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Storie di lagunari

- Dino Doveri -

  
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Lagunare Dino Doveri

Villa Vicentina 2° contingente 1966

Sezione di Jesolo

e-mail: ddoveri@associazionelagunari.it

Archivio Fotografico di Dino Doveri

  
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Subject: Puntata 0.
Date: Lun, 04 Giu 2007

 

Questa è la puntata ventesima ma siccome parla di C.A.R., del quale non volevo raccontare ma poi ci ho ripensato su, la mettiamo prima della prima e quindi assume il numero 0.

Il Maresciallo dei Carabinieri che mi ammolla la famosa “cartolina rosa”, dice che è obbligo presentarsi puntualmente entro il giorno indicato, presso la destinazione prevista.

Si parla di un fantomatico “28° Reggimento Fanteria Pavia -  C.A.R.” in quel di Pesaro.

Dove è ubicato Pesaro?

Consultazione sintetica di una carta stradale ed individuazione del posto.

Insomma…

E’ abbastanza lontano ma discretamente vicino.

Dopo realizzerò che queste erano considerazioni del tutto superflue perché per quanto riguarda il C.A.R., un posto valeva l’altro, tanto a casa non ci si tornava prima della fine e forse sarebbe stato importante…si fosse fatto su e giù un paio di volte la settimana tra Pesaro ed il paesello…

Lavoro in quel momento. Ed il buon titolare dell’azienda in cui sono occupato, mi appioppa proprio il giorno prima della partenza, un viaggetto mica male per cui arrivo a casa a notte inoltrata e stanco morto; decido di partire con un giorno di ritardo.

I ricordi prendono configurazione narrativa alla stazione di Bologna: debbo attendere la coincidenza per Pesaro e ci vorranno ore.

Chissà perché, si vede che ci assomigliavamo un po’ tutti con la valigetta di fibra e l’aria imbambolata di coloro che per le prime volte si trovano vaganti per le sconosciute vie del mondo; attacco bottone con un altro simil-marmittone e volere del caso, il tizio va pure lui a Pesaro.

Decidiamo di aspettare assieme.

Le ore da attendere sono molte e quindi si opta per il pranzare in qualche trattoria.

La scelta cade in un locale con tavoli sotto i portici (a Bologna i portici sono onnipresenti), a qualche centinaio di metri dalla famosa stazione che poi come sappiamo, divenne teatro di un’angosciosa pagina del terrorismo nostrano.

Fa, sotto il porticato,  bella vista un cartello che promette il pranzo completo a prezzo incoraggiante.

Le finanze esistenti in saccoccia sono disperatamente povere, quindi…si opta.

Naturalmente siamo a Bologna e dopo breve ma convergente consultazione, facciamo scorpacciata di “tourtelen” al sugo e Lambrusco di Sorbara frizzante.

Micidiali!

Un bruciore di stomaco che mi accompagnerà per due giorni!

Manca un’oretta ancora, anzi, quasi due,: bighelloniamo per Bologna e capitiamo davanti alle due torri, emblemi della città: Torri della Garisenda “…qual pare a riguardar la Garisenda ‘sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada sovr’essa… - Divina Commedia - Inferno”, e degli Asinelli.

Che si fa?

Decidiamo di salirne una che poi è la più alta, quella degli Asinelli alta metri 100; l’altra non è accessibile ma sarebbe la più bassa…

Mai impresa fu così sofferta.

La salita è faticosissima e si va su in “arrampicata” a ripidissimi scalini; arriviamo alla sommità oramai annaspando a quattro zampe e boccheggiando come pesci rossi quando cambiano l’acqua alla boccia, e come forbitamente si dice, “gatton-gattoni”, salendo gli ultimi stretti e ripidi gradini consunti da migliaia di obnobulati arrampicatori come noi; senza fiato, prossimi a rigettare sulla Città di Bologna,  detta “La Grassa”, i tortellini al sugo poc’anzi ingurgitati con vorace determinazione.

In debito d’ossigeno, lucine che si accendevano e si spegnevano davanti agli occhi, buttiamo una rapida occhiata al panorama di tetti dell’emiliana città, un giro panoramico da dove scorgiamo la famosa “Montagnola” dai leggendari e lussuriosi accrediti, e ci rendiamo conto che è già ora di cavalcare di gran corsa verso la stazione ferroviaria per agguantare il trenino per Pesaro.

Arriviamo alla stazione di Pesaro nel primo pomeriggio.

Come scendiamo, c’è un gruppetto composto da un sergente (ma in quel momento i gradi manco sapevamo com’erano e poteva essere pure un ammiraglio…), ed altre reclute arrivate da chissà dove.

Ci intruppiamo e dopo un’oretta buona saliamo in un camion che ci scarica in una caserma che ci appare, così di prima impressione, infinita. Le caserme in effetti, sono due e solo una strada le separa, e per la verità, occupano uno spazio molto, ma molto ampio.

Il tizio con il quale ho fatto il viaggio, andrà chissà in quale compagnia e raramente lo rivedrò ancora.

La Seconda Compagnia è la mia.

Tenente Magni, mi sembra il Comandante.

Branda. Sistemiamo le masserizie, cerchiamo di capire ‘sta branda. Alla fine ne viene fuori qualche cosa simile ad un giaciglio di fortuna; sono al secondo piano e quindi sotto di me c’è uno che manco conosco e che mi crea disagio: considero che le flatulenze salgono verso l’alto (essendo composte di gas)…

Mangiamo la sera: un’impatto!

Speriamo meglio nei prossimi giorni.

La notte è lunga, il numero di persone in camerata è nutrito, urli e russamenti e scorregge a più non posso, caldo insopportabile, puzza di piedi sudati e anche di qualche cosa d’altro.

Dai cessi, sito ad oriente dello stabile, s’insinua con arietta supponente e umida, un olezzo di tonnellate di quella cosa li, scaricata negli anni attraverso i sanitari ubicati in loco.

Una meraviglia.

Le porte dei cessi sono prive di blocco e, sconcertante, sono metà di una porta normale, ovvero manca la mezza parte superiore… ; tu sei li concentrato sull’incombenza, e arriva sempre quello che caccia dentro la testa per vedere se il posto è libero: la deconcentrazione è automatica.

S’imparerà ad andare in cesso con un asciugamano che si apporrà sopra la mezza porta, a significare: “guardate che qui ci sta uno in posizione a uovo…”

L’acqua di Pesaro ha un gusto di olio di semi e non lava!

Non si riesce a far fare al sapone, la pur misera parvenza di schiuma.

La prima volta che riusciamo a mettere il naso fuori della caserma, constatiamo che l’acqua a Pesaro è così; misteri dell’allora tecnologia idrica.

Il giorno dopo comincia tutta la serie di operazioni che allontanano il mondo civile e ti scaraventano nella vita militare comune: urla, recluta qua, recluta la, “muoversi, muoversi”, “sveglia che è già girono inoltrato…”, non sei più Tizio Caio, ma recluta Caio (esclusivamente prima il cognome e poi il nome…forse), II° Compagnia, 28° Rgt. Pavia Fanteria Car.

Cacci dentro la tua valigetta tutta gli indumenti civili e ti raccomandano di non tener nulla che tanto non ti servirà nulla delle tue ex cose per i prossimi tredici quattordici mesi.

Incolli un’ etichetta sulla valigia e mentalmente dai un addio alle tue cose ed alla vita “borghese” e lo Stato rispedisce il tutto al paesello d’origine.

Vestizione.

Dopo un paio di giorni, tutti in un grande ambiente seduti su degli sgabelli marrone ed uno alla volta siamo chiamati a caricarci di tutto il corredo necessario per il prosieguo dell’avventura.

Qui si raccontano cose inenarrabili: taglie ed assegnazioni da circo equestre.

A me invece capita che a parte il cappotto, mi imbroccano tutto.

Qualche sistematina in seguito, al reparto, ma nulla di tragico.

Il cappotto invece è lungo assai. Arriva quasi alle caviglie ma nuovo e sembrerebbe anche “caldo”.

Ci penseremo al momento opportuno, siamo in Giugno e l’ultimo problema è il cappotto.

Gli anfibi sono belli nuovi di pacca, ma “vergini”…

Rigidi e durissimi quel tanto che basta a crearti durante le interminabili sedute d’addestramento formale, dei vesciconi giganteschi al tallone ed alla pianta del piede.

Vado in infermeria e mi faccio regalare un paio di fasce (in cambio di cinque nazionali esportazione con filtro), con le quali avvolgo le parti sollecitate del piede e così facendo riduco di molto la formazione di vesciche che poi rompendosi trasudano all’interno della calzatura, prima liquido e poi sangue.

Non male come primo impatto.

Indumento inconcepibile risultava invece la “mutanda tattica”, specie di boxeroni al ginocchio con allacciamento a cordella e fessura sul davanti per le necessità liquide; di una tela ruvida e micidiale, di certo usarli sarebbe costato il danneggiamento perenne dell’apparato genito-urinario. Accantonati subito e definitivamente.

Non male anche la scarpa cosiddetta “da ginnastica” che tutto potrà essere stata, fuorché adatta a prestazioni sportive.

Zaini e zainetti poi costituiranno in sostanza, l’ “armadio” dove riporrò le mie cose per tutto il resto della durata della naja.

Un attimino antipaticucci erano anche gli scarponcini da libera uscita; un po’ troppo tondi ed un po’ troppo “recluta dannata”.

L’universo umano componente la comunità del CAR è un campione di tutte le regioni d’Italia; i dialetti comprensibili, pochi, e poi bisogna convertirsi giocoforza alla lingua nazionale.

Colui che proviene dal Veneto, di solito è convinto che il dialetto della sua regione sia comprensibile quanto dai Maori della Nuova Zelanda, tanto dagli Innuit dell’Artide, e quando il meridionale di turno pronuncia l’inevitabile frase “ ma cercassi di parlare in italiano… che non si capisce una minchia!”, si sfiora quasi sistematicamente lo scontro diretto.

Poi visto che pure il Ligure ed il Lombardo, il Toscano ed il Piemontese insistono e reiterano la richiesta di parlare comprensibilmente, allora scatta nel cervello del Veneto che, forse, forse si…sarà FORSE possibile che gli altri non capiscano.

Strano però: il dialetto veneto è così comprensibile… I Veneti lo capiscono tutti…

In attesa della cosiddetta “vestizione”, a proposito di “lingue”, capita che chiamano un tizio il cui cognome finisce in “uddu”: alto, biondo, fisicaccio potente e massiccio, che delle caratteristiche somatiche del sardo ha proprio nulla: la zazzera non ancora “regolata” dal barbiere reggimentale appare in una inusitata ed antica foggia medioevale “a scodella”, veste un completo doppiopetto nero gessato di foggia fine conflitto mondiale, il secondo conflitto…naturalmente, e camicia bianca senza colletto come s’usava nei tempi della “belle epoque”.

Calza due scarponacci che quelli da rocciatori non c’hanno nulla a che fare; suda come un dannato perché la giacca non se la leva ed anzi la tiene strettamente abbotonata.

Si presenta al bancone della distribuzione indumenti e l’addetto gli chiede mi sembra, qualche cosa che ha a che fare con la taglia e le sue misure: questo pronuncia due o tre parole incomprensibili e tutti e due si guardano negli occhi in attesa di qualche cosa che sblocchi la situazione.

L’addetto ritenta parlando in un italiano lento lento, ma l’altro mezzo imbarazzato e mezzo sull’incazzato, mitraglia una serie di frasi di cui non si capì una, dico una, parola.

Si chiama un Maresciallo, il Maresciallo perviene, valuta e manda a chiamare un altro tizio in forza stabile al CAR. Naturalmente Sardo.

Ne esce un colloquio irreale e per certi versi improbabile ma vero: il Maresciallo chiede al responsabile, il responsabile dice al Maresciallo, il Maresciallo all’interprete, questo traduce dall’italiano al sardo e ripropone la domanda all’ “uddu”, questo riassicurato della familiarità dei termini, risponde baldanzoso, quindi l’interprete ritraduce dal sardo all’italiano e comunica i dati al Maresciallo ed il Maresciallo al responsabile vestiario.

La giacca perennemente chiusa, nascondeva una cinta di corda.

In pochi minuti riescono a conferire il corredo al nostro amico del Gennargentu.

Infatti il nostro, si viene a sapere, espleta la professione del pastore tra le pendici del predetto massiccio montuoso.

Sarà poi benvoluto da tutti e tutti o una sigaretta o un bicchiere glielo offrivano con simpatia e , si riuscì anche a fare qualche chiacchierata. Seppure con difficoltà…

In camerata intanto si prende a fare tra gli occupanti; due parole con Oliva il calabrese, Nardi di Argenta, Zannantonio di Catania, Talon mio compaesano ma mai frequentato, Cirò di un paesino della Basilicata…

Il Zannantonio a livello branda a piano terra ed alla mia destra; è un universitario, facoltà di medicina, e nessuno si spiega cosa faccia li con noi; ma lui da buon siciliano, non esplica l’arcano; tutti però chiedono il suo intervento quando sono in difficoltà epistolari: “a Zannanto’, inquadrati si scrive con la c o con la q…?”

Con l’Oliva calabro, rischio “ ’na cortellata “ a seguito di un’esclamazione in puro stile veneto-venetico: “ ma va’ in m..a de to sorea, va la!” detta senza cattiveria e malizia.

Invece l’Oliva nell’udire indirizzi alla sorella, tosto repentinamente estrae dallo zaino, un coltellone da “cavalleria rusticana” e mi insegue giù per le scale e meno male che troviamo ufficiali, sennò se mi agguanta…

Poi, pian pianino a spiegargli, supportato da altri veneziani, che il mio era un modo di dire gergale in forma dialettale e senza destinazione specifica…ma solo un, diciamo così, un parlare figurato.

Gli passò dopo un paio di giorni, tant’è che quando arriva il “pacco di conforto” da casa, distribì me compreso, pecorino e salame al peperoncino; ma quelle due notti le passai abbastanza sul chi va la, con un occhio chiuso ed uno aperto…

Il principio lo schioppo fu la carabinetta cosiddetta “Winchester”; i primi due o tre giorni, li a scarellare tutti come assatanati visto che un attrezzo così, quasi nessuno lo aveva non dico preso in mano, ma manco veduto.

La carabinetta tenuta a “bilanc-arm” e cioè portata durante l’addestramento con il palmo della mano, diventa con il passar delle ore, pesante assai.

Ma poi arriva il Garand, che durante le soste terremo sulle rastrelliere nel corridoio centrale della camerata, nell’addestramento formale diventa un peso micidiale e la gente comincia a manifestare la patologia del “polso del tennista”.

La commediola del “reclutata, presentati!”: “recluta Tal dei Tali (anzi, prima il cognome e poi il nome e quindi: dei Tali Tal…), II° Plotone II Compagnia, ecc. ecc.

“Non sento! Vai più lontano e urla!” E si che l’esame dell’udito lo facevano anche ai graduati, Sottufficiali ed Ufficiali; che ci fosse in corso un’epidemia di otiti purulente?

Un Caporal Maggiore “motivato” prende in mano il plotone al posto di un sergente buonanima oramai somatizzato: ci fa girare senza sosta per tutto il giorno.

La gente ulula e mugugna, il caldo opprimente, il sole a picco di un giugno bollente e caldissimo.

Un pomeriggio, il termometro è sui 32/34, nasce l’insubordinazione: ci sediamo per terra e non ci muoviamo più; questo sbraita, urla e minaccia ma la gente sta seduta.

Il Caporal Maggiore fa l’errore di chiamare il Comandante di Compagnia.

Questo ci fa muovere (e chi resiste a due stelle d’oro sulle spalline?), ma poi si chiama ‘sto Caporal Maggiore a parte e li ne vengono fuori di tutti i colori: il Caporal Maggiore andrà ad altra Compagnia.

Il caldo era allucinante: c’era una specie di locale dove gli antesignani dei distributori automatici di bibite, venivano presi d’assalto ad ogni intervallo.

La mia bibita era un bicchierotto da 330 cl. dove veniva mescolata dell’acqua gasata ghiacciata ed una dose di sciroppo al gusto di gazzosa (di “Sprite” si dice oggi); me ne ingolavo una decina al giorno perché avevamo con quelle marce, sempre una terribile sete.

Il locale era una specie di zona franca, si chiacchierava, si fumava l’ennesima sigaretta, si facevano programmi per uscire in libera uscita.

Un giorno capitò che ci si incontrasse con il già celebre cantautore Pino Donaggio che a quanto sembrava, la popolarità non aveva risparmiato la naja.

Il Donaggio già aveva partecipato ad alcuni Festival di San Remo e in effetti era un apprezzato autore e ottimo cantante e le sue “Io che non vivo senza te” e “Come sinfonia” a mio avviso e gusto, erano (e sono), delle bellissime cose.

Giovanotto affabile e debbo dire per niente sopra le righe; si comportava come uno di noi e poi era veneto e si parlò in dialetto…

Poi non lo si vide più: è probabile che la fama in qualche modo gli abbia dato delle chance maggiori delle nostre.

La libera uscita, la prima in assoluto, mi vede a fare la recluta per antonomasia: penso di aver salutato militarmente, pure l’appuntato dei carabinieri ed il portiere dell’albergo in divisa...

La destinazione era la trattoria dove la pizza ed il sangiovese locale andavano giù con una certa fluidità.

Qualche “attacco” lungo la passeggiata sul lungomare, alle ragazze del posto, giocherellone, civettine ma al di la di un braccio attorno alle spalle, non si andava.

A Pesaro c’erano le prostitute che com’è noto dove ci sono militari attecchiscono meglio, almeno ai tempi… ma con molta sincerità ammetto che non era cosa sulle mie corde.

Per altro, le prime libere uscite, qualche reclutaccia autodefinitosi “in fregola”, per far vedere che aveva avuto un rapporto a pagamento, rientrando andava nella cosiddetta “sala celtica” per la spiacevolissima funzione di disinfezione: la cosa era così “bruciante” che poi se ne videro pochissimi effettuare tale operazione di profilassi alle malattie veneree.

Si va a sparare nel comprensorio deputato alla funzione: trattasi di porzione di spiaggia dove è installato un poligono all’aperto. Bersagli che vanno su e giù, postazioni su una bassa dunetta a cento metri dall’obbiettivo, un muro protettivo per il lancio della bomba  a mano, il tutto in un ‘area recintata di pertinenza militare.  Dopo una bella marcia sotto il sole ci si inquadra sugli appositi terrapieni di fronte ai bersagli.

La prima esperienza e con il ’91: un fucilaccio sgangherato e vecchio che pigliare i bersaglio era già un problema.

Il rinculo è per certi versi, una sorpresa: una scalciata alla spalla che mai avresti creduto; ma d’altro canto chi mai ti aveva detto che per mitigare il rinculo devo premere il calcio alla spalla?

L’istruttore? Giammai!

La seconda volta è con il Garand: nessuno ti dice dell’assetto di mira, nessuno ti dice dell’alzo, il brandeggio della diottra di mira, nessuno ti dice dove mirare; l’importante è non ammazzare qualche collega vicino.

La presa per il deretano, (ma quando mai in Italia ci si comporterà come in un paese normale), è che poi ti danno anche i punteggi e quelli poi vengono segnati in una graduatoria. Graduatoria ufficiale e come fosse una cosa seria.

Ora capisco (ma allora non lo capii),  perché è difficile che si vinca qualche guerra. E temo che così è stato e così sarà. Sempre.

La bomba SRCM diventa la macchietta del momento: ci dicono che l’ordigno ha effetto psicologico!

Boh… Sarà anche giusto così, ma bravi chi ci capisce.

La famosa “puntura”: iniezione di una miscela di vaccini.

Si inietta nei muscoli pettorali.

Tutti in fila a petto nudo. Passa un infermiere (?) con un barattolo di tintura di jodio e ti spennella con un pennello da vernice la porzione di cute da perforare.

Passa un altro medico (?), forse infermiere (?) e ti fa l’iniezione.

Uno su venti, di media, sviene.

Poi ti danno un giorno di riposo perché potresti anche sentirti male.

In effetti pure a me, una certa sensazione di febbre si manifesta, ma non si può misurare perché dove lo trovi un termometro: vai a caso e dormi in branda sperando che l’indomani sia passato tutto.

Grande la naja!

Ad un veneziano, certo Fuin, viene il mancamento sul pianerottolo antistante la camerata e si fa tutte le marmoree scale con il cranio: viene portato via che gronda sangue.

Un altro dopo un paio d’ore da via di testa e vuole buttarsi dal balcone della camerata, primo piano: vengono a prenderselo in quattro ma invece dell’infermeria, lo indirizzano in cella, ovvero gattabuia.

Ogni tanto c’è il servizio nelle cucine.

Odio ‘sta roba. Ci sono delle marmitte alte quasi sino al petto e larghe un metro buono.

Le devi pulire. Te le schiaffano in una bolgia da girone da inferno dantesco, un locale tipo lavanderia; il pavimento è coperto da uno strato di alcuni centimetri di residui alimentari.

Calpesti rigatoni e patate, sugo di ragù, e rimasugli di insalata; ti danno una scopa (avete capito bene, una scopa!), e con quella devi pulire internamente la gigantesca marmitta.

Detersivo niente. Di nessun tipo. Detersivo non esiste!

Ti avvisano pure che dopo, quando riporti le marmitte, c’è l’addetto che passa il dito sulla parete interna della marmitta e se il dito riporta dell’unto, te ne torni fuori a rilavare e rigrattare fin che l’unto sparisce.

Ora, arrivare a questi risultati senza detersivo, è pressoché impossibile.

Ma la necessità aguzza l’ingegno.

Siamo in tre per marmitta; la portiamo fuori in mezzo al campetto antistante la bolgia dantesca, io ci monto dentro, naturalmente con gli anfibi ai piedi, gratto via con un coltello tattico, i rigatoni al ragù incollati sui bordi, faccio raccogliere due palate di terra e sabbia e le butto dentro la pentolona.

Poi con la scopa e ‘sta terra e sabbia comincio a strofinare le pareti; quando non ce la faccio più, subentra il collega e poi il collega ancora.

Dopo ‘sta cura la marmitta è lucida e splendente e passa l’esame dito.

L’onore è salvo, l’igiene naturalmente meno.

Furono periodi in cui le epatiti virali imperversavano nelle caserme e nessuno riusciva a spiegarsene il motivo…

Naturalmente se qualcuno avesse controllato la  effettiva distribuzione del detersivo, si sarebbero trovati registri e documentazione in “regolissima”, come si conviene per tutti gli apparati statali dell’italico paese.

Il vitto, che in un primo momento mi era apparso obbrobrioso, giorno per giorno invece, diveniva sempre più gradito; con quelle scarpinate e le lunghe ore di addestramento su è giù per la ciclopica caserma e non dimentichiamolo, l’appetito dei vent’anni, quando ci si parava davanti il rancio, tutto veniva spazzolato con voracità

La colazione alla mattina, ci fa scoprire la “gamella” ovvero il gavettino, oggetto che mai in vita nostra avevamo toccato o veduto: in alluminio con un manichetto metallico pieghevole.

La “gamella” ci serviva per il caffellatte alla mattina, e come bicchiere per il rancio.

Si andava nelle vicinanze della cucina e li una banda di bisunti cucinieri ci schiaffavano una mestolata di caffellatte dal gusto all’olio di semi (di qui la convinzione che la famosa acqua di Pesaro fosse l’ingrediente più presente in tale indefinito liquido), un formella di marmellata incelofanata della premiata ditta Zuegg e le diaboliche gallette che proprio non andavno giù a nessuno.

La fame del mattino era tale che, gallette o non gallette, facevo sempre un secondo giro.

La salvezza degli appetiti era però costituita dagli ambulanti che si piazzavano tra le carraie sulla strada che separava le due caserme contigue; cinque o sei carretti sui piani di carico dei quali erano costruite delle vere opere d’arte a piramide i cui “mattoni” erano quelle paste, ciambelle, come volete chiamarle, che molti storpiando il vocabolo tedesco, chiamano “craft” ma che li si chiamavano “bomboloni”: fritti e ripieni di una crema pasticcera d’infima qualità, costavano un’inezia ed in genere l’acquisto prima di arrivare al percorso di guerra, era di cinque pezzi.

Gli stomaci erano tipo betoniera e neanche l’esausto e stravecchio olio di cottura poteva crearci problemi digestivi: dopo un paio d’ore, l’appetito si destava lancinante.   

Arriva il “Giuramento”.

Lustra e spazzola, stira ed ammira, lava e cuci, la divisa per l’avvenimento viene preparata con grande cura.

Belli, tirati lindi e stirati alla perfezione, Garand lucenti e lucenti gli anfibi.

Una piazza d’armi imponente e le reclutine inquadrate alla perfezione.

Un boato alla domanda “Lo giurate voi?”

Un “Lo giuro!” che fa venire i brividi; i parenti applaudono, le fidanzate gongolano e le mamme piangono.

Usciamo dalla caserma e facciamo una sfilata per le vie di Pesaro; siamo “imbacchettati”, rigidi e marziali che sembriamo dei burattini a molla; non una baionetta fuori squadra, non un anfibio che tocchi terra prima o dopo la cadenza data, non una mano che si alzi o si abbassi fuori tempo.

La gente ci applaude. Non come ora che qualche “arcobalenante pacifinto” fischia i militari anche alla sfilata del 2 Giugno.

Le Autorità si compiacciono, apprezzano, gradiscono e a loro volta applaudono. Non come ora che presenziano a muso duro per dovere d’incarico, alle sfilate militari con la pulce da giacca riproducente bandiere variopinte in cui fa bella mostra la parola “pace”.
Il pranzo che segue è finalmente ottimo (ci sono i parenti e soprattutto le mamme, e come ben sappiamo, non c’è organismo militare che possa sotto soprasedere sulle mamme italiane).

Addirittura arriva il dolce. Cose incomparabili e superbe avvengono a volte.

Cose dell’altro mondo.

Nel periodo, consolido due grandi amicizie: il Bari ed il De Prà, ambedue di Mestre.

Loro poi saranno destinati a Villa Triste ed invece io a Malcontenta.

Però il futuro ci avrebbe riservato di ricomporre il trio entro breve termine; ma chi allora poteva immaginare tali strabilianti eventi?

Si configura la destinazione ai reparti che ci vedranno ospiti, si fa per dire, per tutto il resto della naja..

Si vocifera che coloro che pigliano quel treno verso Venezia, hanno buonissime probabilità di finire nei Lagunari.

Che qualcuno sapesse poi, dove stavano di preciso ‘sti Lagunari, non era dato.

Si favoleggiava di ubicazioni quanto mai varie e nebulose; qualcuno di Mestre era sicuro che dei militari che potrebbero essere stati anche Lagunari, si vedevano delle volte vicino ai “Quattro Cantoni” e dintorni; altri parlavano di qualche cosa attorno a Marghera, ma di idee precise non ne esistevano.

La sera prima della partenza avviene il finimondo.

Brande giù dalle scale, materassi nei cessi e fuori della finestra, gavettoni come se ci fosse il temporale, di quelle ciucche che c’era gente che dormì tutta la notte sul percorso di guerra.

“E’ finita!” ed ancora, “è finita!”

E non era nemmeno cominciata.

Arriviamo alla stazione ferroviaria di Pesaro verso metà pomeriggio.

Ci caricarono stipati in pochi vagoni di terza classe, come “sardee in saor” verso le 22:00.

A me toccò un anfratto vicino al locale-cesso.

Mi accoccolai seduto sopra lo zaino-valigia e attesi.

Mica si sapeva dove si sarebbe arrivati: Venezia era un speranza ma certezza, nessuna.

La linea era quella ma poi chi ti assicurava che non si sarebbe potuti proseguire oltre Venezia, magari Udine o Trieste?

Da Pesaro a Mestre non sono poi molti chilometri: partimmo alle 23:00 ed arrivammo a Mestre a alle 09:00 del giorno dopo: tradotta militare ovvero, sono giovani e forti. Che soffrano!

Passai una notte ad alzarmi e sedermi sullo zaino per via del cesso che era, giustamente e regolarmente, preso d’assalto.

All’alba, fermi in qualche binario attorno a Padova, ci scopriamo distrutti ed anchilosati, semi addormentati e rincoglioniti dal viaggio drammaticamente lungo.

Quando ci sbarcarono sulla banchina della Stazione di Mestre, e vedemmo quei militari che ci stavano attendendo e che portavano uno sconosciuto basco nero con uno strano fregio sul quale faceva bella mostra un’ àncora, ed alla spalla sinistra un cordone multicolore ed un distintivo che effigiava un leone alato appuntato sul taschino della camicia, scattò l’intuizione della certezza: eravamo stati assegnati ai Lagunari.

Porca la peppa! Nei Lagunari! Nei famosi Lagunari! Nei mitici Lagunari…

Pacche sulle spalle e compiacimento, senso di successo e realizzazione.

Saluto con una vena di commozione il Gianni ed il Dario che se andranno in un CM che non è il mio; dicono che va in Friuli.

Mi dispiace assai perché eravamo congeniali gli uni agli altri.

Chissà, ma me lo sentivo che li riavrei rivisti…

I Camion ci portarono verso un canale dove attraccato alla banchina c’era quella strana imbarcazione la cui prua era costituita da un portellone che si apriva.

Si..si,si!

Il sergente dal cordone multicolore incalza “ tutti a bordo dell’ MTP e cercare poi di non vomitare dentro…”

La strana imbarcazione venivo a saper in quel momento, veniva chiamata MTP; non è quella che abbiamo ora in dotazione, che sembra “Luna Rossa” da tanto e “sintetica” filante, bassa di murata, ed idrodinamica. Era un “barcone” metallico con una “plancia” scoperta dove trovavano posto il pilota e gli inservienti: il resto era tutta “vasca da bagno” per Baffi Lagunari.

Erano quei mezzi che avevo visto tante volte nei film dello sbarco in Normandia, e da dove sbucavano impavidi ed avidi di vittoria i Marines dei film della Universal Pictures.

A ri-porca la peppa: eravamo diventati “baffi”dei Lagunari.

Chiedo al Tizio che smadonna con una cima attorno ad una “bricola”: “dove si va?” e lui “al Lido!”

“Quale lido?” chiedo io; quell’altro seccato mi risponde “al Lido! Al Lido! Quanti Lidi ghe xe baffo ignorante?”

In verità ci sono una miriade di Lidi: Lido di Jesolo, Lido di Cavallino ecc. ecc.

Ma per non aggravare la posizione di “baffo”, non replico e poi comprendo che per un Lagunare, di Lido, ce n’è uno solo: quello di Venezia.

Ciao, San Marco! Ed alla prossima ed ultima puntata.

Lagunare Dino Doveri.

 

 

Subject: 1ª Puntata.
Date: Dom, 10 Giu 2001

 

Ciao Presidente,

sono il Lagunare in congedo Dino Doveri, 2° 66 (quindi nato nel 1946), C.A.R. a Pesaro iniziato il 06-06-66, dopo, spedito al cosiddetto reggimento in Luglio 66, breve tappa al Comando di Reggimento alla "Pepe" del Lido, apertura del portellone dell'MTP che ci portava dal Tronchetto o Marittima che sia, al Lido, con effetto scenografico di grande impatto: ci aspettava sulla riva a gambe divaricate e battendo pigramente ma deciso, all'uso degli inglesi, una specie di frustino o tale io lo immaginai, un ufficiale con una toppa nera ad un occhio a guisa dei pirati dei film d'avventura!

Per noi super baffi, una visione terrificante. Già il fatto che i Lagunari che ci erano venuti a prendere con i mezzi a Mestre, calzavano il "mitico" basco nero, per noi che indossavamo la maledetta "tecia" canoa color caki, era già leggenda di appartenenza a chissà che anda di esaltati di corpi speciali.....ci metteva in una situazione di attesa e panico indicibile, vedere 'sto tizio che sembrava trasudare voglia di consumarci lì, vivi e ancora caldi, accellerò la necessità di alcuni di noi di espletare urgentemente le funzioni corporali che ci trascinavamo sin da Pesaro.

Breve sosta per venire primariamente innaffiati dai "vecchi" del Lido con tutto quello che c'era di liquido a portata di mano, quindi assunzione di un ributtante rancio condito con l'ingestione del fregio in plastica nera del Rgt. Pavia C.A.R., attesa snervante sotto il sole, per darci la definitiva destinazione. A me toccò di andare al Btg. Anf. Marghera a Malcontenta.

Ricondotti a Mestre e caricati a mo di bestiame sui camion per Malcontenta, venimmo sbarcati davanti allo spaccio.

