arrivammo a destinazione che era quasi mezzogiorno, io e il mio collega
anziano, scaricammo il camion ai margini di una pineta completamente
disabitata e poi rimasti soli, pranzammo con la nostra Razione K.
Finito di pranzare, prendemmo in considerazione l’eventualità di montare
la tenda che ci avevano assegnato, una 5x5 che nessuno di noi due aveva
visto e sapeva com’era fatta.
Un mucchio di sacche enormi con picchetti, paletti, tiranti, ecc.
Tutta quella roba a cosa serviva? Come si montava? Interrogativi che non
trovavano risposta.
Il mio collega mi lascio in custodia tutta la merce e andò via in cerca
di aiuto. Dopo un quarto d’ora, tornò indietro a bordo di una Campagnola
assieme al Capitano responsabile dello star-up del campo.
Questi visto dove ci avevano scaricati, diede ordini affinché la nostra
tenda fossero portate in una zona più centrale del campo, più adeguata
al nostro servizio.
Detto, fatto, arrivarono alcuni uomini del Minuto Mantenimento, che ci
aiutarono a trasportare la nostra roba dove aveva ordinato il Capitano e
quando arrivammo alla nuova destinazione, con mia grande sorpresa scoprì
che quegli individui de M.M., avevano trasformato quella polverosa
pineta, in un campo militare efficiente con tende, cucine, latrine e
segnaletica di ogni tipo, pronto a ricevere il grosso della truppa che
sarebbe arrivata all’indomani.
Toccò poi alla nostra tenda e costoro senza batter ciglio, in breve
tempo la misero in piedi senza tante difficoltà.
Capii in quel momento quanto avevo da imparare da quegli ‘ubriaconi’ che
mi avevano rotto le scatole all’arrivo e mi rammaricai per aver pensato
male di questi miei commilitoni.
*
La rivalsa
Dopo di allora di campi e manovre ne feci diversi, sia come cannoniere,
che come spaccista.
Ma sebbene indossavo spesso la tuta mimetica, la mia immagine di
guerriero era un po’ offuscata, sia perché ero spaccista, ma soprattutto
perché con il cannone non si sparava mai e quindi avevo poco da
raccontare.
Finalmente arrivò anche per me il momento della rivalsa.
Era settembre e ci mandarono in un poligono di tiro vicino ad Aviano a
fare esercitazioni e forse a farci sparare con il cannone.
Questo campo era posto su un declivio morenico, dove l’accampamento era
posto alla base e le esercitazioni e i tiri verso la montagna; quindi
stando in tenda, si poteva seguire tutte le esercitazioni fatte più a
monte, perciò spari e assalti in diretta.
Dopo quasi una settimana, toccò a noi cannonieri il turno di metterci in
mostra.
Era un pomeriggio scuro e nuvoloso, noi cannonieri eravamo in piedi ad
ascoltare le ultime istruzioni prima di procedere con i tiri.
L’armiere aveva portato con un camion le casse con i proiettili da
sparare, le scaricarono, le aprirono e ben allineati dentro, c’erano
questi lunghi e verdi proiettili da sparare.
Per primo andò a sparare il mio amico di Portogruaro, questi di
temperamento flemmatico, con calma si sedette sulla postazione di tiro,
allineò l’arma contro una roccia a mo di bersaglio, due tiri traccianti
di aggiustamento e poi…
…BOOOOOOOOOMMMMMmmmmm!!!!!…..
Una fiammata enorme, un sibilo acuto per qualche secondo e poi…
…PATATRANGHETEEEEEeeeee!!!...
il proiettile esplose contro la parete di roccia mandando schegge e
sassi da tutte le parti.
Fu una cosa tremenda e fragorosa soprattutto perché era inaspettata,
inoltre concorse a questo frastuono, il rimbombo dell’eco contro la
montagna che amplificava questo fragore.
Ma più sorprendentemente fu la scena che vedemmo girando la testa verso
l’accampamento più in basso; tutti i soldati e personale
dell’accampamento, fuori dalle tende con il naso all’insù, per guardare
noi autori di quel fracasso.
Una scena straordinaria e gratificante soprattutto per noi cannonieri,
da sempre vessati dai nostri commilitoni.