Quando aprirono tendone e sponda, ci si presentò la visione più apocalittica della nostra storia di baffi. Sopratutto ci fecero una impressione boia i vecchi: appena rientrati da chissà quale durissimo addestramento, con le mimetiche bisunte e lacerate in più parti, sporchi sudati,a lcuni con il fazzoletto nero, altri con il fazzoletto tradizionale,i l basco nero sulle ventitre, noi che eravamo tutti belli lindi e azzimati da CAR,non volevamo neanche scendere dai camion. I degenerati ci aspettavano con le posate in mano al fine di mangiarci lì, prestamente. Abituati al CAR dove non andavi neanche al cesso se non inquadrati, vedere questi che se ne andavano in giro per la caserma frammischiati a Caporali Maggiori ed ai Sergenti alla bighellona, senza ordine, senza inquadramento ci fece temere il peggio: non un ufficiale od al limite un sottufficiale che ci difendesse dagli assalti di quei allupati da bolgia dantesca.

Quindi si presenta un Maresciallo e ci da incarico e destinazione di Compagnia. Sempre "fortunello" io; mi dice che sono assegnato all'incarico 110, Compagnia Mortai! Chiedo in giro, mi dicono che incarico 110 vuol dire farsi un c..o niente male anzi,il massimo. Scopro che il 110 equivale a Mortaista da 120 mm. Mi favoleggiano di addestramenti con dure e lunghe marce il tutto corredato di questo infame pezzo del Mortaio da 120 che uno dice pesa 30, l'altro 40, un altro ancora 50 Kili. Qualcuno parla del comandante di Compagnia,c erto Capitano Maddalena che per passatempo mangia i bambini,altri mi raccontano del Sergente Elisei mortaista, descritto come un distruttore di baffi e maledetto militare firmaiolo. Cominciano a venirmi i peli dritti. A remengo quella volta che mi hanno mandato presso 'sta banda di impazziti, maledetta sfortuna persistente, a remengo i Lagunari e tutte le storie che mi avevano raccontato su di essi e che mi avevano entusiasmato nella consapevolezza di andare a far parte di uno dei più pregiati ed "atipici" corpi dell'Esercito.

Nel mio intimo stabilisco che quì si fa la fine del sorcio, anzi del castoro che è un animale anfibio.

Andiamo in camerata alla Bafile, non dopo aver salutato il Leoncino posto su di una colonnetta a sinistra entrando, almeno una ventina di volte: i vecchi dal balcone sopra l'entrata dirigon con grande passione tutte 'ste manovre, alla fine arrivo all'agognata branda con il recondito convincimento che avrei dormito. Un Sergente, certo Osvaldo Berto, mi ordina di fare da piantone fuori della porta della camerata per le prime tre ore di riposo e se qualche vecchio tenta di entrare, mi ordina di andare a chiamare l'ufficiale di picchetto.

Rientrano i "nonni" dalla libera uscita, mi vedono più rincoglionito dal sonno che mai,s anno che il momento e molto delicato, cincischiano, qualche parola per minacciare ritorsioni o altro, ridono,rompono le p...e ma poi se ne vanno in branda.

All'una vado a chiamare un altro che mi dia il cambio; mi viene da vomitare da quanto stanco sono, mi appisolo,sento urla,grida, tonfi su per il muro, poi il sonno ha la meglio e mi addormento non prima di aver raccomandato l'anima a qualche santo. Se fossi stato più pratico della faccenda mi sarei raccomandato l'anima a San Marco che come tutti i Lagunari imparano dopo, ha fatto parte come cappellano militare di un non meglio identificato Comado che stà molto in alto, anzi, altissimo. Adesso mi fermo perché faccio fatica a coordinare i ricordi ma al più presto vi do appuntamento per il seguito: tutta la naja.

Se qualche lagunare in congedo od in servizio si ricorda esperienze simili o vuol intervenire, io rispondo a tutti.

Ovviamente se qualche fratello di naja si colloca nel contesto sin qui descritto e vuole contattarmi, sono disponibilissimo a colloquiare.

San Marco!!!

 

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Subject: 2ª Puntata.
Date: Dom, 8 Lug 2001

 

Ciao Pierangelo, Presidente della Sezione ALTA di Bergamo.

Sono il Lagunare Dino Doveri e per quelli che non mi conoscono,sono quello che ha scritto la puntata precedente del 10 Giugno u.s.e che aveva come argomento il primo giorno d'arrivo al Reggimento, nel 1966.

A dirla qui, in parole povere,contrariamente a quello che speravo, nessun contatto è scaturito, ne per ricordare i tempi passati, ne per eventualmente disquisire su quanto era tra le righe, raccontato.

É anche vero,come Tu mi dicevi, che non tutti i Lagunari usano Internet e se anche vi fosse un uso da parte dei nostri, nella media, è proverbiale la scarsa propensione nel dialogo per una "forma mentis" ,che li vede in tutt'altre faccende,affaccendati.

Per cui insisto!

...."É passata la prima notte per noi "baffetti" al Marghera.Tutto è nuovo, tutto è diverso dal CAR;si teme di non sentire gli ordini a mezzo tromba, si teme di non capire gli usi che qui vigono, ci si guarda attorno per assorbire il più istantaneamente possibile, i nomi,i luoghi, le manie, le particolarità:..ma qui com'è la disciplina?...e con le libere uscite?...e con le licenze?...ma 'sti "nonni" sono poi così terribili?...ed i superiori in grado (cioè tutti) come sono?

Così via per interminabili momenti ma tanto non serve a niente perchè ad ogni impatto è una nuova esperienza, una sorpresa.

Senza tante cerimonie,come ho saputo si usava in altri Battaglioni, ci danno il "basco nero",a nzi due, accompagnati da due fregi da basco in filo giallo "Corona-Ancora-Fucili" che dobbiamo cucirci sopra nel tempo massimo non oltre il dopo rancio; ci consegnano invece,come fossero reliquie, sei coppie di MAO da polsino, un MAO da camicia estiva, uno strano paio di calzature in tela, ibrido manufatto con alcune somiglianze a stivali da acqua alta e da scarpe da pallacanestro (siamo nel 1966); quattro fori rivettati fanno bella mostra sulla suola! Noi, a domandarci a cosa caspiterina potessero servire: ci soccorre come sempre, l'onnipotente, l'onisciente "nonno" che ci degna di racconti di "sbarchi" descritti con una ferocia tale che quello visto sul film "Salvate il Soldato Ryan" diventa una cosa da "canoe".

A proposito di "canoe", il temine proprio, ci era totalmente nuovo, riuscivamo a mala pena ad interpretare quella gergale parola dandogli un significato che andava dal "diverso" al "sottoprodotto dell'Esercito", dall "inutile"all'"infimo" ma una cosa ci entrò subito in testa:

anche noi eravamo stati "canoe", ma da quel giorno, quel Leone di San Marco sfavillante sul MAO che dovevamo portare come unica mostrina, (anche quì il Lagunare era differente dalla "canoa" che ne portava due e sul colletto), ci consentiva di chiamarci e farci chiamare "Lagunare"!

Un ultimo oggetto ci consegnano prima di farci scattare di nuovo alle camerate:il foulard da collo del Reggimento Lagunari "Serenissima"! Ci sentiamo il cuore gonfio di emozione, orgoglio e ammirazione ed una malcelata commozione nel divenire assegnatari di quel incomparabile distintivo:ancor oggi mi sembra di sentire l'emozione nel rigirarmi tra le mani il serico tessuto rosso-oro con quel bellissimo simbolo che ricordava la potenza della Serenissima Repubblica di Venezia e la commozione che mi assaliva leggendo quel motto stampato sopra e che poi mi accompagnerà per tutta la vita:"...come lo scoglio infrango,come l'onda travolgo...".

Via di corsa in camerata a fare le sartine. Mi accorgo che il basco nero non è un basco, ma un copricapo che ha tutte le caratteristiche dei berretti che si vedevano nei documentari di guerra, portati da marinai tedeschi, con le cuciture esterne che tenevano insieme la parte superiore e le tre fasce laterali, il tutto corredato da due, io le ho sempre chiamate "cordelle", lunghissime che arrivavano oltre il collo della camicia, quasi sulle spalle.

Ci dissero che il regolamento prevedeva di portare il  basco in oggetto, calcato orrizzontalmente sopra le sopraciglia e quindi energica virata sulla destra sino a coprire l'orecchio: cosa impossibile perchè la fattura e la foggia erano tali che il basco bisognava portarlo, e qui scopro un termine nuovo, alla "Marò".

Bèh, solo per raccontarvi un'altra mezza giornata, vi ho annoiato per altre ulteriori molteplici righe, ma quando mi metto a ripensare a quei tempi e al vissuto relativo, mi faccio prendere la mano dal voler descrivere i pensieri ed i particolari.

Ciao, tra un altro breve periodo, vi do il seguito; resta ovviamente valevole sempre l'invito a commentare e ad agganciarsi al racconto sino ad adesso esteso, con il racconto delle proprie esperienze, naturalmente indirizzate al Sito ufficiale della Sezione ALTA di Bergamo, che come avrete constatato di persona,è la più completa e interessante.

San Marco!!!

 

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Subject: 3ª Puntata.
Date: Sab, 8 Set 2001

 

Caro Pierangelo,

Ho chiuso il precedente scritto praticamente a "vestizione lagunare" compiuta ed è appena il secondo giorno che mi trovo presso il Btg. Anf. Marghera,sarà circa la fine del Luglio '66. Veniamo a sapere che il Comandante della compagnia Mortai da 120 è un certo Capitano Maddalena, figura piuttosto evanescente, perchè non lo vediamo mai; c'è o non c'è?

Praticamente il facente funzione di comandante di compagnia era il Tenente Turchi, persona,mi sembrava amodino, non sbraitava mai, molto misurato, signorile, molto compreso nella sua veste di insegnante di "tecnica mortaistica"; evidentemente il suo regno era l'aula di insegnamento dove cercava di immettere nelle nostre testacce dure, come funzionava e agiva il mortaio; parabola, bomba P.E.P.A., parallellismo, azimuth, cariche aggiuntive, falso scopo.....tutti termini che ci venivano con pazienza estrema, ripetuti decine di volte, ma era dura, ce ne fregava assai a noi di queste cose. Ma Dio vede e provvede....

Intanto notiamo che l'atmosfera cambia: i "nonni" (pochi per la verità, infatti scopriamo che il grosso è a fare la guardia ai cosiddetti "forti o polveriere", quei due o tre gatti che sono rimasti in compagnia attendono vigliaccamente di essere sostenuti nelle loro future scorribande ,dagli altri il cui ritorno ci viene illustrato come una delle sette piaghe d'Egitto), cominciano a reclamare ciò che gli spetta: il nostro sudore ed il nostro sangue di miti "baffetti" freschi di CAR.

Si cominicia la bagarre con un paio di "girate" per notte, (ribaltamento totale del materasso, con il legittimo occupante disteso nel sonno, cosicchè ti trovavi a pancia in giù, tra il telo della branda ed il materasso che ti stava dopo, sopra), poi era in uso, appena finito di mangiare, lavare le stoviglie tue e quelle del "vecchio"; altra rottura di palle era costituita del lucidare le scarpe e gli anfibi del nostro amico, ma tutto si manteneva statico in attesa che arrivassero gli altri vecchi dalla polveriera: eravamo in attesa di un qualche cosa che cominciavamo a temere più della morte.

Un buon diavolaccio di Sottotenete di complemento, certo Bordon,c he Dio vegli sempre su di Lui, per quanto bravo ragazzo si è dimostrato quando poteva romperci le ossa ed invece non fece, ci introdusse assieme al quel figlio di buona donna e che poi si rivelò quasi come un fratello maggiore, l'allora Sergente Stefano Elisei, alla conoscenza in diretta del leggendario "Mortaio Pesante da 120 mm".

La "Bestia" era, lucido d'olio, in tutta la sua fulgida pesantezza, anzi erano mi sembra, sei pezzi, montati in armeria e corredati di zaini portapezzo, congeno di puntamento, paline ed accessori varii, in un'ordine e pulizia sconvolgenti, non un capello, non un granello di polvere, tutto allineato, tutto perfettamente collocato con cura maniacale: e la "Bestia" era lì che ci spettava, composto dai suoi tre pezzi: piastra, bipiede e che Dio lo maledica, il cosiddeto "tubo" o bocca da fuoco!

Cominciamo a smontarlo e a spupazzarcelo per capire come sarebbe dovuto essere da noi, poveri diavoli, trasportato; durante questa operazione capiamo subito che il "bimbo" ha una inusitata caratteristica:è strà di là di pesante.

Da quel giorno, ogni giorno che Dio mandava sulla terra, ce lo siamo caricato sulle spalle e via in "comprensorio" ad imparare a cosa serviva e come avrebbe dovuto funzionare 'sto affare; incominciai ad avere con 'sto attrezzo, un rapporto d'amore e odio: odio perchè 'sto maledetto,quando marciavi, pesava sempre di più, amore perchè il Sergente Elisei ci aveva convinti che con quell'affare noi mortaisti saremmo stati gli angeli custodi, in un'azione di guerra,dei nostri fratelli di naja assaltatori durante uno sbarco, per cui avremmo dovute divenire così bravi che di noi si doveva dire che "spaccavamo il culo ai passeri", metafora per metterci in testa che la precisione di tiro, da allora, doveva rimanere il nostro unico scopo di vita.

Poi vi era la componente della velocità con cui dovevamo assemblare in batteria la "Bestia": quindi ininterrotte serie di arrivi sul posto e assemblaggio del pezzo con tanto di presa di tempo; siamo riusciti,dopo questa portentosa cura di Elisei, a montare il pezzo pronto per il fuoco, in "bolla" e quindi in perfetto essetto, in pochissimi secondi!

Cominiciava in noi a formarsi l'idea di cosa si voleva da uno che si fregiava con la qualifica di "Lagunare": non si voleva il meglio...si voleva di più!

Quindi, sbudellati da una mattinata di "monta e smonta",q uando qualcuno riteneva che eravamo prossimi all'ammutinamento, ci caricavamo in spalla, (maledetto il "tubo" che ti faceva ondeggiare durante la marcia, maledetto per la postura curva che ti trinciava i muscoli della schiena, maledetto per i suoi 30 Kg che a ogni passo aumentavano non si è mai ben capito perchè) e rientravamo in caserma, non prima di aver ricevuto, passando davanti alla palazzina del Comando di Battaglione, il fatidico e inesorabile ordine "diii....corsa!".

Ecco, lì, in quella situazione, stanchi,sudati, provati da una mattinata di "cura Elisei", in pieno Luglio-Agosto,con 'sto pindolo sulle spalle che ti faceva ondeggiare con il pericolo di perdere l'equilibrio da un momento all'altro, io penso che molti di noi saranno stati vicino all'infrangere con un atto inconsulto, quello che è il confine tra il bene ed il male: la soppressione fisica di un essere umano, se esseri umani si potevano considerare i varii Elisei, Berto, Sergenti maledetti, ecc. ecc.

Eppure è durante quelle esperienze che ho capito cosa voleva significare (e quì non me se ne voglia se dico che ormai a tutt'oggi è scomparso),lo "Spirito Lagunare".

Altro personaggio di triste ricordo, nell'ottica di allora, certo Sottotente Morosini,si diceva che fosse discendente dei Morosini anche Dogi di Venezia, per cui ti voleva far veder lui chi erano 'sti Morosini e questo si concretizzava nel farci metter in tuta da combattimento, quindi ci portava a passo di marcia cosidetto "alla Lagunare", (che poi era un mezzo andamento da "marcia" olimpionica), sino all'entrata della polveriera di Malcontenta, poi ci faceva deviare a sinistra verso Fusina e da lì un bel "diii..corsa", in tuta da combattimento, anfibi di cuoio, e naturalmente basco e fazzoletto,finchè tra vomiti, bestemmie, e promesse di aspettarlo fuori della caserma per regolarizzare il tutto alle vie di fatto, semprechè Lui non avesse voluti avvalersi dei gradi superiori,( cosa che poi, non avvenne mai), la corsa terminava per poi rientrare in caserma sempre con passo alla Lagunare. Morosini..Morosini...

Dopo la cura descritta, magari andavi a vedere i cosiddetti "servizi" e come era ovvio nella tua condizione di "stramaledetto baffo", ti scoprivi che quella notte eri stato designato per la tua prima guardia!

La mia prima, ma proprio prima prima, vista la mia condizione di evidente e spaventosa stanchezza, qualcuno stabilì di farmi fare il primo turno, alla guardia della cassaforte del Battaglione, nel corridoio degli uffici del Comando: quella fu la prima ed unica volta in cui provai e,porca la peppa.....ci riuscii,a dormire in piedi. Con il mento appoggiato ad un fazzoletto da naso più volte ripiegato perchè facesse da tampone, posto sulla punta della baionetta del Garand appoggiato a terra, rivolto come "il dormitore angolare di fantozziana memoria" verso l'angolo tra due lati del suddetto corridoio, in questa posizione, io sono tutt'ora convinto di essere riuscito, magari per pochi secondi alla volta, di dormire in piedi.

Cari e numerosi lettori delle mie avventure militari,anche per questa volta un presentimento mi spinge a pensare che vi ho già portato sull'orlo dell'autosoppressione fisica, per cui stabilisco di risparmiarvi, PER ORA, ulteriori racconti di questa storia vissuta da tutti i Lagunari e vi rimando al prossimo,diciamo così, capitolo, che vorrei titolare:"la calata dei barbari ovvero arrivano i vecchi....".

Ciao a tutti i Lagunari e al Presidente della Sez. di Bargamo, vecchia pellaccia, Pierangelo Zanotti, con un sincero

San Marco!

 

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Subject: 4ª Puntata.
Date: Mar, 31 Ott 2001

 

Caro Pierangelo,

questa sera sono di buzzo buono e con un pò di tempo da dedicare alla letteratura raffinata, quindi........ beccati la quarta puntata della mia maestosa opera e come ti avevo accennato, questa, potremmo titolarla "arrivano i vecchi ovvero la calata dei barbari".

Ritorniamo con la mente a quella caldissima estate del '66. Malcontenta arsa. Btg Anf. "Marghera".

Stiamo armeggiando con le fasi d'istruzione al mortaio e altre cose similari, che arriva la ferale notizia:i  nostri "nonni" sono di ritorno da un periodo di guardia ai cosiddeti "forti o polveriere"!

La cosa ci mette in stato di allarme ed infatti a metà della mattinata, cosa mai successa, nel bel mezzo di una applicazione nel comprensorio, rientriamo in Compagnia senza nessuna spiegazione plausibile, in tutta fretta.

Dopo la pulizia di rito del Mortaio, ci spediscono sopra, nelle camerate che si trovavano ai tempi, nella casermetta "A. Bafile", al secondo piano sopra la sala mensa: subito notiamo che girano per i corridoi, facce mai viste, sogghigni mefistofelici, occhiate per traverso,d a ambo le parti valutazione delle personalità che avevamo di fronte. Lo stomaco in sobbuglio, sensazione di rogne incombenti.

Uno mi fa:"tu da oggi ti chiami Buffalo Bill, poi riceverai istruzioni su quanto, cosa, come e quando dovrai fare a sostegno della serena vita che da oggi comincia per noi "vecchi Lagunari".

Siccome ad ogni "vecchio" viene assegnato un "baffo", per te che hai la faccia da bamboccio, ti abbiamo riservato Tizio (giuro,non mi ricordo più come si chiamava quell'essere gigantesco che mi avevano benevolmente affibiato come "nonno". Sicuramente dalla parlata, della zona di Portogruaro, più sull'uno e novanta che sull'uno e ottantacinque, voce tonante, pronto alla risata e molto scherzoso, infatti non sono mai riuscito a prenderlo sul serio), che ti farà un c..o così; adesso tu ed altri sei maledetti baffi, andate in cortile dietro la Bafile ed a braccia portate su il "vecchio" che è molto stanco dopo l'affaticante periodo ai "forti".

Così, mi ricordo come fosse adesso, andammo giù in cortile dove il soggetto era disteso sugli zaini degli altri vecchi,e  ce lo portammo sù,d opo prove e riprove,in camerata per distenderlo delicatamente sulla sua branda.

Un particolare mi resterà sempre impresso: gli altri lo portavano a mò di ferito in battaglia, mentre io, su sua specifica richiesta, dovevo: "tenergli sollevata la testa perchè la vecchiaia poteva influire sul suo stato di salute (poteva andargli il sangue alla sua delicatissima testa) e quindi complicargli la vita al fine di raggiungere il sospirato congedo"!

Ho una foto impressa da trentacinque anni, nella mente: noi sette coglioni che trasportavamo a braccia su per le scale 'sto energumero come se la sua incolumità e comodità fosse la cosa che più ci importava della vita.

Da quel giorno, con buona pace di ufficiali e sottufficiali, non vi fu un attimo di tregua: fare il cubo alla mattina, il tuo ed il suo (il cubo andava fatto nella maniera in cui quando passava ad ispezionarli il sergente d'ispezione o qualche altro disgraziato sadico, e gli lasciava cadere una moneta da cento lire sulla coperta: se questa era ben tesa, la moneta rimbalzava almeno una volta in su, mentre se la coperta ed il cubo erano flosci, la moneta floppava tragicamente, ti disfacevano il cubo e dovevi rifarlo per l'ennesima volta sinchè la moneta saltava), preparare la branda la sera di entrambe, lavare le stoviglie tue e sue dopo tutti i pasti, pulire le sue scarpe ed anfibi (uno spasso....dopo una giornata estiva di marcia gli anfibi erano intrisi di sudore "santo" del Vecchio, per cui l'operazione ci diede modo anche di conoscere in anteprima l'uso della maschera anti-gas), stirare camicie e pantaloni prima che il Vecchio uscisse in libera uscita e poi tutti i servizi che appunto gli anziani non avrebbero più fatto, come scopare, lavare pavimenti (con la segatura, che se ne restava qualche scaglietta magari dietro una gamba della branda, ti ritrovavi in tabella per il prossimo PAO-picchetto armato ordinario, che in sostanza non era altro che nettar cessi, lavar marmitte, scopare il vialetto centrale dalle prime foglie autunnali che ostinatamente si erano messe in mente di cominciare a cadere come prima o dopo fanno tutte le normali foglie di questo mondo a parte quelle dei sempreverdi di cui sembrava che la caserma ne fosse "giustamente" sprovvista.

Il momento tragico però arrivava alla notte: e non era uno scherzo perchè e mi ripeto, dopo una giornata di esercitazione con il mortaio, marciare, correre e quant'altro, si sentiva la neccessità di schiacciare un pisolino come Dio lo comanda.....ma i Vecchi imperversavano la notte perchè loro avevano dormito tutto il giorno imboscati di quà e di la.........quindi, gavettoni di vari e sconosciuti liquidi, girate di branda continue,d entifrici ed amenità del genere che alla fine sfocciavano nella rapprsentazione della quale ogni uno di noi si era dovuto specializzare: che faceva il Juke Box,c hi Tarzan, chi la dolce danzatrice del ventre;a  me, come prima raccontavo,avevano affibbiato la "parte" di Buffalo Bill.....

Vado a spiegare: i Vecchi tutti comodamente sdraiati sulle proprie brande, entravo io dentro la camerata spalancando la porta come fosse quella di un saloon texano, quindi recitavi la filastrocca "...io son Buffalo Bill, i congedi per i nonnini son vicini! Se qulacuno oserà mettere in pericolo i congedi, dovrà passare sotto il tiro delle mie pistole. Buona notte nonnini, i congedi son vicini".

Finito di recitare 'sta cretinata dovevo alternativamente saltare sopra una branda,s trisciare sotto un'altra, così via sino ad avere impegnato tutte e dico tutte le brande della camerata, naturalmente sparando di quà e di la con le mani a guisa di revolver, agli immaginari pellerossa che avrebbero potuto danneggiare i congedi dei nonnini, urlando come un forsennato "muori brutto Apache (e quì di solito veniva nominato un ufficiale od un sottuff. in grande auge), schiatta muso rosso (altro nome, magari il ministro della Difesa), bang, bang, fiiii, bang, sfissssc, ecc. ecc., sinchè arrivavo all'ultima branda quindi con un balzo e ci riuscivo sempre, mi arrampicavo sulla mensola metallica sopra la branda dove erano sistemati gli zaini quadrati, e da li soffiavo sulle punte dei due indici, pardon, sulle canne delle Colt, per espellerne il fumo di tanti colpi, come si vede in tutti i film western che si rispettino e terminavo finalmente 'sta indegnità recitando: a morte tutte le schifose firme!

Generalmente la schiera dei nonni era soddisfatta della mia prestazione sicchè riuscivo a cavarmela con una sola esibizione.

Per notte.

Tutte le notti.

Io mi son sempre chiesto perchè riuscivo a sopportare sempre bene questo tipo di cretinate senza nessuna reazione? E chi mi conosce sa che ho un caratterino mica male; comunque mi sono anche risposto: perchè mi ci divertivo anch'io!

Al culmine della sarabanda, era venuta in uso un altro tipo di cerimonia: appena suonato il silenzio dovevamo agghindarci nelle seguenti condizioni, cose che a raccontarle adesso c'è da vergognarsi seriamente: dunque, calzettoni lunghi ed anfibi di tela, mutende della naja, le cosiddette mutande tattiche, guanti di lana, torso nudo, elmetto con candela accesa fissata in cima, vanghetto tattico; così conciati in quattro baffi per volta andavamo a passo di marcia a presentare i vanghetti, pardon, le armi, a tutti i nonni, quindi prelevare un nonno che portavamo, con tutta la branda, non racconto mai bugie, sino agli orinatoi, dove il nostro, mollemente sdraiato sempre i branda sollevava con fare affaticato il lenzuolo e da li orinava in direzione del cesso del quale lo avevamo messo vicino e di fronte.

Quindi ritornavamo in processione nella camerata dove con estrema delicatezza deponevamo il soggetto e ce ne andavamo finalmente, ma non prima di aver recitato la solita filastrocca "buona notte nonnini,i congedi son vicini.......ecc. ecc.".

Quando 'sta rappresentazione veniva richiesta verso le due o le tre della notte....bhè...lo ammetto, pure a me passava la voglia di riderci su.

Non ci rise su una notte il mio confinante di branda, certo baffo che di cognome faceva Secco e da civile era nelle ferrovie di Mestre mi sembra come apprendista macchinista, quando alla seconda richiesta da parte di un nonno di una seconda rappresentazione, con estrema calma prelevò il vanghetto che era infilato nello zaino appeso dietro la branda e glielo scagliò in direzione della porta sulla quale questo era affacciato,con tanta rabbia ed energia che mezza porta di legno e compensato andò in frantumi: fortunatamente la sua era una cattiva mira ed il vecchio è tuttora vivo.

Il Secco fu prelevato tosto e spedito in CPR per qulche giorno,c omunque notammo le incursioni notturne diminuirono sensibilmente

e dopo la tragica messinscena della cosiddetta "comunione", (i nostri,forse rattristati e frastornati dalla faccenda del vanghetto scagliato ad altezza testa, ridimensionarono la faccenda della fetta di patata lasciata a maturare per giorni nelle orine dei vecchi, in sostanza la cara e vecchia "comunione" di militar memoria, portando una variazione alla preparazione, usando poi dell'aceto e del buon vecchio pepe e peperoncino messicano.

Ha!  Cosa non si sarebbe poi fatto, per un venghetto volante!

Il mio periodo al Btg. Anf. "Marghera" riserva ancora qualche fatto eclatante e pure un'inopinato ed inprevedibile trasferimento al Btg Anf. "Isonzo" in quel di Villa Vicentina, il nome è una garanzia, chiamata anche da i più estroversi, VILLA TRISTE!

Ciao a tutti e non temete, ci sarà un seguito. So che in fondo in fondo, ma tanto in fondo, mi amate.

 

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Subject: 5ª Puntata.
Date: Gio, 25 Dic 2001

 

Ciao Presidente,

oggi, giorno di Natale, sono solo a casa, mia moglie è partita per un giro di visite parentali, mia figlia, per andarsene in giro con il ragazzo. Quindi, come era prevedibile, dopo avremi visto una cassetta video, visti i programmi che immancabilmente ogni Natale le varie TV ti ammanniscono, non ho resistito e mi sono attaccato al computer e ho pensato di dar seguito ai miei racconti di naja a puntate.

Quindi, ammazza alla perseveranza, siamo arrivati alla quinta puntata: mi schiaffo dentro un CD dei Dik Dik (lo so, non è il massimo della modernità, ma queste furono le mie musiche; anzi, mi aiutano a ricordare proprio quei tempi...), e mi concentro nel ricordare i fatti di quei momenti. Siamo ancora nell'estate del 1966 ed io mi trovo in servizio alla Cp. Mortai da 120mm del Btg Anf: "Marghera" in quel di Malcontenta. Tra pochi giorni si verificherà il fatto che mi vedrà migrare al "mitico" Btg Anf. "Isonzo". Intanto la vita di caserma si svolge tra alti e bassi. Alla sera, quando i servizi me lo permettono (non dimenticate, sono un "baffo", per cui tutti i picchetti armati ordinari,

 PAO, nome militarizzato che approssimativamente inquadra coloro che per quella sera andranno a pulire i cessi truppa, i marmittoni della cucina, il viale centrale, le stoviglie del circolo ufficiali e sottufficiali, spaccio ed altre mirabolanti sorprese sempre in agguato), me ne fuggo a Mestre a vedermi un bel film o a strangolarmi un pizza pluristratificata, per cui risco anche a diluire la micidiale vita di caserma. Faccio amicizia con un Sergente bresciano, mi dice che da civile lavora presso una fabbrica d'armi a Gardone Valtrompia, piccolino, capelli biondo-rossicci, adetto all'armeria di Compagnia, che in occasione di un controllo mi chiama con un altro baffo a dargli una mano a riordinare l'armeria: com'è mia abitudine, ci tengo a far sempre le cose fatte per bene e quindi con l'altro, ci diamo da fare come matti ma alla fine l'armeria della Mortai è uno specchio: arriva l'ispezione ed il sergentino viene complimentato per lo stato dell'Armeria.

Da quella volta, quando il nostro è caporonda, ci convoca per essere assegnati a questa: la ronda a Marghera era fantastica, ci vedevamo due film (l'accesso ai cinema era abbligatorio e gratuito), qualche bar dove scappava sempre che ti offrissero qualche cosa (più da bere che da mangiare per la verità), per cui più di qualche volta rientravamo alquanto fatti di ombre. Quando mi viene alla mente il Sergentino bresciano, la memoria è offuscata da una grande malinconia per un fatto che successe tra noi e che purtroppo non fu mai chiarito: c'era in aria la possibilità che si verificasse un controllo analitico del materiale d'armeria, così ci mettemmo con registri, calcolatrici e quant'altro a fare un bell'inventario di tutto il materiale in dotazione; una battuta tira l'altra ed io chiedo al sergente: "quanti mesi di arresti ti becchi se manca, magari, un cinturone od una fondina?". Il Sergentino mi sgrana tanto d'occhi e non vuole neanche considerare una tale evenienza ,per cui ci raccomanda di non fargli scherzi, anche perchè il furto, era diventato il passatempo preferito da gran parte dei commilitoni, quindi ci scherza su asserendo che non saremmo riusciti a portargli via neanche un'ago infilato in quel posto. Una sfida, insomma! Noi, di contro, che lo scherzo glielo volevamo fare, pensammo bene di imboscarci nelle tascone della tuta mimetica, proprio una fondina della Beretta '34, in canapa, per poi, una volta finito il lavoro e usciti dall'armeria, fargli vedere che eravamo riusciti a far scappare fuori qualche cosa sotto il suo naso. Così non fu, porca miseria. Il nostro, più furbo di quel che dava a vedere, all'uscita ci blocca e ci perquisisce sicchè saltano fuori le fondine: lui si incazza e ci assicura che con l'armeria e con la ronda abbiamo finito; noi a spiegargli che volevamo solo fargli uno scherzo e che una volta fuori dell'armeria gli avremmo reso le fondine...discussione acerba, quasi scontro, noi come due coglioni presi in flagranza di reato, lui indignato che quasi ci piangeva sopra per la fiducia impropriamente accordataci, noi, aria da "riflettiamoci su con calma", volevamo sprofondare dalla vergona di quell'atto all'apparenza, goliardico, che poi capimmo, programmato male e peggio finito, sicchè quella che era una bella amicizia si ruppe per un quì pro quò e tutt'ora dopo tanti anni nel ripensare a quella storia, mi fa male il cuore, prima di tutto per aver dato addito alla certezza d'essere gente di poca onestà e poi perchè stò sergentino bresciano di cui non mi ricordo più il cognome, era veramente un bravo ragazzo e il fatto di avergli indirizzato un torto anche se inopinato, mi è restato per tutta la vita come una spina sul cuore e sulla mia coscienza di lagunare: Amico mio, se mai Tu dovessi leggere queste righe, sappi che proprio perchè scritte dopo tanti anni, dovresti cercare di capire che esse sono vere e che mai Ti avremmo messo in una situazione negativa per colpa nostra, quindi se potrai, non dico perdonaci perchè il nostro voleva essere solo uno scherzo, ma almeno cerca di capire il nostro fare con trentacinque anni di saggezza in più,da quei tempi: Ti assicuro, se Ti riconoscerai nel racconto, contattami, perchè per me sarebbe una grande cosa rivederTi e finalmente chiudere una partita che mi ha rattristato, quando affioravano i ricordi, per Lungo tempo.

Bando alle tristezze e ritorniamo a quelle sere calde dove finito di pulire marmittoni della pasta con il solo ausilio di terra e sabbia raccolta sul posto per mancanza di detersivo, dopo aver raccolto foglia per foglia dal vialetto centrale della caserma, dopo avere scrostato la cacca di una giornata, nei cessi che c'erano dietro la vecchia "Bafile", impiegando come strumenti specializzati, dei rami strappati agli alberi della caserma, ....il giusto riposo.

C'era, guardando lo spaccio odierno, a destra, subito a fianco, una specie di giardinetto con fontanella-piscinetta ed annesso una specie di gazzebo-capannina dove trovavasi un distributore di Coca-Cola, un calcetto ed un gigantesco Juke-Box; ebbene, quello era divenuto il nostro punto di aggregazione, di riposo, di sogni ad occhi aperti. E giù, a raffica, senza intervalli, a metter monete da 100 lire con una delle quali si potevano ascoltare tre pezzi musicali: ed ecco, come accennavo all'inizio, uscire da Juke-Box le voci dei Dik Dik con la magnifica " "Sognando la California", le menti andavano alla famiglia, alla ragazza, alla casa, la nostalgia invadeva i cuori, qualche lacrima anche ci scappava..."cielo grigio sù, foglie gialle giù, cerco un pò di blu dove il blu non c'è....". Ma domani sera non siamo di servizio e via tutti al cinema, poi passeremo dalla Stazione di Mestre, alla Casa Rossa (Caserma della Finanza di Marghera), attraverso i binari dove ci faremo quattro risate nel vedere la fila di Canoe Terruncielle (allora alla caserema Matter, ecco perchè oggi non mi è simpatica quella impersonale caserma) che attendevano il turno per farsi una "sveltina" con le prostitute che allora vivevano con gli sfoghi giovanili dei militari per la maggior parte meridionali, perchè come diceva il mio futuro Capitano Canfora dell'Isonzo: "Noi meridionali fottiamo perchè in mente abbiamo sempre quella... voi polentoni avete in mente solo di fadigà, perciò fottete poco". Ogni uno aveva le sue idee, immaginiamoci se si potevano mettere in dubbio le idee del Capitano Canfora, comandate della Compagnia Mortai a Villa Vicentina....per cui siamo arrivati che mentre eravamo in comprensorio ad esercitarsi con il mortaio da 120 mm (pessimo soggetto),  arriva il Tenente Turchi e spedisce un certo Salvagno, chioggiotto e per di più pescatore, con una scusa, da qualche altra parte e poi attacca la brutta notizia:"Quì qualcuno deve fare armi e bagagli e andarsene a Villa Vicentina".

Ma dato che anche questa volta mi sono dilungato in particolari che giungono improvvisi alla mente, un pò di "suspance"...il seguito ve lo racconto la prossima puntata.

Ciao, vecchiacci maledetti, abbiate fiducia, prima o poi concluderò.

San Marco!!!

 

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Subject: 6ª Puntata.
Date: Dom, 03 Mar 2002

 

Ciao Presidente,

eccomi a dar seguito a quello che sarà una pietra miliare nella letteratura militare (perdonatemi la modestia,...ho scritto "una pietra miliare"..., non un "best seller"). L'uccellino me lo dice che non sono molto seguito in questa mia fatica, ma "nemo profeta in patria",per cui aspetteremo con pazienza i giusti riconoscimenti accademici.

Vi avevo lasciati o miei innumerevoli lettori, immagino le notti insonni in attesa del seguito, al momento in cui dalla Compagnia Mortai ci viene ventilata la neccessità del trasferimento di uno di noi, al famigerato Btg. "Isonzo" di Villa Vicentina. Dunque, l'inghippo è presto svelato ed il Tenete Turchi ci spiega: un raccomandato veneziano, Specialista al Tiro, certo De Bei, che già attualmente è in convalescenza per una infernale infiammazione alla lingua (sapremo poi, dovuta al metodico ed indefesso esercizio del leccamento di orifizi di "certi che contano"), deve per forza essere trasferito da Villa Vicentina a Malcontenta, questioni di alta logistica lo impongono, per cui dal "Marghera" sarà trasferito uno che andrà a coprire il suo posto all'"Isonzo". Datosi che con la penuria di buoni mortaisti che andava evidenziandosi, il Comandante di Compagnia, Capitano Maddalena, aveva almeno, così ci fu detto, stabilito che chi doveva andarsene a Villa Triste doveva essere colui che risultava il peggiore del corso mortaisti! Ed il Tenente Turchi, sottolineando che il peggiore era quel Lagunare che era stato allontanato proprio perchè non sentisse questo discorso (come dicevo nella precedente puntata, il tizio era una certo Salvagno, chioggiotto, pescatore purosangue, piccolo ma con una forza notevole, forse proprio per questo era stato destinato tra i mortaisti perchè in altro caso sarebbe stato un mistero, visto che era quasi analfabeta e con una predisposizione ai numeri quasi nulla), quindi, a meno che qualcuno non avesse voluto essere trasferito al suo posto, il Salvagno era di partenza. Ad un attento esame del viso del Tenete Turchi, chi fosse portato alla psicologia ed alla connessione con le nostre espressioni che ci tradiscono, avrebbe capito che il tutto aveva schifato l'Ufficiale ed in più vedevamo trasparire dagli occhi del Vice Comandante di Compagnia, un senso di pena per il Salvagno. Ora,miei cari e cerebrali ex commilitoni, andrò a scoprire uno degli aspetti più privati della mia personalità, dandolo in pasto alla vostra squisita e disponibile sensibilità: sicchè, seduta stante mi permetto di chiedere (con il dovuto rispetto verso l'ufficiale, attenzione, ricordate che siamo nel 1966), la ragione di quel disgusto non saputo celare durante l'esposizione dei fatti; il Tenente Turchi ci spiega allora, che il Salvagno era di condizione economica molto, diciamo, precaria e la condizione di pescatore lo metteva ancor più in balia di questa contingenza, tant'è vero che effettivamente il nostro, godeva di licenze settimanali per andare in famiglia per espletare l'attività della pesca e con il ricavato, tirare avanti alla meno peggio, come diverse famiglie di chioggiotti, allora, erano obbligati fare.

Dovete sapere o miei assidui lettori,che io, pur nato a Jesolo, vissi sino all'età di quindici anni in quel di Chioggia, quindi chi più di me sapeva qual'era l'effetiva e a volte spaventosa situazione di certe famiglie di pescatori; poi, se vogliamo assommare anche la nostalgia che assale il clodiense tipico quando lascia la sua amata isola, ritenni che all'ingenuo e sprovveduto Salvagno, gli stavano preparando un piattino niente male e che io non potevo permettere, spinto anche dalla simpatia che ho verso i chioggiotti, che questa cosa avenisse. Il giorno stesso mi presentai chiedendo rapporto con il Vice Comandante di Compagnia e lì in fureria, gli spiattellai la mia idea di sostituire il  Salvagno nel trasferimento a Villa Vicentina. Per la verità, il Tenete Turchi ebbe un momento di meraviglia, cercò di farmi desistere, mi assicurò che stavo portando avanti il corso da mortaista con apprezzabili risultati e che alla fine del corso mi avrebbe proposto alla promozione a Caporale. Quì devo dire, fui toccato su di una corda che ha sempre suonato forte nella mia personalità e cioè l'orgoglio e la remunerazione al comportamento, con dei meriti riconosciuti ed attribuiti; sono sincero, ebbene sì, fui tentato di rimanere......, sai..Caporale, il baffetto nero che avresti messo alla spalla... poi... poi ripensando all'Amico Lagunare Chioggiotto Salvagno, decisi, a ramengo anche i Caporali (che come opinava il grande Totò, erano l'antitesi degli Uomini): via a Villa Triste! Ma, miei avidi fans, il trasferimento non avvenne immediatamente. Feci a tempo a vivere al Btg. Anf. "Marghera", ancora degli splendidi ed idimenticabili momenti. Partecipai ad una allarme, che vide tutto il Battaglione pronto per partire verso orizzonti di gloria, alle prime luci dell'alba di una mattina di fine Agosto: ho ancora nella mente quella che poteva essere una sequenza di un attuale film di guerra; tutti gli M113 schierati in formazione di partenza, tutti noi con armi e bagagli, davanti al proprio carro, i camion pieni di attrezzature, altri traportavano gli incursori con il loro fazzoletto nero come la morte, le campagnole con il loro cannone senza rinculo, moto dei portaordini che scorazzavano da tutte le parti a non so cha fare, fumo, grida dei sottufficiali, alcuni ufficiali che si godevano il quadro fumandosi una sigaretta, il rombo creato dalle accellerate degli M113, poi tutti dentro al portellone, fuori subito con la testa dal portellone superiore per goderci tutta questa scena tra il semi isterico e l'epico. Ci sentivamo di far parte di un'entità invincibile: I Lagunari per l'appunto. Usciti dalla caserma come pazzi, per poi rientrare dal comprensorio addestramento, per alcuni istanti sembrò davvero di partire verso un imperscrutabile ma sicuramente glorioso ignoto. Che tempi... Che tempi!

Oppure, miei cari e sottovalutati amici, bella anche da ricordare la guardia ai carburanti, dove mi permisi, una delle mie prime guardie, presentandosi il fatto che un cacciatore sparasse un cartuccetta calibro 12 ad un pennuto che passava sopra i bidoni di benzina e il sottoscritto sentendo i pallini cadere sopra i suddetti bidoni ed immaginando per conseguenza un disastroso incendio dei carburanti, ritenne di simulare con Garand scarico, l'armamento del semiautomatico in ordinanza, per cui il classico rumore metallico dell'otturatore che va in sede, fece scappare il cacciatore di cui sopra, non dopo aver dato prova di imprevedibile velocità (correva con gli stivaloni alla coscia), e di grande agilità (si rialzò da una cascatona clamorosa, con una piroetta che aveva dell'incredibile). Che tempi... Che tempi!

Prima di partire fui anche gratificato della conoscenza (si fa per dire... diciamo più una presa d'atto d'esistenza), di personaggi come il Tenete Mangione, che, ringraziavo Dio tutti i giorni perchè non era lui il nostro Comandante, in quel breve lasso di tempo nel quale rimasi al "Marghera", mi punì un paio di volte (...stai punito "minchione a tre punte"...), con la sua classica e gutturale esclamazione, non seppi mai perchè: si aggirava per la caserma ed il primo che incontrava gli ammollava una punizione, sic et simpliciter, perchè così era. Di contro, giuro, non ho mai scontato quelle punizioni, perchè controllando sulla famosa tabella, il mio nome non c'era. Si vede che si divertiva a farti venire la diarrea fine a se stessa. L'ho visto all'ultima elezione del consiglio nazionale A.L.T.A., l'odierno Mangione, mi si dice che è Colonello o Generale non ricordo, il piglio è più morbido l'accenno al sorriso più frequente, i capelli però sono brizzolati se non bianchi, il mento in fuori, l'occhio sempre rapace pur se velato dall'occhiale. Ero seduto a qualche fila dietro di lui me lo squadravo attentamente, pensavo a tutto quello che gli avevo augurato e a quello che mi ero ripromesso di dirgli se lo avessi incontrato da civile: ecco che invece tutto viene visto con la filosofia degli anni trascorsi (trentasei) e mi sono voltato da un'altra parte. Per di più, sono anche andato a leggermi in seguito, il suo libro "Venezia e le Truppe Anfibie" e mi è parso, a prescindere su alcuni punti da cui dissento, un buon lavoro! Altra persona che mi è rimasta nella mente come un marchio a fuoco e che della quale, ogni tanto, quando l'occasione lo richiede, racconto l'anneddottico contatto che ebbi con lui: si tratta dell'allora Capitano, oraGenerale, Carlo De Benedictis; non era della mia Compagnia, ma ogni tanto anche quest'ufficiale aveva preso l'abitudine di schieraci per trasfoderci quello che secondo lui era il giusto modo di vivere il servizio militare in caserma. Un pomeriggio, caldo bestiale, di quello che ti auguri che qualcuno non si metta in testa di farti fare qualche bella ora di addestramento o marcia, veniamo inquadrati, Dio ti ringrazio, non in tuta da combattimento, cosa che almeno presupponeva un qualche cosa di tranquillo, nello spazio antistante al Comando di Battaglione, cosa mai avvenuta prima, la palazzina Jesolo per capirci, in una specie di cortiletto che adesso non c'è più, meno male che eravamo all'ombra della palazzina, ad aspettare il da farsi. Dopo poco apparve quello che poi mi fu detto era il Capitano De Benedictis: la caserma A. Bafile e tutto il rispettivo spazio è un cesso d'immondizia! Disse. Noi ovviamente a tale affermazione avemmo i nostri più che giustificati dubbi, (ovviamente in silenzio, senza profferir parola), ogni dannato momento che succedeva che non avevamo incarico da svolgere, o per una ragione o per un altra, eravamo lì a tirar su cicche e cartine, foglie e fili d'erba, insomma tutto quello che non era di natura marziale. Ciò non di meno, siccome ai tempi ciò che asseriva un ufficiale era Vangelo, nessuno di noi si sognò di esternare un qualche disaccordo con quanto affermato. Ma era la voce dell'uomo che ti metteva in soggezione: parlava senza muovere le labbra, usciva un sibilo di parole così foneticamente dure e dette a voce bassa, che ti raggelavano la schiena anche se c'era una temperatura africana; la divisa (d'estate, camicia, cravatta, pantaloni e basco) era immacolata, riga perfetta ai pantaloni, scarpe specchievoli, non un accenno di sudore, basco calcato in testa come da regolamento, occhialini d'oro, sguardo gelido, cosa ci mostra? Eh...amici miei, non ve lo sognereste mai se qui non ve lo dicessi io, ora: un piccolo portacenere di cristallo che con noncuranza estrae dal taschino della camicia. A cosa serve? Ma a metterci la cenere delle sigarette, diciamo noi. Si! Ma quando? Ci guardiamo in faccia interrogandoci con lo sguardo. Che il nostro ci stia prendendo per i glutei? Ma ovviamente quando si fuma, ci vien da incolti, a rispondere. Ebbene Gentil Signori... si è quasi giusto, ma... siggiunge il Capitano De Benedictis, specialmodo quando si fuma all'aperto! E nel mentre si accende una languida, mi sembra, Marlboro, ed ogni due o tre tirate versa la cenere nel minuscolo posacenere. All'aperto. Non la getta a terra, la cenere. La versa nel posacenere!!! ....Miei cari Lagunaretti, solo così facendo potrete non lordare la vostra caserma di cenere e quant'altro: si produce l'immondizia, la si gestisce versandola provvisoriamente in qualche contenitore adatto e poi quando se ne presenterà l'occasione, si farà confluire il tutto nel primo cestino o bidone dell'immondizia che troverò! Ebbene, sprovveduti lettori che siete errivati sino a questo punto del mio raccontare, io ebbi la folgorazione ricoducibile a quella di San Paolo sulla via di Damasco: o questo quì era una delle più grandi prese per il didietro che possa accadere ad un Lagunare di media portata, o il nostro De Benedictis ci sta fornendo gratutitamente un dogma... un dogma di vita! Orbene, quando la racconto, dopo trentasei anni, molti mi dicono che in quel momento avemmo a che fare con un pazzo maniaco. Io non so se l'odierno Generale Carlo De Benedictis sia un pazzo maniaco (so che a tutt'oggi ha ottenuto il dottorato in psicologia e psicoanalisi e quindi esercita questa professione), so che nella mia auto di servizio, quando produco cartine, fogli, documenti scaduti, materiale cartaceo od altro, io, Lagunare classe 46, Rgt. Lagunari Serenissima, mi sembra ancora sano di mente nonostante l'età, non butto niente dal finestrino ma metto tutto sotto il sedile ed una volta ogni due o tre giorni riempio un contenitore che getterò poi in un cassonetto dell'immondizia! Anche il Generale De Benedictis l'ho visto ancora dopo il congedo. L'ho visto per la seconda volta dopo trentasei anni a Villa Vicentina durante il raduno annuale dei Leoni dell'Isonzo che si tiene generalmente in Ottobre: ebbene, cosa mi è passato per la testa? Il Generale si è impegnato durante il pranzo che di seguito avevamo, nel ricordare i bei tempi passati e puntualizzare su due o tre asserzioni che si erano sentite durante le allocuzioni dei vari oratori; ci è mancato poco che mi mettessi a piangere per quello che ho rivissuto sentendo le sue parole; ho frenato la commozione a fatica ma ci sono riuscito, perchè così si conviene ad un Lagunare. E poi su quanto egli ha asserito in relazione a cose esternate durante la cerimonia, ebbene, ecco cosa ha vissuto il mio corpo e l'adrenalina ancora mi ha fatto gonfiare il torace (e purtroppo l'attuale pancetta), perchè in quel momento dopo anni di appartenenza alla realtà associativa dei Lagunari in congedo, io mi sono sentito un Lagunare! Come trentasei anni fa! Ebbene, miei cari compagni di percorso, anche questa volta ho sconfinato dai racconti di naja. Poi dovevo portarvi con me nel trasferimento dal Btg. Anf. "Marghera" al Btg. Anf. "Isonzo" di Villa Triste, ma i ricordi ed il presente hanno fatto deviare la penna, anzi il tasto: vi prometto, miei fedeli e numerosi lettori, che finalmente la prossima puntata andremo in Friuli, ma sempre con i Lagunari!

San Marco!!!

 

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Subject: 7ª punatata.
Data: Dom, 12 Gen 2003

 

Ed eccoci qui di nuovo.

É comunque un conforto, l'aver ricevuto durante l'interruzione, da un numero così consistente di "Lettori Lagunari", continue ed innumerevoli sollecitazioni nel portare a compimento quei miei racconti che il Direttore Zanotti (troppo buono), ha voluto titolare "Racconti  di naja di Dino Doveri". É un conforto perché se è vero che molti mi hanno dimostrato grandi vette di distacco, intolleranza ed idiosincrasia, è pur vero che da molti ma sopratutto da coloro che io stimo "Veri Lagunari", ho ricevuto segni di apprezzamento, comprensione e concreti segnali d'amicizia. Un ulteriore grazie anche al Direttore Zanotti, che mi ha offerto in tempi quantomai NON SOSPETTI, l'incarico di "redattore" nell'ambito del presente Sito.

Eravamo rimasti nel mio racconto a puntate, dove vi dicevo che avevo optato per il trasferimento dal Btg. Anf. "Marghera" presso il Btg. Anf. "Isonzo" in quel di Villa Vicentina. Sicchè un bel giorno d'Agosto mi sembra, mi comunicano che l'indomani dovevo fare i bagagli onde essere trasportato alla futura destinazione. Avevo previsto un trasporto in CM ed invece in tarda mattinata mi reco al Corpo di Guardia dove ad attendermi trovo una Campagnola con altra gente imbarcata di cui non conosco i motivi di trasferimento. Datosi che "Villa Triste" era largamente pubblicizzata tra di noi come Battaglione di Punizione, stabilii che i suddetti erano lì con me ma a differenza di me, a causa di un trasferimento relativo ad una punizione, ma non stetti lì ad indagare perché nel breve periodo di naja fino ad allora vissuto, di tipi che passavano da condizione di calma apparente a stato di schizzofrenia acuta, c'erano o ci facevano, questo no lo so, ne avevo visti abbastanza. Qui vorrei aprire una parentesi, perché un alto ufficiale in congedo che a suo tempo mi sentì proferire questa definizione, Battaglione di Punizione per l'appunto, ebbe a controbattere asserendo che "Villa Triste" veniva definita "Battaglione di Punizione" solo perché essendo i Lagunari quasi tutti veneti, essere trasferiti laggiù in Friuli, diveniva una "punizione"; ne, a suo avviso, vi si attuava una disciplina più rigorosa degli altri Battaglioni Lagunari, ne mai in realtà, a parte le leggende createsi tra i Lagunari, vi si erano ravvisate situazioni tali da affibiargli quel nome. Contrariamente a quanto asserito da questo alto ufficiale in congedo, un'altro Ufficiale in congedo che presso l'"Isonzo" aveva prestato servizio, più volte si esprimeva in mia presenza ed anche in pubblico, con più o meno queste parole:"....ed all'"Isonzo" ebbi al mio comando allora, un discreto gruppo di "autentici delinquenti" nel vero senso della parola, con i quali in seguito ebbi grandi soddisfazioni.Tutti in poco tempo di "dura disciplina", riuscirono ad arrampicarsi, il sotto scritto compreso, sul pennone della bandiera in piazza d'armi e gli stessi delinquenti sotto il mio comando durante un'esercitazione notturna con temperatura disumana, riuscirono presso il ponte di Bevazzana (Bibione), ad estrarre dall'acqua, tirandoli fuori per i capelli, gli Incursori del  Comsubin che in simulazione erano della fazione opposta....". Certo, elucubrandoci sopra anche adesso, il Battaglione di Punizione non è che ci stia tanto sbagliato in relazione al racconto in cui i protagonisti erano degli "autentici delinquenti" e la regola, una "dura disciplina". Chiedo venia,ma ogni uno ha le sue convinzioni. Io le mie. Chiusa parentesi, ma le facce poco rassicuranti dei miei compagni di viaggio, Battaglione di Punizione o no, mi fecero ritenere più saggio non alimentare raffinate conversazioni. Durante il viaggio, che toccava gli snodi abituali del tempo, Portegrandi, San Donà di Piave, Portogruaro, Latisana, Torviscosa, la Triestina Alta per intenderci, riandai con la mente alla mia esperienza appena terminata al "Marghera". Posto strano, misterioso (almeno per me), atipico. In confronto alle grandi caserme che avevo visto durante il soggiorno e spostamenti relativi al CAR, Pesaro, Fano, Falconara, Ancona, la caserma di Malcontenta era totalmente l'opposto: le prime, grosse entità da 3/4 mila militari, sviluppate in verticale con palazzoni enormi, percorsi di guerra di un'estensione terrificante (per chi doveva affrontarli), piazze d'armi infinite; la seconda, a parte la palazzina A. Bafile, che allora si chiamava con il perentorio appellativo di "caserma", alta due modesti piani, si sviluppava in anonime vecchie costruzioni anche queste da uno al massimo due piani. Strana e misteriosa quella costruzione da cui ricavarono proprio in quel tempo, il Circolo Sottufficiali (opera  portata a termine esclusivamente dal "Minuto e Mantenimento" interno alla caserma), di cui ricordo il rinvenimento di strani ed enigmatici "vasconi" o cilindroni in metallo di cui si opinavano le più strane attinenze. Misterioso quel via vai di camion militari che percorrevano tutta la caserma, sempre a teloni abbassati, a volte scortati da auto di servizio della Polizia di Stato, per poi sparire oltre cancello del "comprensorio", verso quella che verrò a scoprire essere la "Polveriera". Noi, poveri e semplici ragazzotti, ci facevamo su, tutta una serie di discussioni:...ci portano i missili...quelli a Testata Nucleare, (ora mi vien da sorridere della nostra ingenuità),...no accidenti...lì sono immagazzinati i proiettili per i grandi semoventi di chissà quale altro reparto....ma valà...non vedi che a volte ci vanno dentro anche i mezzi della Marina Militare...può darsi che vi siano delle munizioni per i grandi cannoni navali...oppure chissà che altri segreti vi si potessero celare. Quelli che ci avevano fatto la Guardia per settimane, ci dicevano che c'erano dei capannoni più o meno mimetizzati nella folta vegetazione, dove si effettuavano continui andirivieni con casse non meglio identificate....il mistero rimane più fitto, anzi si alimenta da solo! Per cui un bel giorno, mi si dice di montare su di un camion con altri due o tre Lagunari per andare a prendere le munizioni per il "Mortaietto" da 81mm., perché sarebbero servite per i "tiri" che si stavano effettuando al poligono naturale di "Montereale" sopra di Aviano. Io pensavo di vedere il CM dirigersi fuori della Caserma, ed invece mi rendo conto che stiamo prendendo la direzione opposta, cioè verso misteriosa "Polveriera". Sarà perché sono sempre stato attirato dalle vecchie, strane ed oscure costruzioni militari, quando finalmente entrai percorrendola nella sua totale estensione sino al presentarsi al mio occhio, dei caratteristici e familiari contorni della Laguna, ebbi la soddisfazione dell'appagamento di quando ti si svela un'imperscrutabile arcano. Fui molto colpito da un ammasso di cilindri di cui in lontananza non individuavo la natura, ma che dopo, ad un attento sopraluogo, si rivelarono per cannoni, di piccole dimensioni, per la verità,ma sempre cannoni erano,magari smontati chissà da quale unità navale, perché di cannoni di nave si trattava, magari, dalla forma, del periodo 15/18 o giù di li. I capannoni immersi nella macchia boscosa, come se la preoccupazione maggiore fosse stata quella di renderli inindividuabili dall'alto, alimentavano il mio spirito indagatore, ma... non mi fu dato di sapere. In  uno, prelevammo un esiguo numero di casse e ce ne tornammo in caserma.

Non ne seppi più nulla sino a quando non mi associai all'A.L.T.A e così frequentai di nuovo una realtà dimenticata nel tempo, finalmente seppi anche da fonti esterne, cosa era la "Polveriera".Mistero....Signori.....Resterà mistero.

Poi mi venivano in mente, le piccole cose di tutti i giorni: la mensa, rancio immangiabile, almeno a quei tempi, le bottigliette da mezzo litro di vino rosso che contenevano un sedimento di cristalli di almeno tre centimetri....l'esibizione all'ora di pranzo presso lo stesso, di un  complessino musicale di cui faceva parte un mio commilitone coetaneo e compaesano in forza alla Piave, che si dannava a picchiar fendenti alla batteria...il distributore automatico di Coca Cola in testa al corridoio d'uscita della palazzina Bafile, che letteralmente ci salvava dalla sete estiva, ...i casini allo spaccio truppa dove per avere un paio di cordoni, dovevi perdere una vita...le camerate con il pavimento di piastrelline esagonali color rosso scuro che dovevano splendere come le stelle...le notti afose e umide di Malcontenta, illuminate in lontananza dai fuochi arancioni dei camini delle raffinerie industriali...i boati intermittenti causati da chissà quale processo chimico-industriale dell'inferno di Marghera...il catino con il quale avevi le prime esperienze in fatto di "bucato", dove ammollavi per tutta la notte, mutande e calzini per poi il giorno successivo stendere al sole appagati da quella sommaria igiene  fa da te...la casetta del sarto, ripida scala di legno dove un brav'uomo dall'età indefinibile, ti sistemava un scucitura, ti accomodava la mimetica, rendeva umana la dimensione del cappotto...le zanzare del "comprensorio che ti mangiavano vivo e di una dimensione inusitata...la guardia come si usava al tempo, in garritta fuori della porta principale, dove dovevi immobile come una statua tirar l'occhio come uno schizzoide per individuare chi usciva od entrava e quindi sbattere il piede con il segreto desiderio di spaccarla per fargli vedere tu al quel testina dell'Ufficiale di Picchetto, se non riuscivi a farlo....il ricovero all'Ospedale Militare di Padova per via della vicinanza di branda con un commilitone al quale avevano diagnosticato una signora Epatite: il commilitone lo vidi in seguito per cui se la cavò, i nostri esami furono negativi e all'Ospedale Militare di Padova che aveva una cucina che in confronto a quella del "Marghera", era a dir poco sontuosa,  non facemmo altro, grazie ad una Suora (che Dio l'abbia in gloria), ad ingurgitare doppie razioni di tutto e poi abbandonarci al sonno ristoratore, abitudine che al Btg. Anf. "Marghera" s'era persa perché di fatto, impraticabile.

E poi, e poi, e poi.... come dice la famosa canzone, e poi ne avrei ancora un sacco e una sporta (borsa della spesa, in italiano corretto), da ricordare e raccontare: impressioni, flash, aneddoti, puttanate,  ma stavamo arrivando all'incrocio di Cervignano del Friuli, il  Capomacchina mi suggerisce di memorizzare quel posto e la strada successiva perché sarebbe stata una delle chiavi dei miei futuri spostamenti da e per Villa Vicentina. Dimentico il Btg. Anf. "Marghera" e mi concentro su quello che sta arrivando; arriviamo ad un incrocio che indica da una parte Grado e dall'altra Villa Vicentina (chissà poi perché, mi chiedo in quel momento, sono andati a mettere quel "Vicentina" ad una "Villa" situata in Friuli...lo scoprirò trentasei anni dopo durante una visita A.L.T.A. alla caserma ormai in disuso), facciamo qualche centinaio di metri e mi appare un classico muro di cinta di foggia militare su cui all'entrata, fanno bella mostra le due colonne del portale, dipinte con le familiari ormai, striscie oblique giallorosse. Mi rassicurano: penso siamo ancora tra i nostri. Cosa poi io intendessi con "siamo ancora tra i nostri", allora non mi era ancora ben distinto...ora lo so...quel sentimento si chiama "Spirito di Corpo" e solo i VERI Lagunari lo capiscono, oggi come ieri, ieri come oggi! Alla prossima....speriamo.

San Marco!!!

Lagunare Dino Doveri.

P.S.:non voglio più usare quel termine "Lagunare in congedo" con il quale mi firmavo.mi è venuta una folgorazione: se sei stato un Vero Lagunare, tale rimani finché campi e toccando quello che di solito si usa in merito a questi frangenti, un Lagunare rimane tale anche dopo. Se non lo sei stato un Vero Lagunare, non lo sarai mai. A prescindere da Tutto!

 

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Subject: 8ª punatata.
Data: Lun, 08 Set 2003

 

Siamo pronti allora,per la prossima razione di “racconti di naja”?

Ebbene si. Eccomi ancora presente e ben disposto (haivoi), a portare avanti quel che ho inconsapevolmente iniziato. Ma siccome sono, tutto sommato, un buono, vi tiro un po’ su il morale: alla fine non manca molto (a meno che, strada facendo non mi affiorino altri ricordi che per ora non ho). Rileggendo le puntate precedenti, mi sono accorto di aver fatto un errore, e siccome sono un perfezionista (tanto, a chi gliene ne poteva importar di meno, se tizio era in servizio in questo o quel battaglione?), la mia indole però mi porta a precisare. 

Scrivevo in precedenza, che al Btg. Anf. Marghera avevo come S.Tenente il Signor Bordon. Mi accorgo guardando delle foto però, che durante il campo primaverile a Klaut effettuato quindi dopo, quand’ero già al Btg. Anf. Isonzo, il S.Tenente Bordon è all’epoca, con noi; quindi non poteva essere stato al Marghera perché il mio soggiorno là, fu diversi mesi prima. Il mistero s’infittisce ma più che altro sento che è la memoria che mia abbandona. Gli acciacchi senili incombono, il colesterolo attacca le arterie, l’ateriosclerosi comincia a interessarsi delle cellule cerebrali. E’ un fatto!

Ma il ragionamento dice che siccome in tutta la naja, ho avuto il “piacere” di essere subordinato, escluso il CAR, a soli tre S.Tenenti, il Signor Morosini, (Morosini, Morosini…..), il Signor Montagner-Paties e per l’appunto il Signor Bordon, visto che il Signor Morosini e collocato saldamente al Marghera, gli altri due o li ho avuti, prima uno poi l’altro, all’Isonzo, oppure tutti e due assieme (non credo però), oppure non mi spiego! Il tutto, tanto per correttezza e precisione.

Nella rilettura degli scritti precedenti, mi è anche venuto in mente che non vi ho detto, sempre al Marghera,  dell’esperienza avuta al poligono. E’ d’obbligo non nascondervi niente. Lo faccio per voi, o miei cari.

Un bel giorno, si fa per dire, mi dicono che si parte per fare il campo a Montereale, località vicino a Maniago, ove i mortaisti, quelli già “laureati” e cioè i vecchiacci maledetti, andranno a fare i cosiddetti “tiri”. I “tiri” è una parola gergale che significava un’esercitazione a fuoco con i mortai, certi dicono quelli da 81, altri azzardano quelli da 120, in un poligono naturale che può essere il fianco di una montagnola o un ghiaione sui primi contrafforti rocciosi. Il nostro gruppo costituito da mortaisti ancora “matricole”, sarebbe intervenuto per preparare il campo ai Lorsignori in arrivo. Fu la mia prima esperienza con la vita all’aria aperta, a contatto diretto, quindi anche notturno, con la natura, in tenda, al sole e all’aria frizzante dell’altopiano e alla luna piena che illuminava di notte, tutto il campo.