Quando alla fine tornammo all’accampamento, il nostro orgoglio era alle
stelle; anche noi avevamo acquistato la nostra dignità.
*
Un encomio
Quello di Aviano fu uno dei peggiori campi che feci, perché acqua e
fango prevalsero su tutto.
Era consuetudine allora per chi arrivava dai campi di esercitazione,
avere diritto di usufruire di un permesso, per andare a casa a riposare
e approfittare così di far lavare la propria biancheria.
Quindi quella mattina davanti alla fureria c’erano parecchie persone in
fila per aver questo permesso, inoltre a guardare questa scena, c’era
anche un Sottotenente di Complemento della nostra compagnia, che
osservava questa confusione un po’ divertito e frastornato.
Quando arrivai io, prosegui oltre e salutai il sottotenente.
Questi invece mi chiamò e mi chiese;
“Boaretto, tu non chiedi un permesso”
“no, Signor Tenente”
“perché”
“perché non saprei che farne; abito a più di trecento km di distanza”
“ma allora non vai mai a casa”
“praticamente no”
“e allora, da quanto tempo è che non vedi i tuoi familiari?”
“da setti mesi!”
mi guardò un po’ sconsolato e disse
“e non dici niente!”
io rassegnato risposi
“che colpa ne hanno gli altri se io abito lontano”
e finì la discussione.
Dopo alcuni giorni da questa vicenda, questo sottotenente venne allo
spaccio mentre stavo facendo il mio solito servizio e mi disse;
“Boaretto, pianta qua tutto, mettiti la divisa da libera uscita, perché
con il nostro capitano devi andare dal Colonnello Comandante; sei stato
proposto per un Encomio Semplice”
Un encomio a me e per che cosa non ne avevo la minima idea, comunque
dopo alcuni minuti mi ero cambiato ed ero pronto in mezzo al cortile e
lì oltre al sottotenente, c’era un mio amico compagno di naja di
Trieste, anche lui proposto per il medesimo motivo.
Dopo un po’ arrivò il Capitano e con lui andammo dal Colonnello
Comandante.
Entrati nel suo ufficio, il nostro Capitano ci presentò al nostro
colonnello e riferendo a lui le nostre mansioni e i nostri meriti, spigò
poi i motivi dell’encomio.
Questi ascoltò tutto con interesse e preso atto di ciò, ci fece i sui
complimenti. Inoltre nella sua gentilezza, ci chiese anche notizie della
famiglia, del nostro lavoro e dei nostri progetti, quindi ci congedò
salutandoci con una stretta di mano.
Due giorni dopo, dalla fureria mi giunse la notizia che c’era una
licenza premio di 5 giorni a conclusione dell’encomio, quindi di
preparare la mia borsa per il viaggio perché quella mattina sarei andato
a casa.
Ero in mezzo al cortile ad aspettare questa licenza, quando arrivò un
furiere che mi disse che il nostro capitano arrivato in ufficio, aveva
firmato la licenza del mio amico di Trieste, ma tutto infuriato aveva
stracciato la mia licenza senza un apparente motivo.
Io ero molto dispiaciuto per questo, ma rassegnato mi girai per tornare
al mio servizio da spaccista. Invece costui mi disse di aspettare ancora
un po’, perché secondo lui il nostro capitano era un po’ particolare e
quindi conveniva avere un po’ pazienza.
Difatti dopo poco tornò indietro di nuovo questo furiere e mi mise in
mano questa benedetta licenza, però questa volta era corretta con un 5 +
2 giorni di viaggio.
*
L’alluvione
Non aspettai sette mesi per ritornare a casa, perché per questioni di
famiglia, presi la mia Licenza Ordinaria dopo qualche mese, a fine
ottobre.
Rientrai il 6 novembre e nel viaggio di ritorno, il mio treno produsse
un ritardo insolito; fece una sosta più lunga del previsto a Padova.
Arrivai in caserma fuori dall’orario stabilito, ma per fortuna quella
sera Ufficiale di Picchetto, c’era un sottotenente della mia compagnia,
il quale quando mi vide mi disse;
“Boaretto, cosa fai fuori dalla caserma a quest’ora?”
“rientro dall’ordinaria, perché?”