Fu la seconda notte di permanenza, dopo esserci fatti un “mazzo” mica male a suon di installare tende, tendoni, tendine, tendarelle, tendacce e cucine e latrine e casotti e contro casotti, scavato canalette, innalzato muretti, costruito steccati, che dopo poco esserci addormentati, ne esce fuori un cataclisma di temporale, che, vi dico, sarà anche perché non lo avevo mai vissuto così in “diretta”, mi sembrava la fine del mondo. Lampi e saette che sembrava cadessero a due metri e trentacinque dalla tenda (otto per otto, può essere? La tenda, dico, non le saette….), pioggia e grandine che venivano giù a folate violente e sferzanti, i boati dei tuoni che si sentivano in stereo (iniziavano all’orecchio sinistro, si portavano al centro, e dopo una botta centrale si sgranavano sputacchiando sull’orecchio destro, tipo Dolby Sorround (spero d’averlo scritto giusto), da sala cinematografica; mi sembrava con l’immaginazione, quasi di vederlo il suono (come se il suono si potesse vedere, ma…. l’immaginazione fa brutti scherzi), precipitare sui costoni dei monti, spaccarsi schiantandosi con un enorme deflagrazione e poi via, un rotolamento di scoppiettii a esaurirsi,come se si frantumassero giù per una scarpata od un ghiaione.

Mi agitavo tra le coperte (più d’una anche se era primavera), ed il materassino gonfiabile, infimo succedaneo di giaciglio del quale ritengo non si possa ideare al modo nelle prossime ere, qualche cosa di più scomodo e disgraziato per dormire, convinto che prima o poi sarei galleggiato per la tenda, tanto sicuro ero che tutto ‘sto uragano arrivasse a far penetrare l’acqua anche sotto la tenda.

Ogni due o tre minuti palpeggiavo al buio più pesto, il terreno attorno a me per sentire se ci fosse dell’acqua; mi vedevo navigare sopra il materassino in torrentelli che invadevano il campo. Dovevo risolvere!

Passando sopra i miei coinquilini di tenda, tra un vaff… ed una serie di  grugniti impastati, riesco a raggiungere la lampada a petrolio che è attaccata al palo centrale, accendo e……non c’è un filo d’acqua; la tenda e sì bagnata anche per dentro, ma l’acqua scorre fuori e si perde nelle canalette scavate in precedenza, canalette suggerite dai vecchi che tutto sanno e tutto prevedono! Da quella volta, la deferenza  per il materiale militare in dotazione all’E.I., crebbe a dismisura.

Il giorno dopo finimmo quel che si era cominciato, arrivarono i mortaisti specializzati, non si sa se con l’81 od il 120 sicché non seppi mai con che cosa tiravano ‘sti signori; su in camion e ritorno al Marghera. Il tutto, come esperienza militare abbastanza banale, ma il temporale……….

Altra cosa che mi ero dimenticato di segnalare, è che i maledetti “noni” si congedavano proprio qualche giorno prima del mio trasferimento  a Villa Triste. Dopo i riti d’uso, cena dei congedanti con sbronze inenarrabili, totale smontaggio di tutto quello che si poteva smontare in camerata, materassi e quant’altro nei corridoi e nei cessi o fuori della finestra, urla disumane, canti sguaiati ”..se la corrente elettrica è una corrente forte, chi tocca il Lagunare, pericolo di morte…” ultime incursioni negli zaini dei baffi per recuperare quel che “gentilmente” i vecchi avevano “offerto” ai loro vecchi a suo tempo (un coltello tattico, un telo tenda, una tuta mimetica, un paio d’anfibi telati….), arriva il momento dei commiati: taluni si nascondono perché pensano d’avercela talmente su con il proprio vecchio, che le cose andrebbero a finir a coltellate, altri non si defilano,rischiano con qualche “va in congedo in m..a de to mare” o con qualche “ve venisse el sc….o ”, qualche diverbio con la promessa di “..speta che me congeda anca mi, vegno trovate casa e te fasso un muso cossì” e l’altro risponde “...so che te speto tuto impaurio….varda a no desmentegartene…” e via finche non si vede qualche sorriso e qualche stretta da mano.

Si sa, la vita è anche un susseguirsi di alti e bassi e di promesse mai mantenute e di paradisi di bugie, di desideri mai appagati, di sogni e di chimere! I Chioggiotti dicevano “…mondo de caligo, spussa e pecai…”!

Mi vedo arrivare il mio “vecchio”; con la divisa estiva seppur vissuta, tutta stirata, bascaccio da Marò spavaldamente sulle ventitré, cordone blu da comandante di squadra che nello specifico significava,anche perché comandante di squadra non era, che più “vecchio di così” non si poteva, nastrino tricolore alla spallina che allora tutti i “congedandi” si scovavano già qualche mese addietro e che appunto significava “ ma lo capisci brutta firma che adesso sono un civile”, senza cravatta, ma con le scarpe lucide, abbigliato quasi in ordine: mi piglia per una spalla, stavolta amichevolmente, mi trascina in un angolo appartato e mi fa con il suo dialetto portogruarese tra una risata e l’altra: ”dai bafo, no startela a ciapar….no te gò miga rotto i c….i gnanca più de tanto….la me sembrava na dose giusta. La naja la xe fata così…. ancuo te patissi ti da bafo, doman da nono te godi e te te rifà su i to bafi…. la naja xe na roda…. Quando ti te congedi ricordete de venirme a trovar a ………..” e chi se lo ricorda, ”Ciao…Bafo Bufalo Bil…’sta tento ai indiani”.

Lo guardo, con la sua stazza gigantesca, ha un sorriso largo mezzo chilometro che gli irradia il viso, è contento, euforico, felice della fine  di tutto quello. Gli dico: ”ciao ciao e che el Signor te compagna, spaccac….i de prima qualità”, mi porge la manona tipo racchetta da tennis, mi sgretola la mano con una stretta spropositata, piglia su il sacco a spalla  e se ne va.

Basta! E' tutto finito. Non se ne parla più. Archiviato.

Da quel momento entriamo in una altra atmosfera: non guardi più sottecchi, guardi dritto in faccia; non sussurri più quando parli, ora hai la voce ferma; non circoli più in caserma rasentando i muri o cambiando strada quando incontri il vecchio: ora vai per la tua strada e neanche se incroci il Comandante di Battaglione cambi strada…. (chissà…. ecco… forse se….. forse se incontri il tenente Mangione…).

Quando arriveranno i nuovi baffi, noi acquisiremo la qualifica di “tuba”, termine che sta ad indicare una qual collocazione in uno stato di limbo, di attesa non meglio delineata, comunque con la proibizione più totale di irradiare obblighi sui neo-baffi mentrecchè nessuno nei tuoi confronti poteva campare, a te parigrado, nessun diritto. Quindi, quando arriverò all’Isonzo, non avrò “vecchi” ad attendermi con le loro amenità”, il che nel contesto, era un’ottima, anzi una grande cosa.

Ci eravamo lasciati, la precedente puntata, al momento in cui varco, sul far della sera, la porta carraia della Caserma A. Bafile, sede del mitico Btg. Anf. Isonzo. All’entrata colgo subito l’impressione di una architettura militare certamente simile a tutte quelle caserme disseminate per il Friuli; una bella “piazza d’armi”, con viale perimetrale in ghiaino, siepi e fiori ben tenuti, tagliati di fresco. Staccatine ed aiuole curate, poche cicche per terra, poche cartine sparse qua e la; Comando di Battaglione e costruzioni che danno verso la strada esterna,ben dipinti di giallino e stacchi  a righe orizzontali rosso veneziano; quella che scoprirò essere l’abitazione del Comandante, una bella villetta anche questa ben tenuta, bel giardinetto, il pennone in centro alla “piazza d’armi”, svettante e sicuramente trafugato li da qualche natante, cosa che la mia origine clodiense (l’abitante di Chioggia non si chiama chioggiotto, come sopra ho erroneamente anch’io, scritto, ma Clodiense), mi avvertiva per aver visto sulle navi, quel tipo di incrocio al culmine, con una sbarra trasversale per allacciare le “carrucole” e le “sartie”; la base del pennone in muratura e decorata con piccoli tondi sassi di torrente in una specie di aiuola recintata e su questa con vernice nera e policroma, dipinti un po’ naif, i simboli del Reggimento Lagunari: il Leone di San Marco in “moleca” e  “ancora sovrastata da corona turrita ed alla base fucile incrociati”. Sul palazzone, per capirci, delle armerie, sempre al lato che guarda la “piazza d’armi”, vedo sullo spazio tra il tetto e i grandi finestroni del primo piano, una scritta, penso,un motto: strizzo gli occhi, è l’ora che volge al desio come dice il poeta, la luce e poca, io sono anche un po’ miope, e così non riesco a leggere. Lo farò quando avrò l’occasione. In seguito.

Arriviamo alle camerate; con estrema gentilezza mi scaraventano dalla campagnola tutto il mio bagaglio sopra una specie di marciapiede, muretta, zoccolo che corre, alto un metro circa, lungo tutte le costruzioni delle camerate, mi dicono che la fureria di Compagnia dovrebbe essere davanti a me e…”buonanotte al c…o”, come si soleva dire nell’occasione, ai tempi.

Per la caserma non vedo anima viva. Arriveranno,penso io. A lato della costruzione della camerata, intuisco dagli effluvi che ne sortiscono, esserci la mensa. Busso alla porta della fureria di compagnia non mi risponde nessuno. Pian pianino entro in mensa e vedo movimento, dico a uno in tuta blu che sta armeggiando con un carrello: ”son pena rivà… ti sa gnente dove vago e cossa fasso ?”  Si volta e vedo un mio concittadino, certo Tallon Luciano, macellaio, ora da militare, cuoco, butta un po’ sullo s…..o, che ora ci ha da fare e che non ha tempo, che vada in camerata che prima o poi qualcuno si farà vedere per la cena. Sempre all’insegna del “grassie al c…o”, vado in camerata salendo una scala ed arrivo al dormitorio.

Desolante e freddo.

Arriva un Sergente. Biondo con una bella barbona bionda, occhialini e fare simpatico. Scoprirò poi chiamarsi Pasquale Francioso; m  sbatto sugli attenti, mi presento come si usava allora e chiedo cosa devo fare, va giù in fureria, telefona e poi mi dice che non ci sono le chiavi per prendere il materiale per la branda, quindi mi dice che intanto aspetto per andar a mangiare e poi me ne vado a dormire in infermeria dove ci sono sempre tre letti fatti e pronti.

La prima notte all’Isonzo, la passo in infermeria!

La prossima volta vi racconto il seguito.

San Marco!!!

Lagunare Dino Doveri.

Ciao a tutti, belli e brutti….. fuorché, a chi un Vero Lagunare non è.

 

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Subject: 9ª puntata.
Data: Lun, 08 Dic 2003

 

Riprendiamo, per la gioia dei miei numerosi fans, si fa per dire,un’ulteriore puntata dei “Racconti di naja”.

Si sta avvicinando la sera e poi seguirà la prima notte al Btg. Anf. “Isonzo”. Come vi dicevo nella puntata scorsa,intanto mi assegnano,il magazzino di compagnia è chiuso ed è tardo pomeriggio,un letto in infermeria perché non riescono a darmi la branda in camerata della Mortai. Tiro e mollo con gli zaini per far passare il tempo,lustro e liscio il corredo,grasso agli anfibi,poi ”crema per calzature-colore nero”come recitava la dicitura dell’E.I. sulla scatola, allo scarponcino da libera uscita,mostrine al punto giusto,ottoni del cinturone con il dentifricio,(ah…i vecchi che mi hanno insegnato che con il dentifricio,sotto la naja, e con poche altre cose,si può fare di tutto…),pantaloni da libera uscita sotto il materasso per far la riga e così via,poi mi arrischio a mettere il naso fuori della porta dell’infermeria,vedo qualche Lagunare che sbracatello più che mai,circola per la caserma,mah….si vede che è proprio un battaglione di punizione…basta guardar le facce patibolari e l’uso della divisa dei deambulanti,i loro vari modi di calzare il Sacro Basco e già comincio a costruirci sopra delle congetture contrastanti……ma passa un CM con una banda di “sbudellati” che di più non si può,scaraventano i loro zaini in terra davanti a quello che scoprirò poi essere il Cinema o Sala Convegno,sbatacchiano il mitico Garand sulle masserizie con noncuranza ed enfasi di vita militare vissuta ai limiti;mi avvicino con le mani in tasca come l’affare non fosse mio,guardo, giracchio in torno,ascolto,mi soffermo,soppeso. Danno l’impressione di essere reduci da chissà quale raid infernale;intuisco dai moccoli ed i commenti,(più moccoli che commenti,per la verità), che sono tornati dal fare la guardia per un periodo di circa una quindicina di giorni,ai cosiddetti “forti”.M’informo cos’è ‘sta roba:trattasi di far parte di una “guardia” che per il periodo suddetto,effettuerà la vigilanza armata ad un “Forte” cioè un deposito di materiale od esplosivi e munizioni di pertinenza dell’Esercito.In linea di massima mi dicono,questi forti sono tutti più o meno nella zona di Venezia e prima o poi mi assicurano,toccherà anche a me:turni di due ore di guardia e quattro di riposo,così per tutti i quindici giorni del turno,fuorché un giorno dedicato all’uscita,sempre che esistesse un posto per il quale valesse la pena d’uscire.Per coerenza,debbo dire che mai previsione fu più azzeccata ed in specifico la cosa era più sicura che mai proprio per i Mortaisti. In effetti, il Mortaista tipo,una volta finito il corso,a parte qualche sporadica uscita per effettuare i cosiddetti “tiri”,altro da fare non aveva,per cui giocoforza,era quello che si cuccava gran parte delle attività che divenivano collaterali nel contesto della vita di un’unità militare del nostro tipo. Dunque,tornando alla nostra guardia smontante,mi assicurano che è una rottura di p…e inenarrabile e si defilano stanchi e stracciati,verso le camerate,strascinando per terra la loro dotazione. Medito sul tutto:comincia ad affliggermi non poco il pensiero di ore e ore a ruotar i pollici di guardia a qualche baracca. Arriva finalmente l’ora del rancio serale,suona “la pappa l’è cotta…la pappa l’è cotta…venite a magnar”, mi appropinquo verso la Compagnia poco distante e finalmente vedo,stravaccati sul quel marciapiede rialzato che corre,(anzi…correva allora;ora nella vecchia caserma in disfacimento,il terreno è ad altezza fabbricati), lungo tutte le Compagnie,quei fottutissimi “fratelli di naja” con i quali avevo trascorso il periodo CAR a Pesaro:”o baffo,cossa fastu ti quà…..te gai mandà via per scarso rendimento…..ti gà roto i c….i a qualche firma?…….Non pensavo de vedarte ancora…..varda el baffo Dino dove ch’el xe cascà……”. E poi pacche sulle spalle,baci,(assicuro ,virili) e abbracci,risatone e clima festevole e poi giù domande“come xela al Marghera…xe vero che i xe spaccaco...i da mati….xe vero che i te fa un c..o cossì….”. Chiedo dov’è e chi è ‘sto De Bei,Specialista al Tiro,che se ne va al “Marghera” al posto mio,così tanto per vederlo in faccia:”…ah…el strisson…ea serpe….el xe ‘ndà in licenza a casa e ‘po el va direto a Malcontenta…..”.me lo inquadrano nei tratti somatici e allora mentalmente lo individuo e ricordo che era anche lui al CAR con me.Veneziano puro sangue,aria da sopra le righe,un Vip si direbbe adesso,il classico la di cui famiglia ha le conoscenze “giuste”,il servizio militare non lo ha evitato ma almeno lo trascorrerà quasi tutto,a sei chilometri da casa…… Vedo che sono contenti del cambio e..beh..vi dirò….mi risollevo il morale pure io a quest’accoglienza e poi sono anche sorpreso:non credevo di essere riuscito così amichevolmente congeniale a quei quattro disgraziati con i quali avevamo vissuto insieme la naja dal primo giorno al Reggimento Fanteria “Pavia” CAR.Si vede,mi dico,che non sono poi, quel grandissimo st….o che mi descrivono o che mi hanno fatto sembrare. Meglio così! Trovo il Gianni De Prà di Carpenedo, il buon Dario Bari della Favorita sul Terraglio, altri due o tre di cui non ricordo più il nome,un Fuin mi pare,pure lui veneziano. Ne viene fuori una caciara alla grande proprio nel momento in cui arriva ancora il Sergente Francioso:due urli,baffo quà, ”scattare”,baffo la,”azione”stai punito, ,”haitì”, ”ripsò”, facciamo un inquadramento alla buona e “avanti-marsc,’nò-duè,’nò-duè”, percorriamo quei pochi metri che ci separano dalla sala mensa truppa sbattocchiando gamelle e piatti e per me è giunta l’ora di prendere contatto con la cucina dell’”Isonzo”. Vi dico subito,e non vi siano parvenze di dubbio,è un impatto traumatico! Puzza incancrenita di verze e cavoli lessati,almeno così sembra,speriamo non sia l’olezzo autenticamente invecchiato della vasca biologica fognaria di pertinenza;la sala mensa la vedo lugubre e scura,portalampade anni 40 basse sui tavoli,con quei muri dipinti in un triste grigio a olio un metro e mezzo da terra,finestre con serramento in legno e vetri a quadrettoni,pavimento con le solite piastrelline di gres rosso scuro,(queste sono invece,quadrate al contrario di quelle del “Marghera”), soliti tavoli con il piano in formica verde pastello,soliti sgabelli in metallo,soliti mezzi-litri di rosso non meglio definito con fondo sedimentoso cristallino. Dunque per ora non cambiava niente. Distribuiscono la minestra:robba ultra terrena;sono convinto che gli addetti della cucina siano stati i primi in Italia allora, a sperimentare la “nouvelle cousinne”. Assolutamente allucinogeno! Era evidente che le sperimentazioni culinarie perduravano indefessamente a prescindere dai risultati! Secondo:bistecca alla “molibdeno-tungsteno” e insalatina all’acqua con aggiunta di ingredienti non meglio identificabili ma sicuramente di dubbia provenienza. Pometto striminzito e auguri dello chef,di superare il tutto gagliardamente! A parte il pranzo che il Comandante di Battaglione ci concesse il giorno stabilito per i saluti di prammatica del Congedo,per tutta la durata del soggiorno all’Isonzo,la cucina,se così eufemisticamente si può definire,fu variante tra lo schifoso e l’immangiabile,tra il nauseabondo e lo stomachevole. E stabilii anche,che all’ormai perduto Btg. Anf. “Marghera”, dovevano ai tempi,esserci in forza al reparto,quelli che durante il mio soggiorno mi sembravano degli assassini della culinaria,invece in confronto a questi,ora apparivano degli allievi ed emuli del noto Chef Gualtiero Marchesi,almeno….nelle debite proporzioni! Hai,hai…cosa mi ero perduto…. Gli amiconi Gianni & Dario,con i quali formeremo da lì in avanti,un trio indissolubilmente legato per tutta la vita militare e poi finchè fu possibile anche da civili dopo il congedo,mi chiedevano di tutto e su tutto.Io,di rimando,cercavo di farmi dare le dritte sulla realtà dell’Isonzo;chiedi tu che chiedo io,alla fine mi faccio un quadro abbastanza ottimistico:sembra che ‘sto Battaglione di punizione che doveva essere l’”Isonzo”,non fosse poi questa tragedia come veniva descritto al “Marghera”. Mi buttano lì due o tre nomi che devo memorizzare perché questi sono Ufficiali e Sottufficiali che non perdonano e che quando li vedi,devi girar alla larga;quello che spunta su tutti e che ricorre più spesso nelle considerazioni degli Amici,è il Tenente Di Benedetto.Primo in classifica! Me lo identificano come un maniaco sadista,quindi attenzione all’uomo che tra l’altro non ho mai visto per cui me lo descrivono fisicamente talmente bene che la prima volta che lo vidi, già intuii subito che era lui il famigerato “Kriminal”; così infatti,l’avevano battezzato a suo tempo i “noni” che tutto sapevano e tutto intuivano! Apprendo con sollievo,che il suddetto non è nella nostra Compagnia,ma che indugia per la caserma ed anche nella Stazione ferroviaria di Villa Triste,spessissimo e con l’abitudine di ammollare punizioni a destra e a manca su tutti quelli che gli capitavano a tiro:un convinto simpatizzante delle metodiche del tenente Mangione del “Marghera”, penso io. Morale:tenersi alla larga il più possibile! Altro nome molto in voga in quel momento e secondo in classifica,è il Capitano Canfora:anche questo non è alla nostra Compagnia,constatazione estremamente positiva,dico io,data la nomea.Mi dicono che quando parla lui,…parla…si fa per dire,parla…in realtà quando parla,urla che lo sentono anche le canoe della vicina caserma…. devi guardar da un’altra parte,perché se ti nota o se sostieni lo sguardo,sei spacciato!Terremo a mente…. Tra i Sottufficiali la classifica è poco nutrita e a dir il vero non mi viene evidenziato dagli Amici,nessun nome in specifico;mi avvertono che se passo dalle parti dell’Officina,di star attento al maresciallo Zara il cui divertimento preferito consiste nell’appiopparti sonori e micidiali schiaffoni sulla coppa,non appena si presenta l’occasione di averti a tiro. A dir la verità,in quel momento la cosa mi trasmetteva anche un certo senso d’ilarità;questo perché non avevo l’idea di che consistenza fossero gli sberloni in questione.Nelle prossime puntate ve ne darò chiarimento più dettagliato. Finita la luculliana cena,(sono riuscito a mangiar tutto dalla fame che avevo, ma un dubbio mi assilla pesantemente per il futuro:riuscirò a non morire di fame nel prosieguo del mio soggiorno friulano?), mi si propone dagli  mici, di andar allo spaccio truppa,visto che fuori in libera uscita ormai non se ne parlava più per quell’ora. Lo spaccio,scala uguale a quella per salire in camerata, mi sembra il bar dell’oratorio dei Padri Filippini,anche se molto più grande e al posto dell’immagine di San Filippo Neri e di Sant’Ignazio d’Antiochia, vi sono dipinte sui muri,due bei olii mi sembra,uno raffigurante un maestoso se pur primitivo e “azzannante” Leone di San Marco in posizione “andante”,l’altro,un Lagunare in mimetica con Fal BM59 che urlando,sta effettuando uno sbarco e con,sfumata sullo sfondo, la testa del “Leon” e bandiere svolazzanti con i simboli delle dipendenze militari di allora ed il motto “…come lo scoglio…ecc. ecc.”. Pavimento con le solite piastrelline rosso scuro qualche tavolino e qui inopinatamente,anche delle sedie “umane” con schienale e fondo sagomato, al posto dei soliti sgabellini onnipresenti. Bancone imponente,almeno mi sembrava a quei tempi,sigarette,bibite e liquori a prezzi stracciati, ma con le nostre finanze di allora,pure bisognava fare bene i conti sullo spendere. Ricordo a proposito per gli attuali Lagunari in Ferma Breve o Prolungata, stipendietto mensile che arriva attualmente ai 1.000 € mensili,che la decade,lo stipendio che lo Stato ti concedeva ogni dieci giorni,consisteva ai tempi,in ben 1.910 Lire,dal che se ne deduce che la paga  giornaliera per un Lagunare semplice,era di ben 191 Lire al giorno.Pur con la proporzione dei prezzi di allora,era pur sempre una somma micragnosa ed insignificante:per fare un esempio,un pacchetto di Nazionali con Filtro,ebbene si…allora fumavo,veniva a costare circa 200 Lire! Ci mettiamo ad un tavolo in quattro o cinque con la preventiva,ferma e neanche poi tanto nascosta idea di far bisboccia e cominciamo con tre o quattro raffiche di “prugnette”. (Per chi non lo sapesse,quindi per la sana gioventù “ecstasyata” di adesso,la “prugna” o familiarmente “prugneta” in dialetto veneto,era un distillato ovviamente della prugna,che ai tempi andava molto in voga anche nella vita civile,molto dolce,ingannevole perché sembrava di bere un liquorino da Convento delle Canossiane ed invece caratterizzato da una micidiale gradazione alcolica pari pari ai più noti liquori generalmente consumati dai più inveterati cultori dediti al Vizio di Bacco). Insomma una serata indimenticabile,ridi tu che rido io, domanda tu che domando io,eravamo proprio felici e contenti di esserci reincontarti di nuovo. E’ lì per la prima volta che odo dal vero ed in diretta,(“Live” si direbbe alla Tele,pronuncia “laiv”), e con un significato ben preciso,il termine “Marò”. E’ il Sergente Francioso Pasquale che entra nello spaccio e fa:”Hò… Marò, che min…a se bbeve…offrire al superiore in grado è un dovere per il baffo… che se bbeve stasera…?”Si cala al tavolo e per tutta la sera mi spiega e ci spiega ,Villa Vicentina detta in gergo “Villa Triste”;io chiedo cos’è ‘sto “Marò”,vengono fuori racconti e saghe,leggende ed epopee sul mitico Battaglione San Marco i di cui appartenenti,i “Marò” appunto,che proprio su queste sacre pietre calcarono i loro passi,…e,spiega il Sergente,… Marò è l’abbreviativo di Marinaio…mica siamo come quelle fottutissime canoe del Genio che abitano…diciamo meglio,bivaccano….di la, più avanti….dove?….quà   un tiro di schioppo,prima dei binari della ferrovia…. che anche qui all’”Isonzo” chiamano “stramaledette canoe”….. Tracanniamo dopo le   prugnette”,una bella sfilza di “graspete” e più andavano giù e più le puttanate divenivano grosse e confuse…..e poi a confine con la nostra  caserma ci sono quelli della Nembo…..ma la Nembo,non sono Paracadutisti?…. Lo erano. Adesso non più……perché i più forti siamo noi Lagunari…..che prima eravamo i Marò del San Marco….ma lo vedi baffo maledetto….Prego!Adesso “Tuba”!Lo vedi ‘sto “Leon de Sammarco” pitturato sulla parete?Vedi che è raffigurato differente di quello che hai sul Mao…quello è il Leone dei nostri mitici predecessori….vedi che due p…e che ci ha sotto….,(ed io a tirar gli occhi,sono discretamente miope, per verificar di persona quegli attributi anatomici portentosi),…. e quà alla mattina davano la sveglia con le sventagliate di mitra MAB….vedrai che ti faccio vedere i buchi delle pallottole sui muri dell’androne della Tobruk…..e cos’è ‘sta “Tobruk”?….ah….baffi maledetti che non sapete una min…a,…la “Tobruk” è la tua Compagnia….è la Compagnia Mortai da 120m….m….mm…millim… (non riusciva a pronunciare la parola “millimetri”),…era chiamata nel Btg. San Marco,”Compagnia Armi d’Accompagnamento Tobruk”…..baffi ignoranti…perché a Tobruk che è in Libia, il San Marco a scritto pagine d’eroismo proprio la Compagnia Armi d’Accompagnamento e gli fece un c..o così agli…..erano Inglesi o erano Tedeschi? Boh…non mi ricordo se prima o dopo l’otto Settembre…..di che anno?Bho…sicuramente intorno al 1943………forse…,noi,loro cioè,avevano i mortai da 60m…mm….beh…..insomma,…llmetri …..e poi alla fine quando i Marò sono stati trasformati in Lagunari,gli hanno dato…..arriva ‘sta “prugnettaaaaa?”…gli hanno dato in dotazione quelli da 81….mortai dico…ma poiché noi Lagunari abbiamo il compito di fermare gli slavi se  vengono di quà…..di quà dove?…..ma in Italia min...a! ….A baffi,baffi….ma dove avete vissuto sino ad oggi….a noi ci hanno dato il…e qui si  fermava per prendere fiato per gonfiare il petto e quindi con soddisfazione ed orgoglio…il nuovo Mortaio da 120m…m…mmm…ma vaffanc’…quella cosa la…… Sicché il Sergente Francioso che da quella sera sarà chiamato fraternamente Francis, (pronuncia Frensis), con gli occhialini appannati e la bionda barba gocciolante,capendo che in quell’atmosfera di sbracamento alcolico, stava bruciandosi l’autorità che il grado gli dava e gli richiedeva,levò le ancore traballando e sbattendo su per la porta dello spaccio esclamò:”….o baffi….domani…hip….vi faccio…hip….un mazzo così…hip….baffi,dovete morire!”. Ho Francis….guarda che adesso siamo Tube……. Non prima d’aver ingerito come bicchiere delle staffa, un “cognacchino leggero”,decidemmo che la notte sarebbe stata troppo burrascosa e per cui sarebbe stato il caso di passare a bibite analcoliche ma nel mentre di tale sofferta considerazione,si mise a gracchiare una strana trombetta scricchiolante da un disco preistorico e grattuggioso, irradiato da altoparlanti disseminati per la caserma e che ci avvisava che era arrivata l’ora del giusto riposo. I “fioi” si dirigono in camerata della Mortai cantando a squarciagola “Lady Jane”,il Sergente Francis urla che adesso va a fare la nota di tutti quelli che domani andranno in tabella servizi a pulir cessi e siccome i baffi non sono ancora arrivati,la cosa è certificata;io mi dirigo in infermeria che con difficoltà riesco ad individuare,mi schiaccio sotto le coperte e cerco di fare il quadro della situazione.Non riesco a fare nessun quadro e manco un quadretto,(con quella ciucca,mi veniva bene il dodecaedro),l’esecuzione del silenzio mi trova ad evacuare più liquido possibile acciocché,alleggerito di cotanto peso, mi addormento di sasso.Alle due mi sveglio con la nausea,espleto la fatale incombenza epigastrica,mi ributto in branda,cerco di dormire ma non ci riesco:chi è il Comandante di Compagnia?Chi il Vice Comandante?Ed il Comandante di Battaglione sarà un duro o uno che lascia vivere?Da domani cosa mi faranno fare?Quando andrò a casa in licenza?E a casa,che ci vado a fare?….Gli amici sono anche loro a sciropparsi il militare,i genitori li ho persi anni fa…con la ragazza di turno abbiamo chiuso per corna in corso…solo per farsi lavare la roba dalla zia,sarebbe….mah…vedremo. Però che forti che siamo!Marò…Battaglione San Marco….Tobruk… Osteria! Fucilieri della Marina….che forza! Vabbè…adesso siamo nell’Esercito,in Fanteria insomma…..e chi se ne frega…peggio per la Marina!Però Loro avevano il Leone per di quà….e vabbè…noi ce lo abbiamo per così…sempre Leone di San Marco comunque è……e se domani mattina danno la sveglia…..con una sventagliata di MAB?….ah…. ma io sono che dormo in infermeria………hi,hi!

San Marco!!!

 

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Subject: 10ª puntata "Racconti di naja".
Data: Sab, 21 Feb 2004

 

Vedo che ora siamo arrivati alla decima puntata del mio “racconti di naja”.

Sinceramente all’inizio l’idea non era questa. L’idea era di buttar giù due righette per vedere se qualche altro Lagunare avesse aderito all’invito implicito di mandare al Sito, un qualche cosa di suo, una paginetta di vita lagunare vissuta. Ma visto che ci siamo, che ormai ”alea jacta est”, il dado è tratto, andiamo avanti, se non ci saranno fatti imprevisti, sino alla fine.