“a parte che sei fuori orario, ma il nostro battaglione è in allarme;
tutti i permessi e licenze sono stati sospesi”
“a me, nessuno ha detto niente”
“avrebbero dovuto venire i carabinieri a casa tua ad avvisarti!”,
ma poi mi spiegò che la richiesta ai carabinieri, doveva farla il nostro
Comando di Battaglione e scherzando continuò,
ӏ evidente che qui al battaglione, hanno pensato che potevamo fare lo
stesso anche senza di te”
io risi della battuta, ma facendomi serio incalzai,
“ma come mai siamo in allarme?”
“c’è stata l’alluvione e metà battaglione è in missione di soccorso agli
alluvionati”
“sono andati a Firenze?”
(4 novembre 1966, alluvione di Firenze; giornali e televisione ne
parlavano in continuazione, un po’ meno dello straripamento dei fiumi
veneti)
“no, i nostri soldati sono qui nel padovano, si sono rotti gli argini
anche dei fiumi Piave, Brenta, Livenza, Tagliamento, ecc.; tutto il
reggimento è coinvolto con i mezzi anfibi”
e a conclusione di questa discussione, mi raccomandò di andare subito in
branda che lui avrebbe coperto il mio ritardo.
Mentre andavo in branda, capii l’insolito ritardo che il mio treno fece
quella sera e che per colpa dell’alluvione per poco non rischiavo una
punizione.
Dopo alcuni giorni da questo episodio,
venne allo spaccio un mio amico che faceva il pilota carro di un VTT che
stazionava in caserma. Un tipo simpatico, capelli ricci, faccia allegra,
sempre di buon umore, entrò come al solito sbraitando e salutando chi
gli stava vicino.
Poi rivolgendosi a me che stavo dietro al banco a servire gridò,
“Boaretto, pagami da bere che dopo ti spiego il perché!”
gli risposi ridendo,
“tu sei matto, hai sempre voglia di scherzare”
e lui insistendo e facendosi serio mi disse,
“devo dirti una cosa della tua famiglia”
capii che non stava scherzando e gli risposi
“finita la pausa, ne parliamo con calma”
Dopo la chiusura dello spaccio, lo richiamai dentro e invitandolo al
banco gli versai una grappa, una delle consumazioni da lui preferite.
Lui la bevve in un fiato e io feci il verso di versarne un’altra, ma lui
con la mano fece segno di no e iniziò a parlare dicendo;
“Ti porto i saluti di tua sorella”
“quale sorella?”
“quella che abita qui nel Veneto”
“e tu che centri con mia sorella?”
“io e alcuni lagunari siamo andati a soccorre lei e la sua famiglia,
perché casa sua è stata allagata da un metro e mezzo d’acqua”
e continuando a parlare mi informò inoltre, che stavano tutti bene e che
dopo averli portati all’asciutto, erano stati soccorsi dai dei volontari
e poi affidati ai parenti.
Una sorella alluvionata salvata dai lagunari e per giunta della mia
stessa caserma, mi riempiva di orgoglio, ma sopratutto mi coinvolgeva
emotivamente.
Francamente non avrei mai immaginato, che i lagunari a me sconosciuta
fino a qualche mese prima, potessero entrare oltre che nella mia vita,
anche nella mia famiglia.
*
Spirito di corpo - Primo episodio
Era una brutta sera d’autunno di una domenica di ordinaria e monotona
naja. Stavo rientrando in caserma dopo essere stato al cinema da solo,
perché la maggior parte dei miei commilitoni o erano in permesso o erano
di servizio.
Il tempo era uggioso e una nebbiolina bagnata si appiccicava al giubbino
di panno, aumentando il disagio e la sensazione di freddo.
Io per potermi riparare un po’ dal quel fastidio, camminavo rasente ai
muri delle case ed attraversando Piazza Ferretto, prosegui la mia strada
sotto i portici mal illuminati della piazza.
I passanti erano radi a quell’ora e io non prestavo troppo attenzione a
chi incrociavo, un po’ assorto nei miei pensieri, ma soprattutto a causa
della scarsa illuminazione che rendeva la comparsa di queste persone
delle sagome scure.
Quando improvvisamente in lontananza, vidi arrivare con passo sicuro, un
persona in divisa con berretto a visiera. Indossava uno spolverino scuro
con le stellette, che occultava i gradi della sua divisa nascondendo
così il suo grado di militare.
Ci incrociammo a metà dei portici della piazza e ignorandoci a vicenda,
ciascuno prosegui per la propria strada.
Quando improvvisamente fatti pochi passi, costui con voce perentoria mi
rimproverò
“Ehi, lagunare!!! Non si usa salutare?”
Io mi girai e chiesi con garbo
“Salutare chi?”
Lui senza rispondermi, mi indicò con un dito il suo berretto. Guardai!
Una striscia argentata, due copie di passantini argentati ai lati e al
centro la fiamma dei carabinieri, anche questa argentata; un ufficiale
di tutto rispetto.
Gli risposi questa volta con più garbo, che abituato con i miei
superiori che portavano i gradi sul basco, mi sono confuso nei suoi
riguardi e di questo chiedevo scusa.
Ma lui di rimando invece continuò
“Voi lagunari, avete come vizio di non salutare i superiori degli altri
corpi”
e senza tanti preamboli mi chiese il tesserino personale per conoscere
le mie generalità.
Ero nei guai. Vuoi vedere che per colpa degli altri, questa volta pago
io. Ero decisamente costernato.
Mentre cercavo il mio tesserino personale, sentii dietro di me dei passi
e delle voci di persone che arrivavano e poi improvvisamente una voce
sopra le altre mi chiese;
“Boareto, còssa chel vòe sto mòna qua?”.
Mi giro e mi ritrovo con tre commilitoni della mia stessa caserma, che
stavano rientrando dal permesso domenicale.
Gli spiegai per sommi capi cosa mi era successo con questo tenente dei
carabinieri e loro per nulla intimoriti da questo ufficiale,
cominciarono ad aggredirlo verbalmente dicendogli a costui di tutti i
colori e tutto in dialetto veneto;
“va in mòna”, “ti ta morti cani”, “brutta canòa impestà”, ecc., ecc.,
ecc.
Questo visto la mal parata davanti alla furia di questi tre, se ne andò
tutto confuso e un po’ frastornato da questa improvvisa reazione e io,
dopo aver riposto il mio tesserino nel portafogli, rientrai con costoro
ridendo e scherzando sull’accaduto.
*
Spirito di corpo – Secondo episodio
Domenica pomeriggio, Stazione Centrale di Milano. Stavo rientrando dalla
licenza premio e mi accingevo a prendere il treno per ritornare in
caserma.
Entrai nella biglietteria della stazione, dove erano in funzione due
scale mobili affiancate, che portavano i viaggiatori al piano superiore
dove c’erano i binari.
Io presi la scala mobile di sinistra e mentre salivo, guardavo
distrattamente ciò che mi stava intorno. Verso metà percorso però, mi
sentii toccare alla spalla destra. Mi girai un po’ incuriosito da quella
parte e vidi che sull’altra scala parallela alla mia, c’erano tre
militari che mi guardavano; un Caporal Maggiore e due soldati semplici
di qualche reggimento in stanza a Milano, perché portavano scudetti e
mostrine che io non avevo mai visto.
Il caporale sicuro di sé senza tanti preamboli mi chiese se facessi
parte del nuovo scaglione di militari di leva e io come recluta, dove
ero diretto.
Io irritato e un po’ offeso, gli dissi che non ero per niente una
recluta, che anzi ero quasi ‘nonno’.
Lui di rimando mi disse che se la aspettava una risposta del genere,
perché avevo un portamento più da guerriero che da pivello, ma se per
cortesia gli davo delle spiegazioni del perché ero senza mostrine.
Allora, mentre loro mi accompagnavano a prendere il treno, gli spiegai
tutto sui lagunari, sui ‘mao’ sulla manica, sugli sbarchi,
sull’addestramento duro, sui mezzi anfibi, ecc.
Loro, ad ogni mia parola, sgranavano gli occhi un po’ stupiti e anche un
po’ impauriti che esistessero dei reggimenti così tosti, dove
l’addestramento era così pesante ed impegnativo, ma allo stesso tempo le
persone orgogliose e fiere di farne parte.