Ci eravamo lasciati, cari amici (so che qualcuno, d’essere amico mio, è l’ultima cosa che desidererebbe ma lo rassicuro: con il concetto dell’amicizia che ho, sicuramente quel qualcuno, amico mio non sarebbe mai divenuto! Scusate. Sono pensieri che circolano criptati: l’atmosfera è questa, bisogna giocare tra il dire ed il non dire, sennò il Grande Fratello va in fibrillazione, tuttavia coloro che mi “intendono”, sanno ed hanno capito più che bene), ci eravamo lasciati alla prima notte all’”Isonzo”. La mattina, un po’ (molto) rimbambito dalla ciucca della sera precedente, mi presento davanti alla Compagnia, due saluti, inquadramento e se non vado errando, presentazione della forza ad un Sottotenente, ma del Comandante di Compagnia, nemmeno l’ombra. Il S.Ten. mi fa andare a far colazione (un eufemismo che significa una gavetta di caffellatte annacquato e due pacchettini di durissime gallette accompagnati da una formella di marmellata), poi mentre gli altri se ne partono per il comprensorio addestrativo, io attendo che mi diano il necessario pe  organizzarmi il mio “posto branda”. Arriva un Maresciallo Maggiore, certo Lo Cascio. Dovete sapere cari Lettori, che allora un Maresciallo Maggiore non era da noi equiparato a Dio, ma a qualche Santo di grossa portata sicuramente si. Anche qui, attenti e saluto che esprimevano il grande rispetto che cera stato inculcato nei confronti dei gradi superiori.Il suddetto Maresciallo, di prima impressione, mi sembrava sull’alquanto burberotto, sbrigativo e di poche parole. Prende nota del materiale che mi danno, guarda il mio cognome, mi chiede da dove diavolo provengo con un cognome così. Glielo dico. Si lancia allora in una chiacchierata che quasi sconfina sull’umano, ma poi si riprende subito, si vede che secondo lui, si era “mollato” troppo e mi spedisce di corsa a mettere a poste le mie cose. Sopra, in camerata, di giorno, l’impressione di freddezza diviene ancora più persistente. Di fatto, la Compagnia,come tutte le altre, occupa una porzione di quello che io penso, fosse stato in origine un magazzino militare ferroviario. La Mortai, era ubicata nel primo  capannone partendo dal locale mensa; le altre compagnie proseguivano poi, sempre sullo stesso lato, sino quasi al recinto di confine della caserma. Che ai tempi della sua costruzione, fosse stata usata come deposito, non v’era dubbio: binari ferroviari correvano lungo tutto il fronte delle Compagnie; sicuramente quel marciapiede così rialzato non era un marciapiede, ma una banchina a livello scarico vagoni ferroviari. Quindi da questi particolari, stabilisco che il dormitorio occupa la parte superiore di un manufatto adibito in origine, a contenere materiale. Potete immaginarvi che meraviglia sarebbe stato, passarci dentro una porzione della vita. Uno stanzone lungo alcune decine di metri. Dall’androne e da dove si accedeva anche alla Fureria, Ufficio del Comando di Compagnia, Magazzino di Compagnia, se ne dipartiva la scala che portava all’entrata della camerata vera e propria. Un'altra entrata dalla parte opposta e da dove si poteva accedere alle latrine e lavabo, che se non vado errando, avevamo in comune con un’altra Compagnia. Lo stanzone, il dormitorio, tagliato nel mezzo da un’infilata di pali in ferro verniciati di nero lucido a olio e che formavano a loro volta un corridoio centrale che andava da porta a porta, era ripartito in una decina di comparti per lato, di una cinquantina di metri quadrati cadauno e dove trovavano sistemazione sei brande, meno male, non a castello. Erano occupati i primi tre o quattro comparti dal lato della porta d’accesso principale, ma poi tutto il resto della camerata era totalmente deserto. Nessuna finestra a livello uomo.Invece c’erano dei finestrini ben protetti da un’inferriata a graticola, ad un’altezza di circa due metri e mezzo dal pavimento, dai quali ovviamente per l’altezza, non si poteva vedere fuori ma si potevano scorgere le nuvole che lente, scivolavano sul chiaro cielo friulano. Di prima impressione, la scena ricordava nella fattispecie, un qualche locale ad uso penitenziario. Il massimo del lusso si avvertiva dal pavimento dove c’erano delle piastrelacce in granigliato grigiastro che come in ogni pavimento militare che si rispetti, rilucevano di una cera mai data, di improbabili spazzoloni e ramazze di fortuna fatte funzionare dall’olio di gomito e null’altro. Affardello tutta la mia mercanzia in un angolo dove mi hanno indicato gli Amici Gianni & Dario, proprio di fronte alle loro due brande; dietro la testiera della branda corrono altri due o tre traverse i ferro verniciato nero che dal muro della parete raggiungono le colonne (pali in ferro), che costituiscono il “corridoio”.

Alle traverse è agganciato in alto, il ripiano in ferro nero dove sistemo il famoso zaino-valigia (quello,per intendersi che contiene il mitico “squadrazaino” che i nostri “vecchi” ci hanno gentilmente offerto…..dopo congruo versamento di vecchie lirette che alla fine son servite  loro, per pagarsi parte della cena del congedo). Sopra lo zaino valigia, ci mettiamo l’elmo (lo esamino: anche questo ha spruzzato sopra con vernice nera opaca, il bel fregio con ancora, corona e fucili incrociati alla base, taglia cinquantanove. Bella circonferenza cranica!), subito più giù ci sono dei ganci ma mi hanno avvertito che servono come attaccapanni solo durante la notte; di giorno non ci attacchi niente. Dietro la testiera della branda aggancio lo zainone grande dove ci teniamo gli indumenti di tutti i giorni, materiale d’uso comune, stoviglie, asciugamani ecc. ecc., e tutte le piccole cose che potenzialmente ti appartenevano. Potenzialmente, perché erano tue finché qualcheduno non te le sgraffignava. Poi c’è lo zainetto tattico, quello piccolino dove trovano alloggiamento il vanghetto tattico, il telo tenda mimetico, i paletti in metallo, il materassino gonfiabile, la borraccia,la gavetta in alluminio e quant’altro.   Non mi ricordo più se lo si agganciava sopra lo zainone o sull’inferriata che fungeva da separè con il comparto posto dietro. Poi,lo sgabello in legno dipinto di marrone, dove piazzavi gli anfibi e ti sarebbe servito anche per sederti ogni tanto, quando la branda non era stesa…. Lo sgabello aveva anche funzione di comodino perché la notte veniva tolto da davanti la branda e passava al lato per darti la possibilità di appoggiare un candela, un libro, il portacicche di fortuna….   Sistemo il “cubo”.Lenzuola di cartavetrata, materasso riempito da chissà che cosa e di un bel color grigio-giallognolo che lasciava presupporre anni e anni di indefesso e continuo servizio. Il telo della branda così sfiancato che per non dormire insaccato, avevo imparato a far un certo procedimento “intorcigliatura” con i ganci, sistema che permetteva di tendere il telo affinché si potesse dormire in un sistema umano.   Una sottile coperta verde-marrone, ruvida e leggera, coronava il tutto.   Effettivamente l’insieme dava l’immagine molto assomigliante alla classica brandina da carcerato, che ogni tanto vedevamo in qualche film.   Sistemato tutto il corredo, mi metto in tuta mimetica e mi accingo a raggiungere gli altri che, guarda caso (ma quanto durerà ancora ‘sta menata?), stanno facendo addestramento con il “Bimbo”, Lui si…proprio Lui, il Mortaio da 120mm.   Me la prendo comoda, mi guardo intorno, cerco di capire il luogo; con fare spedito e passo veloce (e che diamine, basta poco per far vedere che stai facendo qualche cosa…), vado su è giù per la caserma, quando vedo confluenza ed assembramento di gradi sulle spalline, devio dal percorso con fare deciso o torno indietro come mi fosse venuto in mente d’aver dimenticato qualche cosa; individuo il Comando di Btg., il Corpo di Guardia, il Passo Carraio, il Circolo Ufficiali, il Circolo Sottuffciali, la Maggiorità, le Armerie, il barbiere, il Cinema l’avevo già individuato, lo Spaccio pure, l’Infermeria non ne parliamo. In piazza d’armi, la giornata è splendida, l’occhio mi sale al motto che avevo visto la sera prima, quando ero arrivato all’imbrunire, ma non ero riuscito a decifrare: riesco, tra le scaglie di pittura che stanno scrostandosi  appena sotto il tetto, a leggere “Qund”,”arco”,”l..oa”,”tutt”,”tri”,”assa”,”oa”. Resto interdetto. Sembrerebbe un motto. Non assomiglia però, a nessun motto che sino in quel momento avevo sentito (-Anche il motto “come lo scoglio infrango,come l’onda travolgo” era fresco, fresco allora e mica si sentiva tanto in giro!).Boh… penso che sia stato magari, il motto di qualche altro reparto che in passato aveva messo li radici… oppure magari una cosa relativa ai magazzini ferroviari di tempo addietro. Non so…chiederemo… Piglio la curva larga e accedo al percorso di guerra dirigendomi verso il settore Officine Meccaniche dove vedo in bella vista gli M113 allineati ma infangati all’inverosimile. In un locale c’è uno strano cingolato, mezzo aperto sopra, che sembra una vasca da bagno, molto più grande dell’M113, con dei cingolacci che arrivano alti quasi al livello di pilotaggio ed un portellone ribaltabile sulla parte posteriore e due belle Browning dodiciesette impiantate sui lati della vasca da bagno, che puntano il cielo. Mi fermo a dare un’occhiata ‘sto mostro mai visto in vita mia. Mi viene alla mente che nei racconti fantastici che ci scambiavamo alla sera prima d’addormentarci, al “Marghera”, si favoleggiava di un certo mezzo anfibio, che poteva anche galleggiare e, vi giuro, me lo avevano assicurato,poteva anche andar per mare.   Io avevo dei forti dubbi, ma visto che avevo preso l’abitudine di stimare con molto rispetto, il materiale militare, mi dissi che magari, poteva anche  essere. Poteva essere anche vero che proprio quel mostro di metallo con il “cofano” anteriore aperto all’interno del quale si scorgeva un apparato che aveva tutti gli aspetti se non assolutamente quello di un motore, alla fine potesse andar per mare. Mi avvicino ancor più e dietro a ‘sto “drago” metallico, scorgo un carrarmato a cui manca qualche cosa dalla sagoma. Che fosse un carrarmato, non v’era dubbio (con tutti quei film americani di guerra di cui mi erro pasciuto sino ad allora, non potevo sbagliare), che gli mancasse qualche cosa, era però, certo.

Poi capisco il mio disagio: ma manca il cannone! Se manca il cannone dovrebbe mancare la torretta mi dico, ma guardando da altra angolazione vedo che sopra ‘sto affare ci hanno impiantato una specie di triangolo di grosso tubo di ferro con al vertice superiore, una carrucola con del cavo d’acciaio ed un gancio.   Sarà un mezzo di recupero adibito a quello strano, enorme, mezzo cingolato.   Gli interrogativi non vengono risolti e so che in futuro avrò modo con comodo, di svelare l’arcano.

Non posso star li più di tanto perché mi aspettano.Vedrò ‘sta novità quando il caso me lo permetterà.   Vedo i “nostri” in mezzo al prato, che come al solito, stanno spupazzandosi il “Bimbo”, mi avvicino con passo non proprio veloce….e sento un urlo che proviene da dove è situata la cosiddetta “Arma Base”:”…veda, Eccellenza, se può gratificarci della Sua presenza a breve termine…..Presentatiti subito qui ….scattare….scattare….azione….azione!”.   Subito cambio registro: senso di pericolo incombente, la tranquillità lascia posto alla massima all’erta; scatto come una freccia verso l’autore dell’urlo, mi metto a saltare come un canguro per evitare le sterpaglie, mi avvicino e vedo stellette d’oro sulle spalline: allarme rosso! Mi trovo davanti quella che sarà la figura più emblematica della mia vita militare: il Tenente Raffaello Graziani!Il mitico, il leggendario, lo straordinario Tenente Graziani. Figura robusta, adesso direi, sul tarchiatello. Statura media, moro, faccia simpatica, piglio ironico, parlata con inflessioni che in quel momento colloco geograficamente nel territorio laziale o quanto meno del Centro Italia; fare sbrigativo ed impressione di efficienza.   Tento la mia carta: o la va o la spacca. Ricordandomi quel che mi avevano insegnato al CAR sul presentarsi ad un superiore, arrivo a razzo, sbatto i piedi per terra, mi irrigidisco come uno schizoide in un “attenti” teatrale, saluto con piglio e mi metto ad urlare come se il mio interlocutore invece che a due metri da me, si trovasse a cento metri di distanza: ”Lagunare Doveri Dino, incarico Mortaista pesante, Compagnia Mortai da 120, trasferito ieri dal Btg. “Marghera” al Btg. “Isonzo”. Comadi Signor Tenente”! Questo strabuzza gli occhi, accenna ad una parvenza di sorriso meravigliato, poi guarda gli astanti, Il Sergente “Francis”, un ACS, due Caporali, uno Specialista al Tiro e se ne esce: ”non credo ai miei occhi ed alle mie orecchie! Finalmente uno che si comporta come Dio comanda! Prendete nota del ragazzo. Bene così Doveri. Adesso…Azione! Vai all’”Arma Carla” e fai quello che ti dicono…vediamo cosa hai imparato al “Marghera”! Faccio un dietrofront da manuale, scatto verso le “Armi” schierate, chiedo dov’è il mio plotone (ai tempi, ogni plotone gestiva un “Bimbo” ed era costituito da un capopezzo, di solito un ACS, un Cap.le che dirigeva l’impianto e smenava con la radio, tre Lagunari, di cui uno che faceva il puntatore, uno il caricatore e uno stava dietro a passar bombe e quant’altro necessitava), arrivo, mi presento all’ACS, questo comunica via radio, arriva il S.Ten. Mi sembra ancora che sia il Signor Bordon, mi mette alla radio e quello alla radio che è il mio grande Amico, Cap.le Dario  Bari va a fare il caricatore. Cominciamo ad agire e mi accorgo subito che la mia preparazione e di gran lunga superiore a quella dei colleghi. Il corso del “Marghera”, la cosiddetta “Cura Elisei”, si dimostrava più che valida: giungono ordini via radio e li smisto alla grande, mi annoto coordinate per le varie entità, sputo a raffica quello che mi arriva via etere, urlo, me la cavo insomma!Il S.Ten. mi toglie dalla radio e mi fa fare tutte le mansioni che il mortaista deve saper fare: la cosa che mi viene meglio è di fare il puntatore, vado con sicurezza (l’avrò fatto alcuni milioni di volte al “Marghera”), il S.Ten. ogni tanto viene a controllare, scuote la bocca da fuoco simulando il rinculo, mi scassa tutto l’assetto, ma io riesco con il mio pignolesco piglio a ristabilire l’assetto velocemente ruotando manovella e manicotto con la sicurezza acquisita in tante passate prove. Traguardo infinite volte falsi scopi con un occhio e con l’altro le bolle “livelle”. Indico con consapevolezza al mio partner che manovra il “bipede”,le modifiche da apportare.Sento dentro di me, che sto dando una buona impressione, ce la metto tutta e poi scoprirò che quel giorno, in quel momento, mi ero giocato, positivamente, e ci mancherebbe, tutto il mio futuro nella Compagnia Mortai da 120!   Terminiamo l’addestramento, l’ACS mi ordina di pigliarmi in spalla il maledetto “tubo”; mi vuol “testare” anche a livello fisico. É vero che potevo dare, dato il mio aspetto, l’idea del “tegolina”, ma piuttosto d’aver manifestato segni di cedimento, avrei sputato sangue; gli comunico mentalmente: ”ormai ci ho fatto l’abitudine, amico mio. Non mi freghi! Se credi di pigliarmi in castagna adesso, con l’osso sulle spalle, ti sbagli di grosso!”. Ci dirigiamo a passo Lagunare sino alle Armerie, cerco di non tentennare, stringo i denti, non barcollo e alla fine deposito il “tubo” in armeria senza che nessuno mi dia una mano a tirarlo giù dalla groppa e chiedo con fare staccato:”pulizia..???”.   Dunque, tutto bene. Certo……

Rientriamo in Compagnia, vedo gli Amici che vanno a guardare la tabella dei servizi, distrattamente guardo immaginando almeno qualche giorno di “impunità”, ma parcaccia miseria, sul settore “Guardia” leggo il mio cognome.   Tutto bene? Tutto bene un’”ostrega”!   E vai!   Pomeriggio non ricordo, ma so che verso le diciassette, via in camerata a cambiarsi ed a tirarsi lucidi per la “Guardia”. Mi accorgo che gli altri hanno un indumento in più che io non ho: la Giacca a Vento. Ebbene si….la favoleggiata Giacca a Vento del Vero ed autentico “Guerriero”.   Non me l’avevano mai assegnata. Faccio notare il fatto, quindi giù in magazzino vestiario, rovistano dappertutto ma giacche a vento come quella che vogliono appiopparmi, non ce n’è. Grandi, piccole, sventrate, bucate,ma decenti no!   Poi, vedi a volte i fatti della vita, ad un attaccapanni c’è appesa una bella giacca a vento nuova di trinca, ancora con i gradi da Sergente Maggiore, indico l’indumento, giacché in quel momento non se ne trovano, mi dicono di prendere intanto quella. Poi la renderò per una più confacente al mio “status”. Alla grande! Una volta avuta nessuno me la ha più richiesta indietro! Nuova.Bella. Di un bel verdino sbiadito. Con tutti le sue cerniere integre. Con tutti i suoi bottoni originali, elastici che tiravano, cordoni che chiudevano, bretelle interne e cappuccio incluso. Uno spettacolo. Solo le stellette erano approssimative. Erano cioè in metallo ottonato. Diciamo che erano “fuori ordinanza”. Intanto teniamo quelle, oi si vedrà. Quella Giacca a vento mi accompagnerà poi, per tutta la naja, ai forti, di guardia, in montagna, di ronda, nei vari accadimenti che seguirono e fu per me come la mia “casa”, come il mio “rifugio”, come il mio “focolare”.   Veniamo passati in rassegna da un Ufficiale il cui grado mi era nuovo, un Tenente che portava sul colletto una fettuccia dorata come gli ACS. Mai visto un grado così e non capivo cosa significasse. L’Ufficiale portava la divisa con proprietà, bel tipo,capelli biondi,aria nobile, eloquio forbito, voce pacata, mi dicono sia l’Aiutante Maggiore, certo Signor Zitter, se il cervello non mi fa cilecca. In futuro capirò che la prima impressione non fu sbagliata. Mi sembrava un’ottima persona. Guardo il nostro gruppo: siamo belli che di più non si può. Tirati a lucido, roba da parata. Mi danno un paio di guanti bianchi; e avanti con ‘sta guardia in garritta all’entrata principale: due ore a sbattere il piede destro sulla pedana; alcune “canoe” si divertono a passare su e giù più volte perché farmi fare il saluto li rallegra. Non faccio una grinza. Pin pon,scick sciack, pin pon e così via sino alla fine del turno. Durante la notte, un turno alla “carraia”,  all’alba un altro giro per la caserma e poi smontiamo.   Sono distrutto.

Ma mi aspetta un altro giorno di addestramento con il mortaio. Speriamo bene. Nella notte poi, mi ero fatto tradurre e spiegare da un sergente, cos’era quella scritta indecifrabile che avevo letto addietro: ”Quando el Leon de San Marco alsa la coa,tutti sbassa la soa!”.   Ma dimmi un po’ tu, se ce ne sono altri al mondo che hanno avuto un motto così categorico, così significativo, così fiero?   Alla prossima. San Marco!!!

 

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Subject: 11ª puntata "Racconti di naja".
Data: Gio, 22 Lug 2004

 

Il bello è che l’avevo già scritta ed archiviata in apposito “file”, ma la maledetta sfortuna ha voluto che montassi un nuovo disco fisso di supporto memoria, che non ha memorizzato una bel niente. Puntata già scritta, scomparsa: misteri dell’elettronica!

E dato che avevo accentrato la puntata precedente su Villa Vicentina, la faccenda prosegue su quanto avevo già preparato e perduto.

Ed avviene finalmente che si possa uscire in libera uscita! Prima però, altra esperienza sconosciuta,fu il rientro in famiglia in licenza di trentasei o quarantotto ore; di spostamento in auto non se ne parlava nemmeno; primo perché il possesso di una pur se sgangheratissima seicento, manco era prevista per l’immediato futuro, secondo, affrontare l’autostop mi metteva a disagio perché detta pratica avrebbe potuto rivelarsi pericolosa ed infatti c’erano Lagunari che giuravano di essersi presi alcuni giorni di punizione per aver commesso il fatto. Infatti era previsto dal regolamento, che l’autostop fosse tassativamente vietato per il militare ed in particolare per il Lagunare, datosi che il Ten. Di Benedetto detto Kriminal, tra gli altri passatempi, aveva preso la sana abitudine di andarsi a fare qualche giretto in “campagnola”per beccare sul fatto gli sprovveduti viaggiatori a sbaffo, vale a dire, “scuajar i Lagunari turisti”. Opto per il caro e  classico treno che mi porta dalla Stazione di Villa Vicentina, (cambio,mi sembra a Cervignano), pian pianino sino a quella di San Donà di Piave ove li si poteva arrischiare l’autostop sino a casa.

Come prevedevo l’arrivo al paesello, m’ispirava che mica potevo arrivare li come un semplice marmittone canoa maledetta ed ultra marcia; allora m’invento di attaccare al volantino da spalla, (ricavato dalla parte più larga di una cravatta in disuso), dove il bel scudetto in panno raffigurante un mortaio stilizzato faceva bella mostra di se, un freggetto che il mio “vecchio” mi aveva regalato, (era un fregio da basco in filo giallo sovrapposto ad una basetta in panno viola, molto visibile, con accostamenti di colore indovinati e stupite, stupite, il tutto si può ancora ammirare quando indosso l’attuale divisa associativa).

Dissanguo le mie inesistenti finanze, nell’acquisto di un bel cordone da spalla giallo-rosso al negozietto d’articoli militari vicino al passaggio a livello delle caserme; so che è una cosa riservata ai comandanti di plotone, (in quel periodo comunque, lo portavano tutti, dai caporali in su), ma mi dicono che quando sarò “nono” o “vecio” qual dir si voglia, sarebbe stato mia prerogativa esibire tale orpello e che quindi era una spesa che avrei fatto poco dopo.

Quel bel cordone da spalla giallo-rosso, effettivamente riconduceva le origini del Btg. Anf. “Isonzo” con il Btg.San Marco, colori i quali erano mutuati qualche anno prima dai Marò poi confluiti da noi; per inciso ricordo a proposito di cordoni da spalla,che il “Marghera” l’aveva blu, il “Piave” ce l’aveva color amaranto-bordeaux, noi dell’Isonzo, come dicevo, giallo rosso e quando, appena dopo il CAR, arrivai nei Lagunari alla Pepe, notai che al Comando di Reggimento avevano il cordone con tutti i colori sopra segnalati e rappresentanti l’insieme di tutti i Battaglioni di competenza, per cui alla Pepe il cordone era giallo-rosso-blu-amaranto.

Siccome non mi avrebbero fatto andar fuori dalla caserma così accessoriato, attendo di salire in treno, mi apparto nei servizi, estraggo dal sacco a spalla, tutti ‘sti addobbi, li indosso e me ne esco con indifferenza. Così agghindato, mi sento pronto ad affrontare il rientro al paesello: bascaccio alla Marò,occhiali scuri da sole, (ai tempi, in divisa, come da regolamento, non si poteva portarli), il bel Mao smaltato sul taschino sinistro della camicia, cordone di un sfavillante giallo-rosso alla spalla sinistra, camicia e pantaloni stirati alla perfezione, cravattina in lana a punto largo rigorosamente fuori ordinanza, purtroppo ancora con gli scarponcini da libera uscita, bruttissimi, ma lucidati a specchio.

Arrivo, giro di quà e di la, mi vedono, capisco che stanno pensando, ”guarda un po’ il Dino, in divisa sta’ bene e poi guarda quanti ammennicoli ci ha su; si vede che ha qualche incarico particolare o lo hanno messo in qualche reparto speciale…..prima di partire dava l’impressione di un “tegolina”, si vede che nella naja ha maturato….”. Insomma, il rientro è positivo: dormo più che posso, mangio come un allupato, passo ore in doccia, poi via al bar con gli amici, (i pochi che non sono pure loro a far la naja), a raccontare avventure mezze vere e mezze inventate lì al momento, che i Berretti Verdi yankees di hollywoodiana memoria erano una scamorzetta in confronto.

La sera del sabato è dedicata allo sport che più interessa un giovane di ventenni, (e che diamine! abito a Jesolo ed il materiale connesso è in sovrabbondanza), rientro a casa tardissimo: le due o le tre! (Sic!). Riempio di biancheria pulita il sacco a spalla fino quasi a farlo scoppiare e ci caccio pure dentro un paio di scarpe nere da metter quando lo potrò, quindi me ne ritorno alla dura vita di noi vecchie pellacce Lagunari.Tiè!

Rientro a Villa Triste la Domenica sera: da San Donà a Cervignano e da lì con il taxi a Villa per il contrappello che becco sempre al volo ma riesco ad essere puntualissimo come un orologio svizzero. Villa Triste……. Mai aggettivo fu affibbiato più propriamente.

Il Gianni ed il Dario mi fanno scoprire il posto: fuori della caserma giù a sinistra per il viale alberato che passava davanti alla “Nembo” ed al “Genio”, verso il centro, si fa per dire, del paese; oltrepassiamo il passaggio a livello, ancora qualche centinaio di metri e arriviamo.

E’ il classico paesetto friulano con la strada principale che taglia in due un abitato ai minimi termini; un po’ di case di quà, un po’ di case di là.

Militari a nugoli che vanno di buon passo chissà dove, qualche gatto che indolente attraversa la strada, un cane che dal cortile affidatogli, quando passi, ti abbaia contro, un trattore sbuffante con carro che trasporta vegetali varii, gente per strada, zero, ragazze, hi….hi….manco dipinte sul muro…Una magnificenza! Un paio di bar, il tabaccaio, l’edicola, un cinemino striminzito, due tre negozi e altro non c’era, degno di nota.

Messo il tutto a confronto con Mestre ed addirittura con Marghera che propriamente ,con le sue ciminiere e i suoi petrolchimicim, proprio bella non era,Villa Triste appariva ai miei occhi di ventenne come uno sperduto avamposto sul Deserto dei Tartari.

I miei Amiconi ammettono che il sito rimane quanto mai, adesso potremmo dire “ameno”, ma allora lo definimmo categoricamente, un mortorio!

Gli stessi mi prospettano però, per la prossima libera uscita, una visita a Cervignano del Friuli che è li a pochi chilometri; mi favoleggiano di cittadina bella corposa,negozi con commesse d’abbordare, un paio di cinema, diversi ristoranti e pizzerie, gente che va e che viene dalle loro cose affaccendati, qualche sala da ballo e mi dicono ci siano pure le signore mercenarie dell’amore a pagamento. Quindi c’è vita! Vedremo.

La libera uscita ha lo scopo primario di riempir le pance, poi tutto il resto. Ovviamente,vista la qualità della cucina della A. Bafile, la fame come sempre, incombeva  implacabilmente. Gli amici mi instradano a quella che sembra una casa privata; esito perché non voglio aver a che fare con case private, invece loro insistono e scopro che dentro vi è una specie di piccolo ristorante: un barettino incastrato nel sottoscala, una toilette, tre stanze adibite a salette da pranzo, la cucina dalla quale escono effluvi invitanti, evidentemente piazzata nella stanza adibita in origine alla bisogna.

Servono in tavola due quarantenni tirate a lucido e noi galletti di prima penna ad indugiar lo sguardo sulle rotondità del fondoschiena e sghignazzare da coglioncelli imberbi. A proposito di imberbi:per uscire il libera uscita bisognava farsi la barba.Barba….si fa per dire…..cinquantatre peli non meglio identificati che costituivano allora, l’onor del mento. Ciò non di meno, per passare indenni l’ispezione-libera uscita, comunque questi sporadici e disordinati peli andavano pur rasati! La prima esperienza seria di rasatura avviene una mezz’oretta prima della libera uscita, dabbasso nei cessi, acqua rigorosamente fredda, schiuma da barba Palmolive bomboletta rossa presa allo spaccio, usa e getta Bic e via verso lo scorticamento più cruento della mia vita:sangue a fiotti,una faccia come un pomodoro maturo. Arrivano i consigli di chi la barba ce l’aveva da qualche anno e dura e copiosa:mai farsi la barba di sera! E’ preferibile la mattina, ma siccome la mattina già era fatica alzarci dalla branda per tempo, irrimediabilmente tutti la facevano alla sera prima d’uscire; rimedio miracoloso veniva prospettato dal dopobarba “Mennen”, pure esso disponibile allo spaccio. La prima volta che me lo aspergo sul viso dopo la rasatura, mi piglia un colpo per la sensazione di acuto bruciore che mi pervade la pelle; lacrimo copiosamente e impreco il dio dei dopobarba, poi passato l’impatto, sento sul viso una estasiante freschezza… Da quella volta, la bomboletta rossa  di schiuma Palmolive e la bottiglietta verde smeraldo del “Mennen” non hanno più abbandonato il mio corredo da barba.

Tornando allo pseudo ristorante mi scopro perplesso sulla validità del luogo; Dario e Gianni mi consigliano lasagne al ragù, una bella bistecca alla Bismark,(non avevo ai tempi, la più pallida idea di cosa fosse), patatine fritte, dell’ottimo rosso della casa e alla via così.

Troneggia in mezzo al tavolo un cesto da mezzo chilo di buon pane “furlan”;  scomparirà tutto prima che arrivino le portate. Quando arrivano noto che trattasi di porzioni extra-abbondanti; mi concentro: una delizia! Le lasagne altresì “pasticcio al ragout di carne”, volano via in poche forchettate e ho l’impressione di veder balenare l’apparizione di fantozziana memoria, della Beata Vergine di Compostela, talmente sono paradisiache.

La bistecca alla Bismark è una piacevole scoperta: tenera e friabile in bocca, due bei ovoni la celano all’occhio ingordo ed indagatore, il connubio dei gusti, carne e sopra uovo fritto, solleticano e mandano in visibilio le papille gustative; è un trionfo della soddisfazione epigastrica!

Che mangiata ragazzi….e che fame pregressa! Concludiamo il tutto con caffè e “sgnape” e ci alziamo dal tavolo molto più ben disposti con l’avverso mondo, che prima d’essere entrati. Spesa modestissima  e risultati eccellenti e quindi il rapporto qualità-prezzo,equilibrato(come s’usa dire oggi negli ambienti del moderno marketing). Ci viene in mente di andare al cinema: è piccolo, pieno zeppo di “canoe”. L’aria è elettrica perché evidentemente c’è del ruvido tra le parti: gli idiomi tradiscono origini prettamente meridionali, le tipologie pure: gente piccolina, scura di carnagione, ricci e mori, grandi baschi color cachi a mo’ di “tecia”, (padella), camicie e pantaloni o troppo grandi o troppo stretti, scarponacci della seconda guerra mondiale, fumo di sigaretta tanto denso che lo tagli con il coltello ma che però non mascherava gli effluvi causati dalla scarsa confidenza con le docce, (ai tempi,la doccia era un lusso….anche nei Lagunari), insomma un bell’ambientino. Capisco subito che il territorio viene considerato per tacito accordo,come “neutrale”: gli uni ignorano gli altri, qualche battuta stronza di quà e di la,ma alla fine tutti e tre gli appartenenti alle tre diverse parrocchie militari,convivono.

Ci si gode il film, una cazzata con Ciccio e Franco, si va fuori evitando qualche pretestuoso aggancio informale alla rissa, si fa tappa ancora all’osteria, una ulteriore e rafforzante “sgnape” e poi facendo attenzione a salutar per benino la guardia in garritta dalle Canoe, ci si appropinqua alla nostra caserma.

L’idea in effetti,era quella di rompere un po’ i “pendenti” alla guardia delle canoe, come loro facevano con noi, ma visto che alle porte delle suddette caserme,si intravedevano stellette dorate, ci ripromettemmo d’inventare qualche cosa la prossima volta.

E che ce ne torniamo in branda subito? Non sia mai!

Si favoleggia di tal pezzo di gnocca al banco del “Ragno d’Oro”, restaurant di buona levatura qualche centinaio di metri verso Monfalcone dall’incrocio della Triestina. Andiamoci! Si entra e si ordina un ulteriore sciacquabudella; della bionda non v’è traccia! Delusi quanto mai, si disquisisce nel merito talchè  si apprende dai meglio informati, che la tizia, padrona o figlia dei padroni, chi si ricorda più, aveva pure concorso per Miss Italia. Stupefacente e mirabolante. La tizia non si fa vedere e allora ci si appresta ad uscire con le orecchie “a picolòn”, dicono i clodiensi, (ciosoti per il volgo), ma in quel mentre ella appare: indubbiamente un bel esemplare della categoria femminile. Gli ormoni dei nostri vent’anni vanno immediatamente in circolo ed il soggetto si dimostra effettivamente interessante da qualsiasi angolatura fosse presa in esame.   Ma l’ora si fa tarda: via di corsa verso la caserma.

Il Sergente Francioso, Francis per noi, urla che al contrappello si deve arrivare puntuali e che si segna i nomi per l’andar a pulire i cessi l’indomani: ”ma dai…..siamo andati a fare una puntatina al Ragno d’Oro….abbiamo visto la bionda….”. Il Sergente Francis, si blocca repentino come uno spinone alla punta del selvatico, cambia sintonia, l’occhio gli si fa vispo e lucente, il balbettio s’accentua e s’informa con fare complice, ”avete visto che paio di gambe?……Mi ricordo una sera che….” E giù tutti a far capannello attorno al sergente Francis, per farci raccontare della bionda che….quella sera…..

La tabella delle punizioni giace sopra una branda e presto viene dimenticata, nomi scritti sopra non ne appaiono….

Per questa volta basta; la prossima vi racconto di Cervignano e di altri eventi. San Marco!!!

 

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Subject: 12ª puntata "Racconti di naja".
Data: Gio, 25 Nov 2004

 

“ …et voilà!”, pronta la dodicesima puntata dei racconti di naja del sottoscritto.

Tra scossoni e polemichette, tra contenti e scontenti, tra inerti infastiditi  e attivi bendisposti, andiamo avanti sino alla fine dei racconti di naja di cui alcuni si augurano finiscano presto, altri, i più, seguono con attenzione e favore e sembrerebbe, ci si divertano pure. Incominciano a cadere le foglie gialle dell’autunno del ’66. Gli alberi della A.Bafile di Villa Triste si arrossano e tra poco rimarranno nudi. Verso il tramonto, percorrendo il viale per andare a Villa, si annusa nell’aria, quell’ottobrino sentore classico di bruciato di legna che svela braci nei focolari e griglie in funzione. L’oscurità arriva prima e durante le guardie, l’aria notturna diventa più temperata e qualche sbruffata di venti settentrionali inizia a farsi sentire. Divisa autunnale!