Alla fine con un bel saluto militare, li salutai e mi congedai da loro e
mentre salivo sul treno, guardai nella loro direzione; il caporale con
il pollice e l’indice delle due mani in opposizione, cercava di
realizzare un cerchio, per spiegare ai due militari il c… che i nostri
superiori ci facevano fare.
Io sorrisi tra di me di quella scena e mentre cercavo un posto per
sedermi, il treno con un fischio partii per Venezia.
*
Un giorno di primavera
Era un bel giorno di primavera, il sole era caldo e l’aria tiepida. Il
Cortile d’Onore dalla Caserma Piave quella mattina era insolitamente
animato. Un gruppo di militari di leva aspettavano che gli venisse
consegnato il foglio di congedo e io ero fra quelli.
Verso metà mattina apparve nell’ingresso principale il nostro Colonnello
Comandante. Qualcuno di noi lo videro e tentarono di salutarlo da
lontano, ma poi un graduato prese l’iniziativa, ci radunò tutti in una
squadra ben composta.
Partendo poi da l’alza bandiera in senso antiorario, facemmo un mezzo
giro del cortile e sfilando davanti a lui eseguimmo un ‘attenti a:’ alla
sua persona, lui ci rispose con un bel saluto militare verso di noi.
Alla fine del cortile, il graduato fermò la squadra di congedanti e
ordinò un ‘rompete le righe!’ e quello fu l’ultimo comando che io esegui
da militare.
Dopo mezz’ora ci consegnarono il foglio di congedo e io con un ultimo
saluto a chi mi stava vicino, me ne andai per la mia strada verso casa
senza girarmi indietro per un ultimo sguardo.
Da quel giorno non vidi più né la mia caserma, né nessuno dei miei
compagni di naja.
Andai da mia sorella che abitava in un paese lì vicino e lì mi
ricongiunsi con il mio fratello gemello; anche lui aveva fatto il
militare nel mio stesso periodo, addetto come tipografo alla Scuola di
Fanteria di Cesano di Roma.
Era da oltre un anno che non ci vedevamo e quindi avevamo un sacco di
cose da raccontarci, comprese le nostre esperienze militari.
Arrivò sera senza che ce ne accorgessimo e mentre un sole rosso calava
all’orizzonte, gli ultimi bagliori di luce tra i rami ancora spogli,
annunciavano la fine del giorno e con la fine di quel giorno finiva così
anche la mia naja.
Avevo dato il mio contributo alla patria e ne ero fiero, ma soprattutto
l’avevo fatto tra uno dei più belli e prestigiosi reggimenti d’Italia.
*
Dulcis in fundo
L’anno scorso fui invitato da un amico che abita in un paesino della
Liguria vicino a
Ma il terzo giorno di questo soggiorno però, dei grossi nuvoloni scuri
verso il mare, ci convinsero a sospendere le nostre escursioni e quindi
decidemmo per una tranquilla visita a dei paesini dell’entroterra
ligure.
Verso mezzogiorno, stanchi dei paesini, ci dirigemmo verso
Verso l’una finita la nostra visita culturale, ci dirigemmo in questo
ristorantino posto a poca distanza dal museo ed entrati, il proprietario
ci fece accomodare in una saletta interna.
Mentre eravamo lì in attesa che il personale venisse a prendere le
ordinazioni, per ingannare
il tempo guardavamo un po’ distrattamente i quadri e trofei marinari
appesi al muro.
Quando improvvisamente il mio amico, attirato da un quadro appeso dietro
di me, mi chiese senza preamboli;
“Tu che hai fatto il militare, che stemma è quello appeso al muro?”
Io mi girai e guardai distrattamente ciò che mi indicava con la mano.
Con mio grande stupore invece, incorniciato in bella mostra al centro
della parete, c’era appeso un fazzoletto da collo con Leone di San
Marco, che i lagunari mettono quando indossano la tuta mimetica.
Io sorrisi di così bella sorpresa e quando arrivò il titolare per le
ordinazioni, gli chiesi spiegazioni di come si trovasse lì quel
fazzoletto.
Ma lui con fare misterioso e un po’ divertito disse;
“Quello arriva da Venezia!”.