Mai indossata prima (per la verità, una rapida prova al CAR e poi lasciata dormire nello zaino – valigia assieme al paltò e alle famigerate mutande tattiche). In effetti, con preveggenza io, un’aggiustatina l’avevo già effettuata in sartoria al Btg. Anf. “Marghera”, dove il sant’uomo che fungeva da sarto, sistemava con ieratica pazienza le goffe forme degli indumenti militari e che ai tempi non si avvicinavano molto ai canoni delle “creations for fashion”. Con una svelta macchinata il brav’uomo mi aveva pure cucito sui polsini, le inusitate mostrine che solo nella fanteria, i Lagunari portavano in quella posizione appena sopra i polsini.  In Marina, il Btg. San Marco. Altri, che sappia io, non ce n’erano (e non ce no sono).

Cucio con attenzione sulla manica sinistra, uno scudetto nuovo di pacca in panno nero con ricami di sottile filo metallico dorato che riproduce un mortaio stilizzato e la scritta “Mortaista 120”; appongo le stellette metalliche, stringo un po’ i soffietti regolabili in vita, le brache vanno bene così, per cui sperimento la libera uscita con la nuova divisa. Il nero basco, dopo alcuni mesi di sudore e sangue, sole e pioggia, si rimpicciolisce e comincia a calzar corto sulla nuca, datosi che l’ordine era di calcarcelo bene appena sopra le sopraciglia. Il basco non si portava come ora; l’uso era, pur se raccomandati a farlo, di non piegarlo sulla destra. In effetti non essendo il basco, tutto un corpo come adesso ma composto da vari pezzi, il copricapo aveva ad ogni piegata verso l’orecchio destro, la irrimediabile insistenza nel ritornare nella posizione primaria, sicchè anche vecchi marescialli provenienti dal San Marco, fior di vecchi ufficiali, e molti di noi ormai “scafatissimi” Lagunari, s’usava portarlo alla Marò. Mi viene in mente di tentare le scarpe fuori ordinanza che da “tuba” non dovrei ambire, un paio di volte vengo mandato in camerata a rimettermi gli odiati scarponcini neri, ma alla fine, la và. Andiamo a Cervignano. Trenino a caffettiera da Villa a “Savargnan” e sbarchiamo in  cotanta cittadina per l’esplorazione di prammatica.

Alla fine, dopo aver girato di quà e di la, sintetizzo che pure qui non è che sia Las Vegas: ho l’immediato sentore che i residenti, nutrano nei nostri confronti un che d’indifferenza e distacco a malcelata sopportazione.

Militari in tutti i buchi possibili, la gente non fraternizza proprio per niente e penso che se alla fine non fosse per quei quattro “schei” che lasciamo alle casse della pizzeria, ristorante, cinema, balera, molto probabilmente ci guarderebbero con poca cordialità.

Ciò non di meno, mi accorgo che noi Lagunari siamo pur sempre meglio visti e trattati dei colleghi meridionali; rilevo una malcelata “avversione” verso di questi e i piccoli gesti, le occhiate traverse, i mugugni in “furlan”, evidenziano la cosa. Qualche profonda ruggine, immagino, dettasse il comportamento scostante dei locali: molte marachelle perpetrate negli anni ai danni della laboriosa e introversa gente friulana, la differenza di culture opposte, di dialetti sconosciuti, di comportamenti emblematici. Pur tutta via, più di qualche militare, Lagunari e non e cioè le “canoe”, trovarono famiglia da quelle parti. Vai a capire il mondo tu! Di Cervignano, non ho niente da raccontarvi, perché la città non mi impressionò proprio per nulla, fatti particolari non ne avvennero, e segnalo solo che a mio avviso il paio di cinema che c’erano colà, erano un po’ più decenti e moderni della “caponera” di Villa Vicentina. Mi rimangono nella mente a proposito di Cervignano, solo il ricordo dei tragitti in taxi per Villa Vicentina per arrivare in tempo al contrappello, perché trenini locali non v’erano a quell’orario. Stipati nell’ampia  (di allora), Fiat 1800 nera di uno dei due tassisti operanti a Cervignano, quattro seduti dietro più due di traverso a pesce, due sul posto davanti, a botte di otto alla volta più tassista, si percorrevano i pochi chilometri che separavano i due luoghi.

Quasi sempre si rientrava più sull’allegrotto che sull’andantino, essendo ai tempi divenuta una tradizione, eccedere in pertinaci degustazioni della variegata gamma di vini friulani che come tutti sanno, sono tra i più rinomati della produzione mondiale. A parte le finezze lessicali, era quasi una mezza ciucca ogni libera uscita. Altro che no! E d’altro canto, che accidenti potevi fare se non imbucarti in qualche pizzeria di second’ordine e dargli dentro di buona lena? C’era alla Mortai, a parte un tre o quattro alcolizzati soggetti sparsi nelle varie Compagnie, il Mortaista  Cian di Trieste. Pardon, il Conte Cian! Quando era a cottura giusta, cioè quasi sempre, cominciava a raccontarci che la sua mamma, in spensierati tempi di gioventù, era approdata ad un fugace ma quanto mai, vissuto connubio amoroso con il Conte Tal dei Tali, nobile dell’entroterra triestino, ed il colpevole frutto di tale birichino incontro, ebbe a nascere nove mesi dopo e a vent’anni fu chiamato nei Lagunari. Quindi pur se non riconosciuto figlio neanche naturale dal Conte fetente, il nostro Amico nei fumi perduranti dell’alcool, pretendeva il nobiliare “Conte”, a precedere  nome e cognome.

Sempre da solo, rientrava sbronzo disfatto tutte le sere, barcollante ed incerto il passo, l’occhio torbido e semispento e così com’era crollava vestito di divisa e scarpe nella branda e sino mattina era morto; alla sveglia, la prima cosa che faceva appena alzato, si tirava fuori un mezzo litro di rosso militare, chissà da dove recuperato ed imboscato nello zaino, e se lo scolava come colazione. Veniva a mendicare qualche sigaretta qua e là, ne accendeva una e poi già barcollando se ne andava alla cucina dove si era fatto assegnare per essere più vicino alla scorta del vino.

Con quel ritmo, penso che sia già scoppiato di cirrosi epatica galoppante già da alcuni decenni. Tuttavia debbo dire per l’onor del vero, che non rompeva le palle a nessuno, viveva la sua tossicodipendenza con metodo e con una determinazione di auto distruzione che aveva dello sconvolgente, ma… mai lo sentii imbarcarsi in una baruffa o peggio in una scazzottata. Povero Conte Cian….. Di più congruo, come ricordo albergante tutt’ora nella mente, mi giunge mentre batto sui tasti questa pagina, la prima esperienza di guardia alle “polveriere” o più brevemente in gergo lagunare, ai “forti”.

Il momento è di stanca. Oramai del mortaio sappiamo tutto (almeno, quello che supponiamo ci spetti di sapere), si cominciano a ordire le trame per i primi imboscamenti. E’il momento  in cui gli “strissoni” altresì denominati “serpi” o anche “bisse”, danno il meglio di se stessi: leccate ai gradi superiori che avevano del portentoso nella loro untuosità: chi porta da casa vettovaglie e prodotti commercializzati nel negozio di famiglia, chi arriva a  settimane estive pagate nei vicini siti turistici, (molto si favoleggiava in branda prima d’addormentarsi, ma di certo nulla si sapeva, ma si dava per scontato, del torbido profondo), da distribuire e donare sapientemente, chi lavava macchine private, chi aggiustava lavandini ed impianti idraulici, chi sistemava giardini, chi si industriava a capire cosa può far piacere a tizio o caio, puntando il naso al vento come un bracco alla cerca del selvatico, per intuire dov’è la preda, chi si arrufianava in modo prostituzionale e chi esaltava le proprie capacità di civile, applicabili a faccende militari. Il cuoco va fare il cuoco, il muratore va al “minuto e mantenimento”, il geometra entra ai piani alti del Comando, il ragioniere va in uffici amministrativi…. e così via. Un bordello! Alla mattina dopo la colazione, un buon terzo della Compagnia si presenta in divisa da libera uscita e con sguardo irridente, guardando noi in mimetica oramai stabile, se ne va verso le varie destinazioni di “favore”.

Levati dal mazzo tutti costoro, che poi nella vita civile, quasi sempre diverranno emblemi di granitiche virtù civiche e ineguagliabili paladini dei diritti sociali dei più deboli, restano i coglioni, tra cui io, che, o per rifiuto del sistema “leccamenti e ruffianismi”, o per mancanza di malizia pelosa, si accopperanno tutte le guardie ai forti, tutte le guardie in generale e tutte le occasioni di farci una “secchia” così ai campi, addestramenti, manovre, dimostrazioni e quant’altro ed ovviamente dove c’era da sguazzare nell’acqua e ne fango.  Mai mi proposi per imboscamenti o incarichi facili, memore che una sera al “Marghera” , un figlio di buona donna di Ufficiale di picchetto chiede ai componenti del Picchetto Armato Ordinario (PAO), chi sapesse cavarsela discretamente con la macchina da scrivere; in effetti già mi avevano avvisato che si usava quel divertente sistemino per mandarti a magari, pulire i “pignattoni” in cucina, ma il S.Ten. la mise giù così bene, leggendo un foglio come se la richiesta provenisse chissà da dove, che ci caddi come una pera matura e con altri sventurati, ebbi l’incarico di scrostare un congruo accumulo di cacca dai cessi truppa! Il tutto riservato al tipo d’uomo “che non deve chiedere mai…”, si parte dunque per un turno di guardia alle polveriere. Zainone e zainetto ben pieno del necessario, particolare attenzione agli indumenti, non si sa mai, piogge autunnali e quant’altro possa accadere, una bella oliata al FAL, una controllatina alla mimetica e alla giacca a vento, una classica ed abbondante spalmata con grasso di cavallo targato E.I. agli anfibi, butta tutto sul camion con telone aperto ai lati e via verso il territorio veneziano.

Sembrerebbe che il forte in questione sia adiacente alla Riviera del Brenta e che sia titolato in onore del Signor “Poerio”.

Mi ricordo in effetti che prendemmo la Riviera del Brenta verso Padova e poi ad un certo punto, un ponte sul Brenta (canale), dove si svolta all’indicazione “Gambarare”; poi strade, stradette, stradine immerse nella campagna  e proprio non so dove siamo andati a finire, pur tutta via, improvvisamente un ponticello sul fossato ed appare il portale monumentale del vecchio forte. Gli smontanti sono ad attenderci con le bave alla bocca, l’occhio arrossato e torbido, arruffati, stanchi, sporchi, abulici, scassati. Non vedono l’ora di andarsene fuori dalle sfere e di ritornare alla civiltà. Scaraventano le masserizie alla bene e meglio sulla mezzaria del CM, prendono posto sulle panche laterali, sempre teloni aperti, e si involano verso Villa Triste che nella specifica situazione, a loro, tanto Triste non sembrava più. Ci accoglie un Maresciallo Maggiore che con fare perentorio e distaccato divide i presenti in due gruppi.

Un gruppo si piglia il Fal in spalla a va farsi immediatamente un turnetto di due ore nelle varie postazioni, l’altro gruppo si dirige in un prato antistante all’oscura e misteriosa costruzione, per l’istruzione “anti’incendio”: il Maresciallo, in modo autoritario, ci descrive in caso d’incendio, le nostre mansioni.

Ma cose “da mati”, penso io: ma vedi un po’ tu, ammesso e non concesso che quà dentro vi siano degli espolsivi, se noi andiamo li con la pompa ad acqua a spegnere l’incendio: ma manco se mi ammazzano! Pur tutta via, siamo obbligati a sorbirci il corso accelerato del “Piccolo Vigile del Fuoco”, il tizio ci enuncia due o tre regole d’ingaggio e poi ci presenta la pompa montata su ruote che attinge acqua dal fossato e la dovrebbe inviare verso l’ipotetico incendio;  la pompa è  azionata da un motore, dice lui, Volkswagen di 1500 cc (pensa un po’ cosa mi è rimasto ancora nella memoria dopo trent’otto anni), lo mette in moto, il tutto si avvia dopo vani e reiterati tentativi, e ci fa provare come dirigere verso il bastione del forte, il violento getto d’acqua che ne fuoriesce a comando:  “la manichetta deve essere il più possibile diritta, sennò vi si svicola dalle mani e poi prendete in faccia il bocchettone d’ottone che, pur considerando lo spessore dei vostri granitici crani, ve li spappola con una botta sola”!

Il Maresciallo molla l’acqua ed in effetti il colpo che arriva è molto vigoroso, ma…..con intuizione e prontezza, brandendo il bocchettone in due e ben stretto sotto le ascelle, con fatica riusciamo a dirigerlo comunque, più o meno dove vogliamo. Finita ‘sta menata, che di per se è sempre una cosa nuova imparata, torniamo al corpo di guardia ed attendiamo che smonti il gruppo  per rimpiazzarlo. Il Sergente che ci comanda (mai visto prima all’Isonzo), ci fa i turni che partono da zero dopo il nostro rientro: per quindici giorni, uscite non sono previste ma non so come, il Sergente riesce a far i turni in modo che salti fuori per tutti almeno un giorno di completo risposo. E via, in un ripetersi di turni di due ore di guardia e quattro di riposo, cibo quantomeno di dubbia origine e cucinato in maniera approssimativa da qualche benemerito, interminabili periodi di sconcertante solitudine di nebbia ovattata da sonnambulismo e abrutimento sulle altane, nelle garitte, al Corpo di Guardia, e quindi ronde per il perimetro del forte e giri a sorpresa quando un’ispezione esterna era nell’aria. Tanto era il nervosismo che ti mettevano in corpo in relazione a ipotetiche infiltrazioni da parte di malintenzionati, che avresti sparato anche al gatto del maresciallo che come tutti i felini che si rispettino, se ne girovagava sornione in cerca di qualche sfortunato volatile che nelle boschette perimetrali stanziavano giulivi e ove i merli ed i colombacci abbondavano copiosamente.

Il gatto per sua fortuna era bianco e grosso per cui visibilissimo anche al più imbranato delle guardie, fatto sta che avendo già raggiunto una discreta età, si dava per scontato che si prospettava per lui, sicuramente a suo tempo, dopo onorato servizio, una dipartita per cause naturali e non sventrato da una 7,62 Nato. Pensando alla tensione e alla grinta con la quale affrontavamo quei turni di guardia, mi vien da chiedermi cosa avremmo fatto se, con l’indottrinamento e le istruzioni di allora, ci si fosse presentata una situazione simile a quella che qualche mese fa, la Caserma Matter subì da parte delle Loro Signorie, i graffitari “No Global”. Oggi è andata così, ma ai nostri tempi con quelle direttive ben precise, io proprio non oso pensare agli sviluppi.

La notte è la più dura, il tempo non passa mai, l’aria comincia a rinfrescarsi e sopra le altane, specialmente  verso l’alba, sei un misto tra l’intirizzito ed il tossico in overdose di “Nazionali con Filtro”, la bocca brucia, gli occhi pure, la schiena grida vendetta, nei hai due palle che appena senti il cambio, già sei a metà della scaletta metallica. Arrivi alla branda, scaraventi tutta la bardatura da qualche parte, mangi se c’è da mangiare, bevi se c’è da bere, e poi sfrutti il più possibile il dormire sempre che i rompicoglioni di turno non continuino a profferir sguaiatamente, cazzate a raffica finchè non li mandi a “fan”.

Arriva un’ispezione esterna a circa l’una di notte: meno male che sono di turno di riposo.

Però m’imparo a memoria tutta la liturgia e attentamente memorizzo l’agire dell’Ufficiale che effettua l’ispezione: mi sembra che il tutto sia fattibile, e se non hanno voglia di tirati qualche trabocchetto, ritengo che l’ispezione si superabile senza danni. Ai forti, non sarò mai sottoposto ad un’ispezione. Per far passare il tempo, mi metto a cantare, a scrivere lettere, a fantasticare su cosa farò quando avrò finito la naja, poi anche queste cose mi vengono a nausea e oramai non vedo l’ora di finirla. Quando arriva il camion con il gruppetto per darci il cambio, siamo sbudellati, arruffati, sporchi, scassati, e naviganti in una nebbia fuori del tempo. Abbraccio al mia brandina alla Compagnia Mortai da 120 alla A. Bafile di Villa Vicentina, come fosse la mia culla primigenia. “Branda, mia dolce Branda, per piccina che tu sia, sei sempre la branda mia”! Alla prossima.

San Marco!!!

 

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Subject: 13ª puntata "Racconti di naja".
Data: Mar, 26 Apr 2005

Mi metto ad “abbozzare” la tredicesima puntata dei miei “racconti di naja”, all’incirca nel periodo che poi richiamerò nei momenti rivissuti in queste righe. Parliamo del periodo che va tra novembre e dicembre.

Quando sarà finita ed arriverà al Sito, non so, ma intanto questi giorni mi aiutano a ricordare quei giorni.

Dopo l’esperienza della Guardia al “forte” in quel di Gambarare di Mira, quelli di noi che hanno partecipato a quest’esperienza, si sentono sicuramente più partecipi di un “vissuto” militare maggiormente consapevole e più concreto; tra Car e Reggimento, sono già passati cinque mesi circa dall’inizio di questa storia e l’esperienza si nota oramai nei gesti e nei comportamenti più maturi ed assennati, le valutazioni vengono prese con più serenità e ponderatezza, le cose vengono viste con più “furbizia” e maturità (sempre che queste possano essere qualità possibili in ragazzi di vent’anni).

Visto che in qualità di “tube”, i “nonni” che a Villa erano già bello che partiti, non ci assillano più con le loro cretinate e che in verità, nell’ultimo immediato trascorso, hanno demolito letteralmente i “cosiddetti”, e visto che l’atmosfera è meno schizofrenica di quand’eravamo “baffi”, si vive con più avvedutezza e saggezza la vita che giorno per giorno ci viene organizzata dal “grande fratello” con le stellette.

Visto che le cose da apprendere relative al nostro incarico, oramai erano sempre quelle, m’immagino i rompicapi dei comandanti che ogni mattina dovevano inventarsi qualche cosa di nuovo per non farci stagnare in una vita di caserma, “strascinata” ed inutile.

Nel contempo, questa lenta “sedimentazione” che avveniva in noi, portava anche lati negativi.

Si nota distintamente una certa trasandatezza nel vestire che ci accomuna un po’ tutti, pian piano ci acquisisce inconsciamente (sempre e comunque cosa che non tocca i momenti di “libera uscita” dove siamo tutti tirati a lucido che di più non si può): sulla divisa da lavoro giornaliera che poi non è altro che una delle due divise complete che s’aveva in assegnazione, continuando a vestire sempre quella per risparmiare l’altra per quando s’usciva, si evidenziava macroscopicamente una visibile trasandatezza; gente che aveva i pantaloni con la piega svanita nel tempo e mai più ripristinata per cui due borse ai ginocchi che sembravano quelle della spesa; gomiti del giubbetto sformati dall’uso, le tasche oramai gonfiate dall’abitudine di ficcarci dentro le mani ad oltranza, bottoni mancanti, anfibiacci sempre incrostati della fanghiglia perenne che copriva il suolo della A. Bafile, camicie oramai rivestite dalle untuosità epidermiche che volendo o no, erano prodotti dai nostri corpi  i quali, volendo o no – questa era la realtà - potevano fruire della possibilità di una doccia calda, una volta alla settimana.

Per quelli che, vedi il sottoscritto, non avevano un incarico in qualche ufficio (pochi per la verità), o che erano “imboscati” nei vari punti topici (molti per sincerità), la mimetica era d’uso quotidiano per cui oramai ti era diventata una seconda “pelle”: unta e bisunta che stava in piedi da sola, “addomesticata” e riveduta in diversi particolari, la mimetica era divenuta l’espressione esterna del vero “guerriero”.

Levare subito (a noi mortaisti non servivano, ma per esempio, gli assaltatori gli avrebbero voluti con spessore moooolto più congruo), i cuscinetti para gomiti, il cordone che chiudeva appena sotto le chiappe la giubba perché la giubba era di moda tenerla così svolazzante sul basso; le bretelle dei pantaloni, datosi che usate correttamente ad ogni minimo piegamento e vi giuro, ma poi….lo sapete meglio di me, di piegamenti durante la naja, se ne fanno a bizzeffe, saltavano i bottoni per cui piuttosto che avere i pantaloni sempre sul “calante”,’ste “tiracche” venivano modificate a mo’ di cintura; si mantenevano in loco i cuscinetti paracolpi per le ginocchia (questi si, molto utili anzi, indispensabili per noi mortaisti), cuscinetti che alla fine non erano altro che delle spugnette per lavare le stoviglie, inglobate sulla tuta mimetica; alle brache quindi, venivano aggiunti lacci, cinturini, elastici e quant’altro adatto alla necessità, tutti aventi lo scopo di tenerle più aderenti possibile alle gambe a causa del fatto che le dimensioni dei “gambali” delle brache erano così generosi, che un Lagunare che non avesse usato quell’ “escamotage”, durante le marce al cosiddetto imposto “passo lagunare”, sarebbe stato così impedito considerevolmente dalla larghezza dell’indumento ed alla fine si sarebbe trovato punito per non aver marciato con la voluta ( e pazzesca, aggiungo io), cadenza “lagunare”, l’interno coscia in carne viva ed i “gioiellini di famiglia”, spalmati all’interno delle mutande.

L’uso delle brache più o meno aderenti della mimetica, laddove non fossero riconoscibili i gradi del soggetto che la portava, distingueva subito i Lagunari dai Sottufficiali e questi dagli Ufficiali: i Lagunari usavano qualsiasi mezzo disponibile per fare aderire alle gambe i pantaloni della mimetica e quindi largo uso di lacci da scarpe, elastici ricavati da camere d’aria, cinturini scuciti e fregati ad altri indumenti, elastici d’ordinanza acquistati al negozietto di articoli per militari, spaghi, fili elettrici, strisce di telo tenda e quant’altro potesse sopperire alla specifica necessità; i Sottufficiali non mettevano niente, ritengo perché non potevano farsi vedere dai superiori in grado, ad adoperare questi “mezzucci” da Truppa ed anche suppongo, per una sana e tradizionale tirchieria, caratteristica di allora, emblematica della categoria e che contraddistingueva il Sottufficiale a vivere un rapporto con il denaro, direi quasi patologico (saranno state le paghe da miseria, sarà stato chissà che cosa, non spendevano una lira in più, neanche se li ammazzavi), e per ciò quei pochi di questa categoria che dovevano marciare o muovere le gambe a passo lagunare, si tenevano gambali larghi e svolazzanti sicché quando camminavano, si sentivano schiocchi aguisa di vele al vento, ma di modifiche o sistemazioni alle “braghe”, non se ne discuteva nemmeno; per quanto riguarda gli Ufficiali, generalmente se si trattava di S. Tenenti, Tenenti e qualche raro Capitano che ogni tanto doveva farsi il “mazzo” assieme ai loro uomini, le brache della tutta erano sistemate in sartoria restringendo i gambali e facendo applicare elastici interni o bei cinghietti in tessuto mimetico. Venivano applicati anche elastici alla fine del gambale nella posizione dove la braca s’innesta nell’anfibio, (come nelle mimetiche d’adesso), per cui non dovevano star li a infilar elastici per poi rivoltarli sui colli degli anfibi, essendo già fissati all’indumento.

Se si trattava invece di Capitani “seniores” o Maggiori più addusi alla scrivania che alla marcia o per non dire del Colonnello Comandante, le mimetiche rispolverate ogni tanto per le sporadiche occasioni, erano nuove di trinca e inamidate per l’inazione; l’uso dei gambali ritornava alla guisa di quello praticato dai Sottufficiali, ritengo non per tirchieria visti gli stipendi un tot più congrui, ma perché gli Ufficiali dovevano attenersi per mentalità, al regolamento che non prevedeva l’aggiunta di quegli “adattamenti” e anche perché, sicuramente poca marcia facevano e avrebbero fatto.

Dopo settimane d’addestramento in comprensorio, le tutte mimetiche erano intrise tra fango sudore, sangue e lerciumi vari, che come ripeto, oramai rimanevano in piedi da sole. Nell‘immediato futuro non v’era sentore che ci fosse un modo fornito a spese dall’Esercito, per poterle lavarle.

Qualcuno di noi al quale oramai dava di vomito solo indossare al mimetica mattina dopo mattina, decideva di portarsela a casa e farsela lavare in famiglia, così suscitando nella mamma o nella nonna commenti poco lusinghieri nei confronti dell’organizzazione delle lavanderie militari.

Ma pure i legittimi proprietari delle mimetiche non scherzavano.

Nel contesto della pulizia personale bisogna precisare che la doccia con acqua perfettamente fredda, era agibile e permessa comunque alla fine dei servizi e prima della “libera”, il sabato e non quando uno se la voleva fare; bisogna dire che la cosa era infatti vista da molti con una certa diffidenza e dopo qualche sporadico esperimento molti sceglievano di vivere sporchi che morire congelati.

Alcuni di noi, forse i più schizzinosi e diciamo così, i più “tegoline”, avevano deciso di tentare pure qualche abluzione infrasettimanale nei lavandini dei cessi, per cui ci si metteva in piedi sui lavandini, ovviamente nudi come vermi (la temperatura tardo- ottobrina imperversava impietosa), e con la gamella si cercava di lavarci e risciacquare il saponaccio da bucato per la bisogna utilizzato per l’epidermide e che per la verità veniva distribuito con una certa copiosità; il contatto con l’acqua già gelida che fuoriusciva asfittica dai rubinetti ci faceva fare di quegli urli da forsennati che se per caso persone non informate del contesto, fossero passate di li per caso, avrebbero potuto scambiare quel luogo da dove uscivano inquietanti ed ambigui urlacci, con la toilette di qualche casa di tolleranza.

Altri, ai quali quella promiscuità non era simpatica e il loro pudore ancora forte, avevano inventato di costruire una specie di griglia composta da tanti piccoli assi di legno provenienti da scarti manutentivi, appoggiarla sul fondo della turca e cioè del cesso, quindi con un tubone di gomma pendente dalla cassetta dello sciacquone di cui veniva bloccato il galleggiante apposta perché facesse fuoriuscire l’acqua, erano riusciti ad auto fabbricarsi la parvenza di una cosa simile ad una doccia “umana”.

La cosa per altro non ebbe molto successo perché in sostanza, datosi che le porte dello “scomparto –cesso”, erano quasi sempre divelte ed appoggiate ai muri, d’intimità pudica poca ne ottenevano ugualmente e poi ci si doveva sempre lavare a stretto contatto di superfici di un luogo con pareti, se pure piastrellate, dove tutti andavo ad espletare le umane necessità fisiologiche, e succede che  l’asciugamano purtroppo a volte cade, scivoli su per un muro leopardato di ditate scure, il sapone e lo shampo dove lo appoggi, gli odori sono forti ed ”autentici”, il pericolo di mettere un piede in fallo è grande, per cui l’invenzione non ebbe grande successo.

La cosa andò avanti così per metà di ottobre e per quanto fu possibile, per tutto il mese di novembre del 1966.

Poi qualcuno al Comando di Battaglione ritenne che era arrivata l’ora anche per una doccia calda (però una volta alla settimana), per cui questa pratica dell’acqua fredda si affievolì da sola fino ad esaurirsi completamente per poi riprendere in primavera dell’anno successivo.

La doccia calda, scoprimmo, era una specie di prova olimpionica da portare a termine in cinque minuti!

E quando dico cinque, dico cinque!

Era evidente che sussisteva una certa carenza di combustibile che se la mente non mi tradisce, era la vecchia e tradizionale legna da ardere fatta bruciare da un “imboscato alle docce”, all’interno di una vecchia caldaia ante guerra; dentro la caldaia ci finiva pure tutto il combustibile di fortuna recuperabile, la cartaccia degli uffici, della mensa, i cartoni le cassette della frutta, le immondizie  degli spacci e dei circoli ecc. ecc.

Legna da ardere per tale impiego, se ne trovava sempre poca per cui ecco spiegato perché la doccia doveva essere velocissima.

Qualche maligno sosteneva che la legna arrivava più che copiosamente, altri dicevano che legna partiva dal legnaiolo in una quantità, ma arrivava in un’altra, sta di fatto che le temperature dell’acqua della doccia, arrivavano quasi mai al di sopra dell’appena tiepidino e per pochissimo tempo.

La prima doccia a Villa, ebbe del rocambolesco: un tizio urla che l’acqua viene mollata per minuti cinque, ne di più ne di meno, dopo di che viene chiusa e sapone o non sapone, te ne vai fuori delle scatole e se non ce la fai, vai a finire la doccia dove lavano gli M113 con l’acqua fresca assai….

Penso che si stia dando via di testa e che in cinque minuti manco riesci a lavarti i capelli, me la prendo comoda (ma non tanto perché immagino che i minuti non saranno cinque ma magari dieci per cui per i tempi con cui eri abituato a casa, la cosa poteva anche essere fattibile), a mezza saponata tolgono l’acqua e ne viene fuori un finimondo di proteste e di bestemmie; gira e rigira, pensa e ripensa, il tizio, un sergente maggiore, non ti fa rientrare assolutamente per risciacquarti completamente.

Una sfilza e sequela di apprezzamenti alla famiglia del maggiore (ovviamente mugugnati sotto voce), ed in contemporanea si manifestano i primi rudimenti dell’arte in cui ogni militare prima o poi deve eccellere se vuole sopravvivere.

Meno male che quello che va dentro dopo di me è il mio fratello di naja Dario, gli faccio un cenno mentre faccio finta di vestirmi, furtivamente con un salto tersicoreo, come efebo schiumante dalle panche, piombo di nuovo nella doccia e in due in doccia dentro insieme, sgomitando e frenando la ridarella, riesco a risciacquarmi via il sapone che oramai si era già che parzialmente asciugato addosso.

Da quella volta, dovetti organizzarmi in maniera tale che con l’orologio alla mano stabilii tempi e metodi al fine di restare dentro ai fatidici cinque minuti: lavaggio dei capelli a parte in altro loco con acqua fredda, quindi insaponamento velocissimo e programmato con durate differenziate a secondo della parte anatomica da lavare ma mai superiore a trenta secondi, lavaggio a velocità della luce, asciugatura anche questa ottimizzata e ragionata utilizzando l’apposito telo “carta vetrata”, per cui dopo un paio d’esperimenti, praticamente l’ultima bolla di sapone scivolava dal tuo piede e l’ultima goccia d’acqua cadeva dalla doccia….cinque minuti esatti!

Molti di quei movimenti mi sono rimasti memorizzati e tante volte ora durante la doccia, uso se non proprio quello, un sistema abbastanza somigliante al metodo di Villa Triste.

Ma cambiamo, come direbbe il mezzobusto televisivo, “decisamente” argomento.

Dicevo sopra che intanto eravamo arrivati nel Novembre del 1966……

Ora, io penso che quasi tutti noi ci ricordiamo cosa successe il 4 di Novembre del 1966.

Per quelli a cui questa data non ricorda niente, mi permetto di rammentare che nell’occasione, il Triveneto e non solo, subì una delle catastrofi alluvionali più disastrose dell’ultimo secolo. Anzi del penultimo…..

La nostra bella ed irripetibile Venezia rischiò di subire (e comunque molti ne subì ugualmente), tanti e tali danni da arrivare ad una situazione d’irreversibilità.

Per la verità, passati quasi quarant’anni, Venezia è oggi, Novembre del 2005, nella stessa situazione, tale ed uguale ad allora.

Perla e Regina dei mari, miracolo d’equilibrio tra acqua e terra, indifeso, fiabesco e fragile merletto di filigrana che da un momento all’altro può, se la fatalità e le condizioni atmosferiche si combinassero nuovamente in quella particolare casualità o in combinazione ancora più pesante, rimanere danneggiato per sempre o addirittura, ma non lo voglio neanche pensare perché non sono un ambientalista “talebano” integralista , può sgranarsi nel nulla…

Ora vi sto parlando di naja, quindi non m’inoltro in pareri sulle veneziane amministrazioni comunali che via via si succedettero e che attualmente sono così tanto “care” ai Lagunari, per cui avremo sul tema, altra occasione e sede per disquisire.

Il 3 Novembre, che precede ovviamente il 4, festività nazionale, alla sveglia c’è già pioggia battente e vento, più un Greco freddino che un classico tiepido Scirocco da “acqua alta”; sostenuto e teso già dal mattino, si evidenziava corposo e percepibile distintamente perché spingeva al galoppo minacciose e basse nuvolacce nere. Prevediamo subito il complicarsi dei rientri in famiglia;  ci prepariamo per un “trentasei” e al riparo e all’asciutto nelle nostre se pur ignobili camerate, ci apprestiamo ad indossare la divisa da “libera”.