* Mantova 2011
Partito da solo di buon mattino, ero curioso di vedere cosa mi avrebbe
riservato questo raduno. Non avendo mai partecipato a questi
avvenimenti, per me sarebbe stato tutto nuovo quello che avrei visto e
trovato in questa circostanza.
La giornata prometteva bene in questo insolito autunno, perché mentre
viaggiavo sull’autostrada, un bel sole rosso sorgeva basso all’orizzonte
e la bruma mattutina lo mostrava in una perfetta elisse.
Arrivato a Mantova, puntai subito verso Piazza Sordello in cerca di un
parcheggio, ma non trovandolo, attraversai il lago per entrare in città
dalla parte opposta.
Al di là del ponte, sbagliando strada, mi trovai su un viale alberato
dove vidi alcuni ex lagunari che si preparavano per la sfilata e a
conferma di ciò, lessi il cartello “ARRIVEDERCI A BIBIONE”.
Seguendo l’indicazione turistica ‘Palazzo Te’ rientrai di nuovo in città
e prosegui verso il centro in direzione della cupola della cattedrale,
sicuro che prima o poi sarei arrivato alla meta.
Non potendo proseguire oltre per i cartelli di divieto, parcheggiai in
un ampio spazio attrezzato e dopo cinque minuti di strada a piedi,
sbucai in Piazza Sordello dietro il palco delle autorità.
Qui in piazza, degli altoparlanti diffondevano delle arie di musiche
patriottiche e in quel preciso momento, riconobbi le note di ‘Monte
Grappa tu sei la mia patria’. Un giro in questa ampia e bellissima
piazza, per rendermi conto dell’insieme e vedere come era organizzata
questa manifestazione.
Militari in divisa di altre armi, bandiere, labari, sindaci con la
fascia tricolore; gente importante che venivano a dare i loro omaggi a
questo corpo.
Andai dalla parte opposta della piazza da dove sarebbe partito il
corteo, per vedere l’unica compagnia di ‘baffi’ ospiti di questa
manifestazione. Dopo tanti anni ero curioso di osservarli dal vivo
questi ragazzi, per vedere chi erano, com’erano equipaggiati, che
armamento tenevano, ecc.
Tutto era tranquillo in quel momento, ma si percepiva un’aria d’attesa
per l’inizio della manifestazione. Da lontano si vedevano già pronti,
gruppi di persone inquadrate e ordinate, in attesa che gli organizzatori
li facessero entrare in piazza per questa grande festa.
Invece, ad animare quell’angolo della piazza in quel momento, c’era un
gruppo di donne con il fazzoletto da lagunare al collo, che con
gridolini e schiamazzi, attiravano l’attenzione del pubblico presente.
Sicuramente saranno state le mogli dei partecipanti, che il nostro
presidente alla fine ringrazierà come grandi collaboratrici del
movimento; chissà cosa avrebbero pagato queste signore, per poter
sfilare in corteo con i mariti.
Dopo poco iniziò la manifestazione con in testa la fanfara, poi a
seguire la compagnia di ‘baffi’, che ben inquadrati e perfetti
nell’esecuzione dei comandi militari, si avviarono verso il fondo della
piazza, di fronte al palco delle autorità. Si accodarono poi le
bandiere, i labari e per ultime le delegazioni di ex delle altre città,
che lentamente si ammassarono ordinati, affiancandosi ai gruppi già
sistemati.
Io volendo seguire da vicino la manifestazione, mi spostai in fondo alla
piazza a fianco del palco, da dove vedevo di traverso le autorità, ma
potevo così seguire da vicino lo svolgersi della manifestazione.
Iniziarono con gli onori alla bandiera e alle autorità, poi prese la
parola il Presidente Saltini, che cominciò spiegando l’importanza di
questo avvenimento, ma a causa del rimbombo della piazza e i postumi di
un’otite cronica, non capivo quello che l’oratore stava dicendo.
Decisi così di spostarmi sul davanti del palco, dove trovai un posticino
libero dopo tre file di tavolini, di gente impegnata a gustare
l’aperitivo o qualche bevanda gassata.
Non era gran che come vista, perché tra un’infilata di nuche rasate, di
lagunari schierati, vedevo solamente uno parte del palco delle autorità.
Inoltre il controluce di quel giorno, sbiadiva la vista delle persone
sul palco, che oltre ad essere lontane, a me erano anche sconosciute; di
positivo da quella posizione, percepivo bene quello che l’oratore voleva
dire.
Pensai di avere risolto il mio problema, ma ad un tavolino di sole donne
davanti a me, squillo il cellulare a una di queste. La più robusta del
gruppo, rispose immediatamente con voce alta e squillante, per poter
contrastare la voce dell’oratore e per dare forza a ciò, la ‘morbidosa’
gesticolando di colpo si alzò, occultandomi la poca visuale conquistata
fino lì. E’ inutile dire a questo punto, che anche il discorso
dell’oratore andò a farsi benedire.
Me ne andai seccato e decisi di fare un giro nel resto della piazza non
occupata, dove vidi due lagunari di piantone a uno degli ingressi del
Palazzo Ducale. Mi avvicinai al primo per scambiare qualche chiacchiera;
un giovanotto alto, ordinato e di bell’aspetto. Mi venne in mente la mia
giovinezza e il tempo trascorso indossando quella divisa; pensai tra me
e me, chissà se anch’io a quell’età avevo un aspetto così fiero da
guerriero?
Avvicinandomi lo salutai, sicuro che la cortesia sarebbe stata una delle
altre sue qualità, gli dissi di essere anch’io un ex e lui si dispose
per ben ascoltarmi per soddisfare ogni mia curiosità.
Vidi che portava al collo un fazzoletto che non avevo mai visto; il ‘mao’
ricamato in oro al centro del petto. Chiesi spiegazione di ciò e lui mi
rispose che da qualche anno davano in dotazione quel tipo di fazzoletto.
Io con delicatezza sfiorai quel leone dorato, come fosse una reliquia
benedetta, il lagunare sorpreso di quel gesto, lasciò fare e sorrise con
affetto.
Avevo altre domande da fare in quel momento, ma un vuoto di memoria mi
impedì di chiedere altro, quindi gli augurai una buona giornata e me ne
andai ugualmente contento.
Ritornai di nuovo verso il palco, che l’oratore ormai il suo discorso
aveva finito. Attesi lo sviluppo degli eventi, che dopo poco si
concretizzarono con l’arrivo del Ministro
Ripresero poi i discorsi degli oratori con il Sindaco di Mantova per
primo, segui di nuovo il nostro presidente ed infine un ufficiale che fu
quello che mi piacque di più, perché non lesse il suo breve discorso, ma
parlando a braccio come si fa sempre, mise un po’ di passione nella sua
asserzione.
Poi tutto finì, perché una parte delle autorità se ne andarono dalla
piazza, tra la gente pressante che voleva vedere. Se ne andarono la
fanfara e la compagnia di lagunari, tra gli applausi di tutta la gente.
Alla fine se andarono anche il resto degli uomini presenti, per
partecipare tutti insieme alla sfilata finale.
Rimasto solo sull’angolo della piazza, sentivo suonare le campane a
distesa, guardavo turisti in cerca di souvenir, più in là qualche gruppo
gridava “San Marco”, la stanchezza ai piedi si fece sentire, decisi
anch’io di andarmene da lì.
Ritornai pia piano da dove ero arrivato, pranzai con un panino e una
birra ad un bar li vicino, comprai la ‘Sbrisolona’ come ricordo di quel
dì e me ne tornai a casa tutto soddisfatto e appagato.
Mentre viaggiavo sulla strada del ritorno, mi vennero in mente tante
cose di quella giornata; i colori di quella bellissima piazza, i suoni
di gente allegra e felice, le immagini di quei splendidi ragazzi in
divisa e a causa di ciò, di qualche ricordo di un remoto e spensierato
passato.
Ma a ronzare nella testa pressante e persistente, una frase pronunciata
dal palco da uno dei tanti ufficiali, perché ribadì davanti a tutti i
presenti, che “…i lagunari, sono persone speciali!”.
Mi inorgogliva l’affermazione così bella di questo bravo oratore, perché
io da sempre lo sapevo e la custodivo dentro il mio cuore.
Lagunare Angelo BOARETTO
Vigevano, 4 novembre 2011
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