Il Sergente Francis, al secolo Francioso, ci comunica che tutti i permessi sono sospesi sino a nuovo ordine per cui nessuno va fuori della caserma: increduli chiediamo lumi ed il nostro ci dice che sembrerebbe che dal Comando fosse arrivato ordine di attenersi ai tempi regolari senza anticipare com’era d’uso, i “trentasei”,  quindi, senza essere ufficiale, intuiamo che in pratica è un preallarme!

Ci mettiamo a imprecare il dio dei venti (Eolo) e delle piogge (non so, ma qualcuno da imprecare si individuò), chi si ributta a dormire, chi ronza su è giù tra la fureria, la Comando e lo spaccio.

La notte passa con il timore che arrivi l’allarme ma questo non succede; però manco rientra il trasparire del probabile preallarme. Il giorno di festa è d’attesa: se non sarà un trentasei, potrà rivelarsi una specie di “ventiquattro” o chissà, un "dodici"…

Un tizio possiede la radio e quindi verso le cinque e mezzo della sera, abbandonata ogni speranza d’uscire, siamo tutti stravaccati sulla ed attorno alla sua branda per sentire le ultime notizie sul caso e che per la verità arrivano dai vari giornali radio, frazionate e confuse, ma pur tutta via s’intuisce che sono affari seri e che la zona e quella anche di nostra pertinenza.

Lucido, nella fioca luce della camerata, con veemenza e particolare attenzione, le scarpe nere “fuori ordinanza” da “libera”, ma poi con preveggenza spalmo il grasso con spesse lappate,sugli anfibi; l’orecchio mi viene attirato dal “sacramentare” del gruppo che segue le notizie via etere: le Forze Armate vengono fatte intervenire nel Triveneto: inquietudine, gelo ed apprensione!

Porca Puttana! Chi si spara un serie di Nazionali Semplici senza filtro, chi impreca all’indirizzo del Ministro della Difesa, chi come il Conte Cian si sgargarozza per esorcizzare gli accadimenti acquei, un paio di mezzi litri di rosso innominato….porca puttana e ancora porca puttana!

A Venezia si teme una marea eccezionale, ma sono gli argini di fiumi e torrenti che incominciano a cedere: quelli di noi che abitano nella  Serenissima e quindi usi alle acque alte, ci ridono su, non capiscono ancora l’eccezionalità (forse temono di capire), altri delle province di Treviso, Padova, Trieste, manco s’interessano a quanto sta avvenendo, Rodigini, Chioggiotti, e moltissimi altri che invece abitano lungo o nei pressi delle gronde lagunari e che hanno sentito da piccoli, del Po , sono invece seriamente in allarme ed impensieriti mica male per il fatto che casetta loro si trova proprio in quei luoghi.

Ci sarà stata anche la spensieratezza e il voler sempre sdrammatizzare il tutto dei vent’anni, ma imbecilli no!

Si va al rancio serale con il “transistor” incollato all’orecchio, si rientra ed in camerata si ha la sorpresina: tutti in preallarme, ufficiale e certificato questa volta e se non allarme rosso sicuramente sarà arancione; preparasi in assetto da combattimento (allora si diceva così), “non occorre armarsi…” urla il Francioso”, e tenersi all’occhio e  pronti al probabile allarme.

Bestemmie e proteste ma sotto sotto, eccitazione e voglia d’agire….. voglia d’intervenire.

Alle 23,00 è allarme!

Azione! Tutti giù; dopo pochi minuti sui piazzali appaiono i CM ed a fianco si presentano pure diversi M113; noi bardati di tutto punto con tanto di zaino e teli tenda, alle 24,00 circa si parte per, chi dice Latisana dove la piena sta portandosi via i binari del treno (sic!), chi dice invece verso nord est, Isonzo e company, altri prevedono Grado, ed altri addirittura la zona del Livenza a Motta o a Meduna.

Io fui a Latisana.

Di quel che si fece non sto qui a raccontare perché ora, a mente serena e passati molti anni, ritengo di dire che la modestia ed il senso del dovere debba farmi segnalare solamente che durante quei tre giorni seguenti, si fece quel che si doveva fare, ordinati di farlo, si, ma con il cuore e la “ghigna” lagunare che ha spinto sempre nella direzione giusta.

Alla fine di quell’esperienza la cui descrizione per ora, intendo così liquidare, succede un sabato mattina, che arrivò un pezzo grosso, non mi ricordo se Colonnello o Generale, comunque una “canoa”; ci schierammo il Btg. intero e noi che avevamo partecipato a questi fatti fummo inquadrati a parte e poi ad ogni uno di noi fu consegnato un attestato di benemerenza e un, chiamiamolo “riconoscimento”, da parte dei Comandi (????): un nero ed enorme rasoio elettrico marca “Brown”. Il rasoio mi fu rubato dopo qualche mese, l’attestato lo conservai orgogliosamente sino all’anno 1974, anno in cui mi sposai e ritengo che durante il trasloco, l’attestato andò perduto o rimase imbucato chissà dove.

Di ciò ne sono molto dispiaciuto: ci tenevo.

Riprendiamo la normale vita di caserma: le amicizie si consolidano vieppiù, essendo le ore da passare insieme, meno farcite di cose da apprendere per pararci il didietro; i gruppi si rintanano magari con la scusa di un “ripasso” alla tecnica di puntamento….in qualche anfratto in giro per la vasta caserma.

Io, ogni tanto, offro la mia collaborazione all’armiere perché mi piace andare a smontare e pulire le armi, vedere come funzionano, capire i meccanismi; mi ci diverto e quando appoggio alla rastrelliera un bel BAR pulito, oliato e lucido, me lo rimiro con orgoglio. Niente a che fare con l’ “imboscamento”: li si lavorava sul serio. Questo interesse per il manufatto “arma” mi ricomparirà poi nella vita civile e diverrà poi una delle mie più grandi passioni.

Basta un buco, una tettoia, una baracca in disuso giù per la polveriera, e lì a raccontarci le cose nostre: confidenze intime, le problematiche future, le rogne familiari, il timore del domani finita la naja, le aspettative ed i progetti.

Quando le giornate erano proprio infime, pioggia e fango, vento e le prime gelide leccate da Nord- Est, ci si imboscava in camerata, sdraiati sui cubi della branda, si estraeva il telo lo si agganciava sommariamente, ci si sedeva sopra e con le gambe a penzoloni, magari coperti alla bene e meglio con il paltò sopra perché le temperature in tutti i casi, erano sempre “cristalline”e dannatamente avvertibili, in quei momenti di confidenza, ogni uno diceva la sua.

Argomento principale: le femmine!

A vent’anni, era l’argomento che emergeva in tutte le discussioni: si iniziava a parlare del futuro acquisto dell’utilitaria ed alla fine erano le donne il vero obiettivo – sedili reclinabili o si risparmia sull’accessorio?

 Si scherzava sulla squadra di calcio del cuore ma, gira e rigira, si concludeva sconfinando sul settore muliebre; si era andati a vedere un film, ma della trama poco s’era capito e più attenzione risultava dai discorsi, essere carpita, dalle rotondità dell’interprete femminile; alla Tele qualcuno riferiva d’aver visto ballerine con tanto di epidermide scoperta; i più allupati traevano dallo zaino l’ABC o LE ORE ed i paginoni centrali facevano esposizione di belle figliole coperte dai bikini dell’epoca; altri riferivano di brevi e forse fantastiche avventure con giovani friulane chi a Scodovacca, chi a Pieris o in qualche altro paesetto vicino.

“Io gli farei così….io invece propenderei per cosà…io, l’ultima ho sperimentato che messa a …..a me invece hanno detto che se si fa così, succede che lei reagisce colà…..”.

Erano vere o false, io non so, certo che di scemate ne venivano fuori a raffiche continue.

In seconda battuta, si parlava delle proprie famiglie, com’erano composte, i genitori, se ci si andava d’accordo oppure no, gli amici, chi ce l’aveva, la ragazza.

Si venivano così nel tempo, a conoscere quasi tutti i problemi ed i pensieri segreti dei tuoi vicini di branda talché, giorno per giorno tra di noi si costruiva un rapporto confidenziale e fraterno.

 Vado molto d’accordo con il Dario Bari che abita in una casa adiacente alle rotaie del treno a lato del cavalcavia sul Terraglio, appena fuori Mestre (località…località….boh…. e chi se lo ricorda, so che vi erano due trattorie con lo stesso nome, “Favorita” forse, una nuova ed una vecchia,ma….non mi ci giocherei un caffè), ora ci sono dei campi da tennis sulla sinistra andando verso Mogliano e d’estate vendono le fette d’anguria…...Un bravo ragazzo che faceva il disegnatore tecnico presso un architetto, il padre ferroviere, madre casalinga, sorella, fidanzata, insomma “un bravo fio”, molto solidale e corretto, un vero amicone; dal primo giorno al CAR a Pesaro dove avevamo subito fatto amicizia, in avanti nel prosieguo della naja, abbiamo convissuto l’esperienza militare assieme, a parte il breve intervallo in cui io ero al “Marghera” e, diciamo, quasi gomito a gomito, con grande stima reciproca e ottimo affiatamento.

Aveva le seicento, blu scuro e se l’era portata a Villa verso la fine della naja: facemmo con quell’infernale macinino, diverse fughe serali.

Il suo sogno era di trovare un lavoro fisso come disegnatore presso qualche azienda meccanica, sposarsi e mettere su famiglia con la sua “morosa”.

Dopo un paio di mesi dal congedo, andai a trovarlo presso lo studio dove provvisoriamente lavorava e lo trovai felice ed euforico perché aveva trovato un ottimo impiego dalle parti di Preganziol - Zero Branco; ci lasciammo con la promessa di ritrovarci con una certa regolarità, cosa che certamente sarebbe avvenuta: una sera, dopo poche settimane dall’inizio del suo nuovo impiego, rientrando verso Mestre con un temporale furibondo, perde il controllo della nuova otto e cinquanta coupè appena presa usata, e s’infila nello Zero dove muore annegato dentro l’auto.

Lagunare Dario Bari – II° ’66.

Ciao Dario e San Marco!

Un altro amicone, tutt’altro carattere di Dario, ma sempre un ragazzo corretto, onesto, e serio, era ed è (ringraziando Dio), il buon Gianni De Prà, zona Favaro Veneto – Carpenedo: babbo da poco defunto che lavorava in raffineria Shell, madre e morosa, sorella già accasata con il proprietario di un laboratorio per la fabbricazione di lampadari, la sua speranza d’occupazione futura era quella di farsi assumere dal cognato.

Durante la naja, era insofferente alle cose militari, ma abbastanza filosofo da non arrivare mai a fare il coglione; prese subito una decisone drastica e andò a fare l’attendente del Colonnello Comandante di Btg. e quivi trascorse tutto il restante periodo di naja.

Me lo ricordo che vagava per la caserma con il secchio del carbone o con qualche scopa a spallarm, basco infilato nella spallina destra e sorriso a trentadue denti quando mi vedeva scarrozzarmi il mortaio e invece lui accennava a passi di danza con la scopa come dama…..

Ogni tanto portava in camerata per l’uso comune di noi tre, qualche paninazzo bello pieno, qualche bottiglietta di quello giusto da Ufficiali, giornali e notizie fresche dal Comando.

Dopo il congedo ci vedemmo con regolarità per diversi anni e tutt’ora ci si sente; diverrà poi stimato imprenditore nel campo dei lampadari, ogni tanto ci telefoniamo con reciproco piacere.

La grande amicizia militare nei miei riguardi è rimasta ma dei Lagunari non gliene può importare di meno!

Altri bravi ragazzi me li ricordo guardando le mie foto ricordo di naja e faccio fatica a collocarli come miei “fratelli di naja”, oppure come Tube o addirittura “baffi: De Florio, un piccoletto magro, molto compunto, che nelle gare di pattuglie, ci distanziava tutti con un passo forsennato, Giupponi  che veniva sempre a fregarmi la chitarra e avrebbe voluto imparare a suonarla, il  C.M. Moretti poi sergente, vivi e lascia vivere, Rumor veneziano pacioccone e sempre allegro, con dei piedi che puzzavano anche quando aveva gli anfibi, Scaramuzza, dalla dizione distinta e dai modi raffinati, Bonaconsa il vissuto, Zongaro di Cesarolo, il Sergente Castagna dalla inflessione romagnola e molti altri di cui ricordo il viso ma non il cognome….

E poi l’allora Sergente Francioso che dopo molti anni, ritroverò con il grado di Maresciallo Maggiore, sposato con una gentile Signora di Ca’ Savio e quindi trapiantato a Cà Vio: saranno passati circa venticinque anni dal congedo ed ero fermo in auto sulla strada che costeggia la diga nord di Punta Sabbioni, stavo facendo delle annotazioni di lavoro, con la coda dell’occhio vedo un tizio in piena attività subacquea, guadagnare poi gli scogli e seguendolo con lo sguardo perché molto interessato all’attrezzatura per via che pure io ebbi delle frequentazioni di tutto rispetto in tale sport e perché la sua barbona bionda aveva qualche cosa di vagamente familiare. Mi viene un lampo! Forse è Lui!

“Ostregheta”! Era proprio Lui, il Sergente Francis, Francio: “a Frà” come tante volte brevemente lo appellavamo, animaccia terrona e stomaco sempre vuoto; colui che ci aveva accompagnato a balia per tutto il periodo di Villa Triste molti anni prima: lo avvicino e approccio un attimo indeciso ma poi tutto s’incanala di gran carriera tra ricordi e risate. Poi durante i miei giri di lavoro, lo incontravo spesso ed ogni volta lo chiamavo “baffo!” e Lui: “famme ‘na trentina de pompatine, vai”, e giù a ridere di cuore come”baffetti” imberbi ed “incancarii”. Una quindicina d’anni fa mi sembra, in un incidente stradale in località San Giorgio di Nogaro – triestina bassa, perderà il figlio ventenne che stava rientrando in caserma dopo un permesso; la cosa determinò con il pensionamento giunto poco dopo, il trasferimento in altra città (Alessandria , mi pare). L’ho visto l’ultima volta, al Raduno di San Donà: baffo quà….baffo la…ti ricordi quella volta a….e quell’altra volta che….

E si. Il Sergente Francioso che aveva messo la firma perché mi raccontava, non andava d’accordo con il padre e per la qual ragione decise di fare il militare: spesso mi proponeva la teoria che la vita sotto la naja aveva i suoi lati positivi ed in effetti, batti e ribatti, poco ci mancò che non mi convincesse a fare il salto.

Io ero solo, i miei genitori erano mancati quando avevo quattordici anni, vivevo dai miei zii materni in un luogo che non era quello delle mie radici, tutte le strade erano possibili ed aperte e la vita militare non è che proprio mi fosse così antipatica.

Mi trattenne solo il fatto che i miei sogni di gloria economica possibili in quel di Jesolo, località turistica in pieno sviluppo, erano talmente allettanti che la vita militare mi sembrava troppo semplice ed in prospettiva futura, poco appagante.

Ci mancò comunque poco, direi quasi, un pelo! E ancora oggi ci rimugino sopra se feci bene oppure no a non passare il Rubicone.

Chissa….

Le temperature diurne, ma special modo le notturne, diventavano sempre più fredde, le guardie di notte erano dure, lunghe e prostranti perché il freddo era micidiale: Dicembre.

Una notte, turno di guardia dalle 02,00 alle 04,00, sono di sentinella in fondo, alla “polveriera”. Cade una pioggia sottile e fitta ed il vento carsico sferza di buona lena la caserma e lingue gelate ti entrano tra gli indumenti, a lambirti la pelle.

Giro e rigiro attorno a ‘sta porca di costruzione completamente priva di un poco di tetto spiovente o di un accenno di tettoia; cerco di piazzarmi dal lato dove tira meno il vento ma dopo poco sento l’acqua che arriva all’epidermide, giù per il collo e le spalle.

A questo punto non ci faccio più caso e mi metto a saltellare lungo il marciapiede, per vedere di scaldarmi un poco. Ogni tanto mi fermo e scruto l’oscurità piena di misteri, indugio sul cono di luce dove è piantato il cartello “Alt! Farsi riconoscere!”. Tutto di colpo mi rendo conto che in lontananza, tra lo stillicidio delle gocce nelle pozzanghere, s’ode un impercettibile rumore di passi nel fango della strada che proviene dalle officine e scuri movimenti riflessi dalle gocce di pioggia sulle lenti degli occhiali, mi mettono in repentino stato d’allarme: arriva l’ispezione!

Non ne avevo mai avuta una per cui il cuore va a mille, la bocca si asciuga in men che non si dica, il panico mi assale, prego qualche santo che non ricordo ma che sono sicuro che in quel momento si è svegliato per proteggermi, imbraccio il Fal Alpino di cui per la prima volta ne uso un esemplare e sbotto nel classico “altolà, chi va là” provato e riprovato centinaia di volte, sento di risposta “ispezione” e segue via via la liturgia del botta e risposta “parola d’ordine….Padova …..Paola….” e sembra che la cosa si svolga nel modo dovuto.

Cerco di riconoscere l’Ufficiale d’Ispezione e nel cerchio di fredda luce proiettato sul terreno del posto di guardia non mi aiuta perché l’ombra del frontale del basco cade verticale sul viso dell’Ufficiale: un leggero movimento e poi un tonfo al cuore! Terrore: l’Ufficiale che effettua l’ispezione è il devastante Kriminal, per il volgo, il Tenente Di Benedetto: se ne raccontano di tutti colori su di lui; che faccia scherzi per fregarti l’arma, oppure che Ti metta in condizioni di confusione e panico tale, da farti perdere la giusta concentrazione.

Mi piazzo a circa un metro dietro di lui con l’arma baionettata e rivolta alle sue chiappe e lo seguo a mia volta seguito dal Capoposto; sono talmente concentrato che se il tizio fa un movimento appena più rapido del lecito, vi giuro, lo infilzo tanto era il parossismo indotto; facciamo il giro della costruzione e sembra che tutto vada OK.

Penso che la cosa finisca li ed invece il buon Kriminal vuol fare l’ispezione all’arma: come dicevo sopra, era la prima volta che prendevo in mano il Fal per cui non avevo la più pallida idea se lo smontaggio della scatola di scatto fosse come quella del Garand oppure no; vado per intuizione e volto a pancia all’in sù il Fal e comincio a tirare il ponticello per liberare l’estrazione della scatola di scatto; manco per niente, il ponticello non si muove: tutto bloccato!

Tiro e spingo come un dannato, scivolo sul ponticello mi sguscio le nocche della mano destra tant’è che dopo un attimo comincia a fuoriuscirne del sangue, incollo la pelle delle noche sul ponticello, sbuffo ed impreco ma questo non intende di saperne di sganciarsi.

Guardo il Kriminal che gelido e serafico segue con attenzione il mio maldestro armeggiare, vede che mi sono sconquassato una mano ma tace e mi guarda imperterrito in attesa che io risolva la faccenda; io mi guardo la punta degli anfibi, gonfio le gote, soffio e dico “pfffui!”, con una mezza imprecazione ed direttamente rivolgendomi al Caporale Capoposto, sbotto dicendo: “Dì al Signor Tenente che non riesco ad sganciare la scatola di scatto perché è la prima volta che uso questo fucile ed a tutt’oggi nessuno mi e ci ha insegnato a smontarlo per cui non so quanta e quale pressione devo fare sul ponticello sempre che il metodo di smontaggio sia quello; detto questo, io il fucile non glielo do perché non posso asportarne la scatola di scatto!”.

Il Capoposto mi guarda con occhio altrettanto incerto quanto il mio e poi rivolge un’occhiata interlocutoria al Kriminal in attesa di stabilire un qualche cosa; il Kriminal, secco e gelido com’era suo uso, sibila: “io l’arma la devo e la voglio controllare, per cui pensatevi un po’ un qualche cosa perché fin che l’arma non è controllata, da qui non ci si muove e se l’arma non può essere controllata, ne deriva che sono cazzi!”.

Il Capoposto mi guarda con lo sguardo nello stesso tempo seccato ed implorante ed io mi sento avvampare anche se il freddo è più cane del solito e la pioggia continua ad investire lo spettrale trio notturno.

Cerco con uno sforzo sovrumano di sbloccare ‘sto ponticello dell’accidenti, il sangue sgorga in maniera più che visibile dalle due dita pelate, ma la cosa non si evolve.

Mi dico: “ragiona con logica e vedrai che non succede niente”.

Quindi guardando il Tenente Di Benedetto ma rivolgendomi al Capoposto, dico:”propongo che se il Capoposto ha già smontato in passato il Fal e quindi sa come si fa, lo faccia lui e poi dia i due pezzi a me quindi io porgerò in successione alternandoli, i due pezzi al  Signor Tenente, mentre io come da regolamento terrò, impugnando la baionetta in mano, sotto controllo il Signor Tenente che esaminerà così l’arma; alla fine dell’ispezione dell’arma, avverrà il procedimento inverso sino al montaggio completo dell’arma”.

Il Kriminal mi guarda come se mi volesse traforare con lo sguardo, si volta teatralmente e ci da le spalle per un attimo guardando luci lontane, il vento fa svolazzare le falde dei cappotti, il silenzio, a parte il gorgogliare delle grondaie sui marciapiedi della “polveriera” è assordante, la scena ha del filmico indubbiamente; il Kriminal si passa una mano sulla faccia poi si rivolta lentamente e freddo dice al Capoposto: “va bene, facciamo così!”.

Sarà stato perché usai più volte il “Signor” Tenente, sarà stato perché mi misi in posizione piuttosto aggressiva con la baionetta a pochi centimetri dal collo del Tenente (a volte il pericolo incombente ti fa tenere strani ed inusitati comportamenti), sta di fatto che mi lanciò questa volta un’occhiata piuttosto perplessa (non ci sta scritto da nessuna parte del regolamento come devi tenere sotto controllo con la baionetta, il controllore), sta di fatto che la cosa si concluse praticamente senza ulteriori complicazioni.

Non mi sembrava vero.

I polmoni non ne volevano sapere di mettersi a respirare di nuovo, il cuore continua il ritmo indiavolato ancora per qualche tempo, il campo visivo comincia a riallargarsi sino alla normalità.

I due se ne scompariranno nella notte e dopo un’oretta mi venne dato il cambio.

No comment; nessuno dice niente, la guardia montante non ne sa niente ed io a mia volta me ne sto zitto sui fatti appena accaduti.Il Capoposto, dopo avermi avvertito di non passare le munizioni al mio sostituto, ma di tenermele, non fiata per cui cerco di rasserenarmi.

Ma non è finita là. Al corpo di guardia, il Capoposto (poteva aspettare ancora un po’ per dirmelo), mi dice che il Tenente Di Benedetto mi sta aspettando e mi vuole a rapporto subito: così come sto con armi e bagagli, arrivo, busso alla porta dell’ufficio, mi schiaffo sull’attenti, urlo Lagunare Tizio Caio, Compagnia Mortai da 120, comandi Signor Tenente, quello mi guarda e mi dice “adesso controlliamo le munizioni in dotazione!”.

Venti cartucce in 7,62 Nato, dovrebbero essere contenute in un sacchetto in tela mimetica, cucito e sigillato e che mi avevano consegnato quando ero montato di guardia e che tutt’ora avevo dentro la buffetteria. Dovrebbero…perché il Tenente Di Benedetto nota una leggera scucitura, apre il sacchetto e…….. le cartucce sono diciotto!

“Sono diciotto e quindi ne mancano due! Cosa facciamo?”.

Altro collasso cardio circolatorio in arrivo. Cacchio, io non le ho prese e non so cosa dire…

Mi viene di inviare la solita richiesta d’aiuto al mio santo personale addetto alle emergenze tragiche, quindi tosto mi giunge l’ispirazione dei momenti maledetti e dico: “ Signor Tenente, quando mi è stato dato in carico il sacchetto con le munizioni, ne mi è stato detto di controllare, ne io ho potuto farlo e anche se avessi voluto farlo non lo avrei potuto fare perché durante la presa in carico delle munizioni ero sollecitato dal Capoposto a presentarmi per l’ispezione di “Guardia montante”, quindi io non potevo sapere che ne mancassero due!”.

L’Ufficiale chiama il Caporale Capo Guardia e dai discorsi che fanno capisco che ispezionando le munizioni delle altre guardie montate con il mio turno, aveva trovato degli altri ammanchi di cartucce, io vengo congedato su due piedi e andandomene in punta di piedi, anzi, d’anfibi, incomincio a sentire il Kriminal che si mette a “cazziare” urlando verso il povero Caporale che pure lui a dir la verità, manco ne poteva sapere più di tanto.

Per il resto della notte non dormii più, rimasi elettrizzato per tutta la mattina e quando smontai mi sembra d’aver vissuto in un film.

Tenni sotto controllo tabelle e controtabelle, non vidi comunicazioni di punizione, chiesi in fureria e i colleghi mi dissero che di quello specifico, non se ne era parlato.

Non ne conseguì nulla.

Quindi, riflettei, il Kriminal che tutti detestavano perché “carogna”, tutto sommato, nei miei confronti e nello specifico, si comportò in maniera direi corretta ed alla fine se io fossi stato nei suoi panni, probabilmente mi sarei comportato nella stessa maniera, per cui, per quanto mi riguarda: Kriminal…….riabilitato a tutti gli effetti. Almeno secondo me.

Mi butto in branda sfinito come il solito dopo una guardia, si spengono le luci dopo il silenzio, una debole luce notturna mascherata da una plafoniera dipinta di blu scuro rimane accesa per la notte, accendo la candela fuori ordinaza che sovrappongo con due gocce di cera ad una delle gambe della testiera della branda, quella di destra, mi accendo l’ulteriore Nazionale ovviamente “Esportazione”, con filtro (pacchetto bianco, un timone stampigliato sopra), leggo due paginette di un romanzo di Steimbeck, “Uomini e topi” se non rammento male, la fiamma tende a spegnersi per il vento che libero ed impetuoso soffia di buona lena nella camerata della Mortai,  cosicché la luce diventa talmente tremula da innescare l’effetto ipnotizzatore, la palpebra si fa così pesante da non poterla più controllare, per cui desisto dalla lettura e mi inoltro sempre più in affondo allo strato di coperte che oramai aveva raggiunto il numero di quattro unità più cappotto, il tiepido tepore mi avvolge gradualmente, le noche delle dita, sbucciate e incrostate di sangue mi bruciano, le succhio maledicendo il Fal Alpino, spengo con un soffio la candela che ugualmente si sarebbe spenta prima o poi per il vento che tira….e chiudo l’occhio.

Sprofondo in un sogno popolato di cartucce vermiformi e Fal Alpini che antropomorfizzati, simili a figure di cartoni animati, mi fanno le boccacce esibendo sconciamente le proprie scatole di scatto come fossero i loro protuberanti sessi .

Nella prossima puntata, parliamo di Marano Lagunare e della fine del 1966.

San Marco!

 

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Subject: 14ª puntata "Racconti di naja".
Data: Mer, 15 Giu 2005

La quattordicesima puntata va in scena.

L’alluvione e conseguente ribollimento delle acque anche interne delle varie lagune del nord-est, fanno si che anche la Base Natanti che il Reggimento ha  alle sue dipendenze a Marano Lagunare e che viene  seguita dall’ “Isonzo”, subisca dei suoi sconvolgimenti.

Si dice che uno dei LVTMK4 che erano all’interno della Base, abbia “rotto gli ormeggi” durante la piena e sia scivolato rompendo un pezzo della mura di cinta, se ne sia andato “alla seconda”, seguendo la marea in calo cosicché veniva recuperato in seguito ad una discreta distanza dalla Base;

si dice che quei pochi LVTMK4 che avevamo colà, siano stati poi caricati e portati a Cà Vio (non si sa mai, un'altra piena…), si dice che quello fu l’inizio della fine della base di Marano Lagunare e che da allora in avanti sarebbe rimasta deserta e poi dismessa.

Noi, ultime ruote del carro, andavamo avanti solo per i “si dice” veri o falsi che fossero, per cui non garantisco che quello che riporto sia poi effettivamente avvenuto: in quel momento a noi semplici Lagunari, questo veniva dato sapere, cioè niente! Una sera guardo la tabella servizi e vedo il mio nome collegato a Marano Lagunare.

Chiedo: mi dicono che c’è da far la guardia ad una piccola base dove all’interno sono parcheggiati quei mastodontici e strani carri di cui avevo visto un esemplare una volta da lontano, in officina, appena arrivato.

Mi spiegano che si mangia e si dorme in Caserma della Guardia di Finanza e che i turni ci permettono una grande libertà, quindi la possibilità di vivere quasi civilmente in mezzo alla popolazione del luogo.

Immagino il giorno dopo di trovarmi con un nutrito gruppo di altri Lagunari per una specie di “cambio guardia” ed invece mi presento alla carraia dove mi aspetta un Sergente e non vedo altri compagni d’avventura.

Il Sergente mi chiede se sono io quello comandato per Marano, gli dico di si, carichiamo le nostre masserizie in “Campagnola”, (ovviamente si partiva sempre alla ventura in “assetto da combattimento” con tanto di FAL ed elmo al seguito) ma mi avvertono di portare via anche la divisa da “libera” perché serve quando non si è di servizio.

La cosa fa sperare bene quindi aggiungo uno zaino contenente la divisa da “Libera” e ce ne partiamo in “Campagnola” alla volta di Marano Lagunare.

Tra parentesi, in detto tragitto, mi rendo conto che se le Fiat Campagnole erano tutte così, mamma mia che malriuscito automezzo aveva sfornato la fabbrica torinese: facemmo tutto il viaggio in una continua ondulazione da destra sinistra che l’autista non riusciva a dominare: come correggeva a destra doveva già impostare la contro correzione con il volante, sulla sinistra. Un andare allucinante.

Dopo poco arriviamo: annuso subito l’odore dell’aria.

Poco prima d’entrare nell’abitato di Marano, percepisco immediatamente il sentore della laguna, i profumi del mare poco distante, i tanfi solforosi delle secche e delle “velme”, individuo  subito che l’aria sa di “freschin”e di gasolio, cose che mi dicono esserci collegamento con la pesca; vedo i piccoli edifici quasi tutti nuovi all’entrata del paese, segno di un fresco benessere, ma subito dopo seguono le classiche costruzioni basse e dai sgargianti colori pastello così comuni nell’istmo lagunare in Pellestrina, San Pietro in Volta, Sottomarina e poi a Burano e a Treporti, ma anche nel centro storico di Caorle e nei paesetti turistici della costa istriana: sono le costruzioni semplici delle basse ed umili casette dei pescatori della mia terra.

Mi sento subito a mio agio e la mente corre con nostalgia alla mia Chioggia, amata e persa dove non ritornerò stabilmente mai più.

Scarichiamo gli zaini ed armamento presso un bel edificio verdino a tre piani mi sembra, dove si evidenzia bene la scritta “Guardia di Finanza”; al terzo piano ci assegnano un cameretta a due letti per il Sergente ed io, metto il Fal ed elmo (mod. M33), sotto il letto, mi sistemo un poco il posto branda che branda non è ma letto vero con vero materasso e vere lenzuola. Rimango allibito di tanto lusso inaspettato.

La prima cosa da fare, e guarda caso (sempre con le mani nella m…a, sotto la naja), e recuperare gli avanzi del pranzo precedente, poi passiamo in macelleria a recuperare due begli ossoni di manzo e c’incamminiamo con tale malloppo, a piedi verso la sconosciuta (per me) Base Natanti.

Il sergente è un veterano di Marano e sa tutto e conosce tutti e tutti lo salutano con cordiali battute e rispetto.

Intanto strada facendo esamino bene ‘sto paesetto; in effetti scopro (ma ne avevo già l’intuizione) che trattasi di paesetto di pescatori: reti ad asciugare, qualche familiare bragozzetto ormeggiato, diversi piccoli e medi moderni pescherecci, il mercato del pesce all’ingrosso, osterie dove “battono la carta” un nugolo di vocianti pescatori “scaldati” dalla competizione del gioco e di più dai litrozzi di rosso che vanno e vengono.

Belle ragazze che occhieggiano, un ponte di ferro, la chiesa, le viuzze strette classiche lastricate di una palladiana di basalto da poco posta, un cinemino, e torreggiante una fabbrica di tonno in scatola che si trova addicente alla nostra via da percorrere.

Quasi perdiamo di vista le case dietro di noi, quando appare un muro di cinta bianco che nasconde al viandante tutto quello che vi è all’interno.

Il Sergente apre  il cancello con la sua chiave, e subito vediamo arrivare a razzo un imponente pastore tedesco che ci salta addosso in una maniera commovente.

Non ci sbrana, non ci morsica, cerca di leccare i visi e le mani: che conosca il Mao ed il basco nero dei Lagunari? E’ probabile, penso.

Gli somministriamo il “banchetto” riservatogli, gli diamo una bella riserva d’acqua e il bestione gentile si dedica immediatamente alle cibarie.

Chissà che fine avrà fatto quando chiusero la Base.

La base e deserta, non c’è niente al di fuori dei qualche branda nuda alla bene e meglio in equilibrio su altre povere masserizie d’ordinanza, una cucina qualche armadietto aperto, due sedie e qualche tavolo: tutto è stato sommerso dall’acqua del 4 Novembre, tutto infangato, tutto inagibile.

In effetti, di LVTMK4 non v’è l’ombra e altresì ad avvalorare la tesi che uno di questi se ne sia andato via  zonzo per la laguna, si vede il cancello che immette nella canaletta antistante la base, sbilenco chiuso con un filo di ferro e un pezzo del muro divelto da qualche cosa di estremamente pesante.

Ma questa è sempre una teoria dell’ultima ruota del carro che mette assieme i vari “si dice” e poi ne fa un riassunto.

Il Lupone teutonico, dopo il lauto pranzo, è disteso a panza all’aria al timido sole novembrino, ci segue con lo sguardo di un occhio aperto e l’altro chiuso, cosa poi andremo a fare in giro per il suo regno, sembrava chiedersi; dopo che il Sergente ha controllato chissà che cosa dato che non c’era niente da controllare, ci dirigiamo al cancello dove già troviamo il cagnone ad attenderci, ci fa pena lasciarlo la da solo con quell’occhio giallo triste e umido e l’uggiolio dispiaciuto della nostra partenza, ma tant’é e lì doveva rimanere: “domani ti portiamo un osso che vedrai che roba…”.

Il poter fruire di vitto ed alloggio nella Caserma della Finanza, aveva il suo pedaggio da pagare.

Il Sergente mi presenta ai padroni di casa, i Finanzieri sono cordiali ed impegnati negli affari loro: mi dicono subito che loro fanno da mangiare ma io lavo i piatti per tutta la comunità, devo pulire qualche cesso (due per la verità), e devo dare una lavatina ai pavimenti quando me lo dicono loro. Per il resto si vive come loro.

Il patto mi sembra più che equo, (altre scelte non ne ho, comunque), loro, saranno una dozzina si fanno di quei manicaretti che in caserma li sogni solo di notte: mangio come un allupato quasi il doppio di tutto.

Un Finanziere che porta la divisa classica blu della marina, mi prende in buon occhio e mi scarica sigarette di contrabbando, alcune bottiglie di liquori greci e slavi (“ouzo” all’anice e “slivovitza” alla prugna), mi regala un sua giacca vento usata ma ben messa (le giacche a vento della Finanza erano tali ed uguali allora, alle nostre), vuole che giochiamo a carte assieme probabilmente perché vince – io sono negato per le carte -  quasi sempre lui.

Ogni tanto mi faceva scuola sulle donne e ogni volta tirava irrimediabilmente fuori l’ABC dove nel paginone centrale era ritratta una Cover- Girl con un posteriore mirabolante e sontuoso, sicché mi si metteva a disquisire di questa parte anatomica femminile, per ore. Simpatico personaggio.

In dieci minuti mi sbrigo della “scafa”, una scopatine qua e la, e poi via a far niente su e giù per Marano.

In quindici giorni che rimango li, pulisco i due cessi due volte, e lavo due volte per terra nell'ufficio del Maresciallo Comandante della Stazione di Guardia di Finanza.

Il resto lo passiamo, il sergente ed io (e anche qui non mi ricordo assolutamente come si chiamava ‘sto tizio), tra passeggiate alla base a portar da mangiare al “Tedesco”, interminabili partite a scala quaranta  in osteria, ore di televisione, approcci con le ragazze del luogo (per altro graziose e molto simpatiche ma direi anche molto “attente”), che promettevano bene ma non si sbilanciavano mai…,

il cinemino alla sera più che altro per collegarsi con i gruppi di giovani e giovinotte…e alla via così.

Una mattina il Sergente se ne stava poco bene, a letto per cui andai da solo in Base a portare l’alimento alla “belva”, ma non prima di essermi fatto un giro dove arrivavano – a quell’ora erano quasi tutte in porto, ma qualche ritardatario c’era - le barche dalla pesca.: era la “mia” atmosfera, la riva intasata di curiosi, le casse ancora fatte di legno che contenevano saltellanti “sardoni”, qualche “barbon”, colori solidi, i blu delle fiancate dei pescherecci, il nero dei bragozzi, il rosso delle triglie, l’azzurrognolo delle sarde, le macchie grigio dei sacchi di vongole, i maglioni  variopinti dei pescatori, il cielo di un azzurro abbacinante, il verde – azzurro dell’acqua del canale.

Una festa di colori ed un immenso e struggente ricordo delle mie radici.

Il cagnone, quando arrivo fa le feste, mangia con avidità e poi per tutta la mattina, ci gioco assieme: il bestiolone è come elettrizzato: gli lancio un pallone recuperato dalla riva del canale e lui me lo riporta mi si strofina addosso con il testone appuntito, guardo fuori della base e vedo solo strada deserta, voglio fargli fare un poco di libera uscita e lo chiamo fuori.

Non sta più in se dalla contentezza: corre saltellando come un matto, abbaia, ai gabbiani, si diverte e ne sono contento, “poro can”.

Passa un camion ed il mio amico a quattro zampe comincia ad abbaiare e a corrergli dietro: mi scappa dietro il camion e non lo vedo più. “boi d’n mond leder…”.

Comincio a sacramentare e correre come un centometrista, c’è un bar con una bici fuori, inforco la bici (penso che mi denunceranno per furto di bici ma meglio forse così che perdere il Cane Lagunare), scatto e arrivo in uno spiazzo dove il camion è fermo, l’autista dentro che non osa aprire la portiera, ed il buon cagnone che gli ringhia e mostra degli spaventosi ed acuminati dentacci poco amichevoli.

Lo abbranco per il collare e me lo tiro dietro, l’autista scende con i capelli dritti e mi manda a ca..re, ma poi gli spiego ed allora bonariamente mi da un pezzo di corda con il quale faccio un guinzaglio improvvisato e mi porto al piccolo trotto la belva pedalando di buona lena sin dove o “preso in prestito” la bici.

Non vedo nessuno, ne forze dell’ordine ne civili: metto giù la bici senza che nessuno si accorga di niente e poco dopo arrivo alla base con l’animale che ha la lingua penzolante ma tutto euforico e direi “sgranchito”. Lo rimprovero “aspramente”, lui mi guarda con quelli occhioni malinconici e “furbettini”, ha la lingua tutta fuori e la coda che spazza ritmicamente il marciapiede: mi vien da ridere, e gli faccio due o tre carezze ruvide tra le orecchie puntute.

Quando ritornai al battaglione, mi ci ero affezionato e fui un po’ (molto), dispiaciuto di questa separazione. Alcune settimane dopo il congedo, in Bianchina Innocenti Station Wagon (allora si diceva in configurazione giardinetta) con la morosa, ritornai da quelle parti in un giretto domenicale, chiamai e richiamai (il nome del pastore tedesco non me lo ricordo più ora), in attesa, con le mani aggrappate al cancello. Attesi: non arrivò nessuno.

Rientrato al battaglione dopo questa “parentesi di vacanza” a Marano Lagunare, me ne vengo a casa in “trentasei” prima di partire per un altro turno di “guardia ai forti”.

Vado da Villa al “paesello” in autostop.

Trovo per la terza volta consecutiva allo stesso orario, un trasportatore di giornali, “il Piccolo di Trieste” ricordo, che porta alcune balle di quotidiani in territorio veneto; ha un Opel furgonata ed oramai ci diamo del “tu”.

Mi racconta i prodigi dell’alimentazione a GPL; mi fa sentire i cambi d’alimentazione al volo, mi relaziona sul risparmio di tale alimentazione, fila via come un treno, uno che con l’acceleratore ed il freno ci sa fare, in poche decine di minuti mi sgancia a Latisana, “ci vediamo alla prossima…”, poi altra gente motorizzata che vede la divisa e quindi rassicurati si fermano, in un’oretta e mezza sono ancora nel mondo civile.

La sera della domenica per il rientro a Villa, mi faccio portare alla stazione ferroviaria di San Donà di Piave e prendo un convoglio che va a Trieste attorno alle 21,00 .

Le carrozze sono sempre piene, gli scompartimenti sono zeppi di turco - serbo - bosniaco – montenegrini: pochi giuliani e molti i balcanici.

C’è un fumo nebbioso di tabacco economico, una puzza di umanità sudata e sporca, sentori di aglio e spezie orientali, zenzero, cumino e coriandolo o chissà che altro e che non mi sono mai state congeniali: mi estraggo il seggiolino di fortuna nello scomparto d’accesso dove gli effluvi di tale umanità d’ “etranger” sono meno avvertibili e m’appisolo calandomi il basco sugli occhi (sugli occhiali, in verità); non serve che mi concentro perché in quel periodo di naja avevo sviluppato una mia metodica per addormentarmi in automatico: bastava che pensassi ad una notte di guardia e tutto diveniva facile: in un paio di minuti ero già che andato.

Mi sveglio di soprassalto perché sento che sto per perdere l’equilibrio e cadere dal seggiolino, recupero la stabilità ed  alzo il basco e vedo di fronte a me due raffinati cappotti militari: raffinato è indice di presenza d’Ufficiali; alzo lo sguardo e vedo subito “stellette dorate”;

la prassi avrebbe voluto allora, che scattassi sull’attenti e salutassi, ma…….ma in quel momento, io che sono sempre stato ligio al regolamento,…. chissà perché, non ne avevo voglia.

Per cui, presagendo “rogne”, incomincio una pantomima da vero teatrante, con stiracchiamenti e sbadigli, dopo di che faccio finta di notare ed accorgermi degli Ufficiali che mi guardano in silenzio.

Sono due Sottotenenti non so di quale Specialità o reparto, non calzano il basco “canoa” ma hanno il berretto con la visiera; mi guardano e proprio per non apparire un maleducato con la patente, azzardo li, un flebile ed affaticato “buonasera”, sempre senza alzarmi.

Questi compuntamene mi rispondono con un formale “buonasera”, (adesso arriva la cazziata, immagino), noto che guardano insistentemente le mostrine con il Mao che ho sui polsini del paltò e tra loro sottovece borbottano, poi uno mi fa “Scusi…..ma lei di che corpo è? Non abbiamo mai visto  mostrine simili a quelle che lei porta, sempre se sono mostrine che poi vediamo, lei neanche le ha…ma al bavero solo stellette…di che Specialità e lei?”

Capisco che due Sottetenentini sono più impacciati di me e non hanno proprio per niente la “ghigna” dei nostri ufficiali. Tra parentesi mi danno del “lei” cosa inaspettata e strana….

Dico: “…ma le mostrine sono queste” ed indico i due Mao sulle maniche “noi Lagunari portiamo le mostrine qui” faccio io con muso da schiaffi “ sa… i Lagunari hanno usi e ed insegne molto particolari e differenti dalle comuni “can…”  m’interrompo al volo e convergo su di un più opportuno “ delle altre Specialità”.

“Ha….i famosi Lagunari…” fa uno e l’altro gli fa eco “Perdinci! Sa che da noi (fa il nome, chissà quale, di un reparto con sede attorno a Gorizia), si parla con molto rispetto dei Lagunari”.

Ci mancava anche questa e non mi serviva altro: mi lancio su di un tale infiorato e strabiliante “escursus” sui Lagunari che i due Sottotenenti iniziano ad aprire la bocca sempre di più e più vedo che sono impressionati di quello che gli racconto, e più ci do dentro sparandone di tutti colori;: “e noi facciamo questo….e noi facciamo quello…..addestramento disumano...disciplina ferrea…battaglione di punizione, il mio, l’ “Isonzo”…la laguna, i mezzi anfibi…gli sbarchi….la Pepe al Lido…i Fanti da mar…”

E via così quasi fino Cervignano.

I due ogni tanto si guardano, come dire “hai capito questi che personaggi sono”.

Ci gongolo a più non posso ed intuisco che mi considerano sempre con più rispetto, con più curiosità.

Arriviamo a Cervignano che oramai sono frementi perché purtroppo certe cose manco se le sognano dove svolgono l’abituale servizio e noi Lagunari……si sa …..le viviamo tutti i giorni.

Ci salutiamo cameratescamente, come io fossi un loro parigrado, mi fanno gli auguri, ci diamo la mano e poi io li saluto militarmente (e ci mancherebbe altro!), gli dico che se passano per Villa Triste vengano a vedere chi sono i Lagunari del Rgt. “Serenissima” e soprattutto del Btg. Anf. “Isonzo”.

Da allora mi sono fatto una convinzione sui Lagunari (in servizio), che mai abbandonerò.

E non la dico, perché chi vuol intendere, intenda!

Porcaccia la miseriaccia, manco a dirlo, sono inserito nel gruppo che si fa le Festività di guardia ai forti: il primo che asserisce che la mia naja non è stata una naja da “guerriero”, gli sputo addosso, brutta ed infima progenie di raccomandati, serpi striscianti e creature del diavolo e della piaggeria più subdola, imboscati e leccaculi, dannata razza  di turpi creature dette “lingue d’amianto”, vi odio!

Tutto quello che vi risparmiavate voi rimaneva da fare a noi: maledetta razza di parassiti e profittatori, vi odio!

Solito imbarco sul CM con l’aggiunta nel nostro bagaglio personale, con tutto quello che poteva servire per indossarlo durante le lunghe e fredde notti di guardia; non si va più a Gambarare ma a Tessera proprio dietro l’aeroporto: verso Mestre appena passato il ristorante “da Mario” (oggi si chiama Flyhotel), si volta per Favaro Veneto ma fatto neanche un chilometro ci si inoltra  a destra per una stradina che conduce ad un altro di quei forti che immagino facciano parte della famosa otto/novecentesca “cinta fortificata di Mestre”: minuscolo corpo di guardia, cucina/mensa, cesso, un paio di camerette dove trova collocazione tutta la combriccola escluso il Sergente Capo Guardia che ne ha una tutta per lui.

Senza accorgermi imbrocco di posare l’affardellamento  sulla branda vicino alla stufa da riscaldamento; mi piazzo e visto che non sono subito di turno andiamo a farci un giretto per capire il luogo: al centro la solita affascinante e lugubre costruzione fortificata attorniata da baracche tutte uguali che hanno la caratteristica di avere il tetto ingabbiato in una struttura metallica ed è ovvio che tutti capiamo che quello è una specie di parafulmine per cui è altrettanto ovvio che all’interno delle baracche potrebbe “sottolineo, potrebbe al condizionale e non può” esserci dell’esplosivo o del munizionamento; tutto attorno vi è un camminamento perimetrale che congiunge le varie “altane” di guardia (torrette cilindriche con riflettore, semichiuse poggianti su pali di cemento alti un quattro/cinque metri).

Quello sarà il nostro regno per i prossimi quindici giorni.

Il ghiaccio, in pieno pomeriggio non si è ancora sciolto nei punti in ombra posti a nord, la bruma comincia ad alzarsi da fossi nei campi neri di zolle dure e compatte. L’umidità è notevole e già ci fa presagire turni “sfiziosi”.

Mi vesto per il mio primo turno: “oso” tre paia di calzettoni che ritengo per altro eccessivi, un paio di maglioni più mimetica più giacca a vento, mi sembra che sia sufficiente.

Faccio un mezzanotte/due del mattino: salgo sull’ “altana” e il silenzioso drappello al quale ero accodato scompare nel buio per andar al prossimo posto di guardia; scruto l’oscurità, l’occhio si abitua al buio, s’intravede dall’alto qualche fioca luce tremolante sopra le folate di nebbia, strizzo gli occhi ma non riesco a capire cosa ho davanti a me. Forse un campo, forse un boschetto o magari anche qualche casa che non vedo; armeggio con il riflettore: e ti pareva che funzionasse!

Ah…. Esercito Italiano pieno di Generali e senza una minchia di lampadina……

La prima mezzora passa via discretamente, poi i piedi cominciano ad avvertire i “diavoletti”, cambia il tiro dell’aria ed una brezza gelida s’insinua dalla parte dove non c’è protezione nel cilindro di cemento armato: mi rannicchio nel concavo della protezione ma pure lì il vetro è mancante!

Ah …Esercito Italiano pieno Auto Blu e senza un cacchio di vetro per le altane!

Dopo un’ora sono alla disperazione: alzo baveri, mi metto il fazzoletto lagunare come una vecchina, annodato sotto il mento per non gelarmi le orecchie, mi calco il basco all’inverosimile sopra le sopraciglia, mi lego stretto il cappuccio della giacca a vento, guanti di lana e mani affondate nelle tasche, Garand appoggiato al parapetto, comincio a saltellare per dare calore ai piedi.

Ripenso al fatto che ho calzato tre paia di calzettoni e già sono in quelle condizioni, fumo ed ogni tanto mi scaldo le dita attorno alla brace della sigaretta: è passata un’ora e mezza; sento un sibilo inquietante dietro di me e quindi immediatamente un fischio ed un rimbombo.

Al momento non me ne rendo conto e mi guardo attorno scrutando allarmato sopra le cime degli alberi, ma poi capisco perché vedo delle luci che salgono nel cielo, che quelli non sono Ufo, ma gli aerei che se ne vanno da Tessera verso gli orizzonti di qualche spiaggia tropicale.

I decolli e gli atterraggi delle filanti siluette aeree, saranno quelli che mi terranno compagnia per tutto il tempo che rimarrò appollaiato su ‘sti artifizi a far la guardia a chissà che cosa.

Finalmente sento che arriva il cambio: non ce la faccio più, non sento più i piedi, sono congelato, non riesco manco a fare la discesa dalla scaletta dell’altana, ho una notevole difficoltà a muovere le ginocchia.

Facciamo il giro per recupere gli altri “ghiaccioli” che bestemmiano e maledicono le Forze Armate,

“..i so morti... me digo che pisso spaghetti…”, “…i so scabei, ho el giasso sue sege…” e via così fin che arriviamo al corpo di guardia.

La mia branda mi attende vicino alla stufa, mi levo gli anfibi e calzettoni e incollo i piedi sulla stufa: non sento neanche il caldo, poi dopo una decina di minuti sento i piedi che ritornano presenti ed il calduccio mi avvolge e rimago stecchito così a dormire per le prossime quattro ore.

Dopo il secondo turno, al rientro chiediamo se non sia possibile usare dei vecchi mantelli che sono appesi in un armadio.

Il Maresciallo Comandante della Polveriera dice che sono li per quello, li requisiamo e vediamo come si potrà vestirsi per il prossimo turno: ne esce questa incredibile ma reale combinazione: quattro paia di calzettoni che ovviamente c’impediscono di far entrare i piedi negli anfibi; dopo varie insistenze i piedi entrano ma i lacci debbono essere tenuti larghi; mutande lunghe in lana spessa portate da casa, pantaloni in panno della divisa da fatica, pantaloni della mimetica, canottiera personale, canottiera della naja, maglia privata “folpata” come diceva Rumor di Venezia, camicia della naja, maglione – pullover della naja, giubbetto della divisa da fatica, giubba della mimetica, giacca a vento, pastrano – mantello in panno grigio verde (retaggio suppongo della prima guerra mondiale), con cappuccio conico e allacciatura al collo con lacci, mutande tattiche che nessuno usava mai, infilate a mo’ di passamontagna per proteggere sommariamente orecchie e bocca/naso.

In quelle condizioni facevamo perfino fatica a camminare sino all’altana e salire la scala in ferro e poi discendere diventava un’impresa, però i segni di congelamento si facevano sentire non dopo una mezz’oretta, ma bensì dopo un’oretta: rimaneva comunque per la seguente ora, uno stato di semi assideramento che ti forava le budella.

Come passavi il tempo?

I generalmente cantavo e suonavo al chitarra con la bocca; dopo la chitarra mi veniva bene la cornetta, poi ogni tanto parlavo con qualche immaginaria presenza, seguivo gli aerei che loro si, liberi e svettanti, se ne andavano dove volevano.

Da leggere non se ne parlava neanche perché nessuno spendeva soldi in libri, giornali o letture varie.

Una occhiata al contorno, qualche rumore strano, ti faceva tirare le orecchie od aguzzare la vista, avevi sempre il timore di scorgere qualche malintenzionato che volesse entrare nella polveriera (che poi suppongo, fosse stata vuota), cominciavi allora, ad armeggiare con il Garand.

Una bella mattina di sole mi decido, gli schiaffo dentro il caricatore e comincio a scarellare divertendomi a veder uscire le cartucce: l’ultima invece di fare il tragitto contro il parapetto di cemento dell’altana, ci passa sopra e mi va a finire fuori del recinto del forte dentro il fosso in mezzo a dei folti cespugli d’erbacce. Tiè!

Arriva il Sergente, glielo dico, mi appioppa un paio di “mona”, due o tre “cojon”, poi si calma ed organizza una spedizione per recuperare il proiettile smarrito: il Sergente, altri quattro più io, cominciamo a setacciare all’esterno della polveriera il posto ma, niente da fare.

Mi viene in mente che nei film polizieschi, per setacciare con metodo i posti erbosi, vengono tirati degli spaghi per fare una specie di reticolo ed ogni uno si esamina il suo, granello per granello e poi avanza in un altro: dico la mia, il Sergente dice che è una buona idea; sradichiamo delle canne e impostiamo ‘sto reticolo: dopo una mezz’oretta  il rinvenimento proprio dentro la melma del fosso nel quale la cartuccia era affondata e solo vedendo che il ghiaccio era forato ad uno di noi venne l’intuizione che la maledetta fosse li sotto. E così fu!

Il Sergente mi fa promettere che quando vado fuori dal forte per il mio turno di otto ore, porto dentro da bere per tutti e tirando il fiato ce ne torniamo soddisfatti al corpo di guardia.

Si passavano anche ore serene ed allegre. Il cameratismo era al massimo e a parte i quattro ebeti (in forma amichevole), generalmente cittadini della Serenissima che dovevano per forza parlare anche per il didietro o rompere le scatole a chi stava riposando dopo il turno, la vita in comune in ‘sto sgabuzzo terrificante, correva via anche con i suoi lati positivi.

Un giorno scopriamo che abbiamo una riserva di pasta da far spavento. Un’acuta osservazione dell’addetto “cogo” ci fa optare per addivenire ad uno scambio con il contadino confinante: noi gli diamo la pasta in eccesso e lui ci ammolla due bei pollastroni giganteschi e di cortile.

Dopo la triste ma ineluttabile “tirata di collo” e capovolgimento a sgocciolare il sangue, spennatura e varie, si dividono le due povere bestie in ottavi usando la baionetta del Fal con paurosi fendenti sin che si riesce ad intrudere il tutto in una “pignattona” già riempita d’acqua e sale, di cipolle, sedani, e carote.

E vai che va, il sontuoso e ruspante “lesso” continua a borbottare per tutta la mattina .

E ‘sto bollito lo mangiamo così, semplice semplice?

Il “cogo” ha un’idea fulminante: facciamo un’insalata di pollo!

Uno parte e quatto quatto va in paese nel negozio alimentari: un congruo numero di filoni di pane integrale, un bel vasotto di maionese, capperi, olive e sottaceti, un bella bottigliozza  di “Brandy” e quant’altro atto alla “magnata”.

Dunque, sono le sette di sera circa: iniziamo con una “scafa” a testa di conchiglioni innondati di un ragù di lepre pur se precotto, di grande impatto gastronomico, ingurgitato con simil-medioevali boccali di rosso Piave marca Pavan “Tappo Corona”; finito il primo, il “cogo” ci schiaffa sopra una tavola disadorna e senza tovaglia, una gigantesca terrina con ‘sto ben di Dio di insalata di pollastro ruspante: una montagna straboccante di roba.

Quando finimmo non avevamo neanche il fiato per parlare; fuori era buio pesto, un vento freddo in qui sfrecciavano piccole “falive” di una neve che non voleva iniziare a venir giù, noi tutti attorno alla tavola a grattarci la pancia satolli e rinfrancati, la stufa che andava a mille all’ora ci sembrava d’essere in un mondo irreale; uno attacca a cantare “Se non ci conoscete guardateci sul basco….”, l’altro innalza i calici…. E coroniamo il tutto con la deflorazione della bottiglia di Brandy; siamo nel bel mezzo del secondo brindisi, quando la porta si spalanca ed entra uno del turno di guardia: cavoli!

Abbiamo sforato di venti minuti: questo s’incazza, con gli occhi fuori delle orbite sibila “Ho! Buei marsi, ghe vol ancora tanto che vegnì a darne el cambio?”

Rapidi e scusandoci costernati al piccolo trotto andiamo a dare il cambio e prenderci le nostre, ma assicuriamo che è rimasta ancora una buona metà dell’insalatona di pollo per cui la cosa si mitiga e addirittura ci si tira qualche pacca sulle spalle.

Mi faccio le mie due ore intontito da tale gigantesca  “ingozzata”, che alla fine mi siedo sul pavimento dell’altana e mi schiaccio un pisolino non propriamente militare: mi sveglio una mezz’ora prima del cambio, comincio a cantare com’era mio solito fare; intono “Stella d’argento che brilli lassù, mi guardi e ridi….”, mi ci applico a gola aperta…eda sotto l’altana scoppia un applauso d’ilare apprezzamento da coloro che zitti zitti, erano silenziosamente venuti a darmi il cambio.

Rosso dalla vergogna per non averli sentiti arrivare, tra frizzi e lazzi “ ciò..el Santercole de Jesolo..casso!”, me ne vado abbacchiato in branda a sonnecchiare sino il prossimo giro di tango.

La sera di Natale 1966, verso le sette, sto pisolando quando mi dicono che alla sbarra c’è gente civile che mi vuole: mezzo arrabattato tra maglie e mimetica mi precipito alla sbarra e scorgo un mio cugino, un suo amico e una ragazza che avevo conosciuto qualche tempo prima; mi scaricano dalla loro vettura un tre bei panettoni marca Alemagna al tempo, uno scatolotto con un paio di confezioni di datteri tunisini due vasetti di mostarda piccante ed una torta di mele che la mia cara zia aveva all’uopo preparato, il tutto accompagnato da tre belle “bosse” di Asti Moscato Gancia.

“Ma come avete fatto a sapere che ero qui?”, e loro: “il papà (mio zio), è amico del Maresciallo Comandante della Stazione dei Carabinieri e mediante lui che ha telefonato all’ “Isonzo”, abbiamo saputo che eri a Tessera. Il Maresciallo ha fatto tutto lui e ci ha detto che potevamo venire qui a trovarti e già che c’eravamo abbiamo pensato di portare un po’ di roba anche per gli altri”.

Dieci minuti d’intimità con ‘sta ragazza che era venuta a trovarmi; gli altri sghignazzavano dal corpo di guardia, baci ed abbracci, il Maresciallo Comandante della Polveriera mette fuori la testa da casa sua e urla che quello non era un albergo, ci salutiamo e ci auguriamo Buon Natale.

Nella nostra stamberga di corpo di guardia, lampadina penzolante dal soffitto innestata in un paraluce stile anni ’30, sventriamo gli involucri dei panettoni, apriamo i datteri, spalmiamo la mostarda piccante e ci stappiamo il Moscato: spariscono i musi duri di chi stava a rimuginare che a Natale erano lì a far la guardia a chissà che cosa, si accende la radio, le musichette natalizie invadono l’angusto luogo, e giù tra fette di panettone e gamelle di Moscato, viva il Natale, viva “Gesù bambin che nasse..”, viva mi, viva ti, “…a noi la morte non ci fa paura…”, “anca ‘sto Nadal el se ‘ndà”.

A sorpresa, il giorno dopo Santo Stefano, arriva il cambio: cavoli, al limite del congelamento e della pazzia da “guardie”, ci facciamo l’ultimo dell’anno 1966 a casa!

Vi do appuntamento per il duro inverno di Villa.

San Marco!

Lagunare Dino Doveri

 

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Subject: 15ª puntata "Racconti di naja".
Data: Dom, 17 Lug 2005

E’ pur vero che mi sono imposto di finire questa storia, per cui bando all’accidia ed eccovi la quindicesima puntata dei miei “racconti di naja”.

Dimenticata con la licenza per l’ultimo dell’anno 1966, l’abboffata di freddo e gelo della quindicina di Natale di guardia ai “forti” (capirò poi che la mente ne era oramai sgombra ma il fisico stava perpetrando qualche cosa di losco), si ritorna in Caserma.

Solita “tradotta ” balcanica” tra San Donà e Crevignano del Friuli, freddo pungente sul solito comparto d’accesso al vagone, solite facce con barbe di due o tre giorni, di slavi, macedoni e turchi in trasferta.

Solita puzza d’umanità.

Questa volta per problemi di trasporto, parto da casa un tre quattro ore in anticipo e quindi arrivo alla A.Bafile con un discreto anticipo.

Domenica pomeriggio in Compagnia (ed in caserma), non c’è anima viva.

Mi corico sopra il “cubo” come sto, vestito, mi tiro addosso un paio di coperte e tento di dormire sino al momento della “sbobba”: non ce la faccio.

La camerata della Compagnia Mortai da 120 “Tobruk” è un congelatore.

Mi rannicchio e aggiungo un’altra coperta, ma niente da fare, brividi e piedi insensibili mi attanagliano il corpo e la mente.

Mi muovo un po’, vado a vedere se si mangia (più che altro per ingerire qualche cosa di caldo), ma come è noto in caserma, la Domenica sera il Ristorante “Mensa dei Lagunari Poveri di Villa Triste” è tacitamente chiuso oppure non funzionante per abitudine consolidata.

Ad una certa ora canonica, arriva gente alla spicciolata che rientra dalla “ventiquattro”, le solite quattro vaccate profuse a piene bocche: non vedo l’ora di infilarmi sotto le coperte.

Mancano due che non sono rientrati: il prammatico casino tra sergente d’ispezione e noi con due marroni così che non c’importa proprio niente di dove sono andati a finire questi due assenti, e finalmente “sottocoperta”.

Le coperte della mia branda oramai sono gradatamente nel tempo, giunte al numero di nove (sic!).

Sono coperte fatte di chissà che cosa, forse un misero tessuto simil - lanoso, sta di fatto che fanno di tutto:  puzzano, pungono, camminano da sole, ma il freddo non lo contrastano.

Dopo le solite contorsioni per non scomporre il rimbocco attorno ai bordi del materasso (modo come un’altro per definire il pagliericcio che fungeva da), con fatica mi c’infilo con cautela dentro.

I soliti venti minuti di “riscaldamento” e poi scivolo via nel sonno.

Durante la notte accuso sentori di influenza, manco vado a pisciare perché tale operazione significa il congelamento al cesso, batto i denti, stringo la prostata ed infine sembra che le cose prendano il verso giusto e mi addormento.

Il giorno dopo, e ti pareva, approdo ad un’ulteriore guardia.

Bestemmie (moderate e veniali), ed imprecazioni.

Brutti imboscati che Dio vi cancelli dalla faccia della Terra per tutte le guardie che ho fatto in più a causa del vostro “lecchinismo”!

Durante il giorno c’è un freddo foriero di una notte da pena.

Mi carico d’indumenti il più non posso, ma come si sa, per la guardia in Caserma, mica puoi stratificarti come un palombaro; all’ispezioni guardia montante ti controllano i peli sul didietro (inteso come natiche), e quindi la divisa deve essere sistemata alla perfezione: altro che quattro paia di brache!

Alle quattro smonto dalla “carraia” denunciando chiari sintomi di febbre.

Segnalo la cosa al Caporal Maggiore che funge da Capoguardia: chiedo d’esser esentato dalla guardia e venire ricoverato in infermeria.

Il suddetto mi manda a ca..re, se ne sbatte altamente, mi dice di non rompere, e mi ordina di andare a fan… in branda….del Corpo di Guardia. La solita copertina di simil – lana e cappottino allacciato, di guardia si dorme vestiti, il dormitorio del Corpo di Guardia è a temperature polare ed i vetri delle finestre rivelano concrezioni stellari di brina notturna e ghiaccio.

Quattro ore da incubo: batto i denti, vedo San Marco assunto in cielo, aureolato e benedicente, con il Leone Alato al Suo fianco, ho le “caldane”, mi alzo in cerca di bere qualche cosa di caldo (o di freddo), ardo e intirizzisco.

Faccio il turno 06/08 in un incubo, rientro e chiedo d’essere messo a rapporto con il Comandante di Compagnia.

Alle otto e mezza mi chiamano per andare a rapporto dal Tenente Graziani.: spiego al Tenente, non molto chiaramente perché sto battendo i denti alla grande, che sto svenendo e che suppongo d’avere una febbre da cavallo, non dimenticandomi però di sottolineare il comportamento obbrobrioso che il Caporal Maggiore Capoguardia, durante la notte, aveva tenuto nei miei confronti.

Il Tenente è diffidente, mi valuta e di primo acchito non crede che ho resistito tutta la notte nelle condizioni descritte: mi spedisce assime al Caporal Maggiore “testina”, in infermeria per misurami la febbre non prima d’avermi avvisato che se avessi finto, era C.P.R.

In Infermeria colui che funge da infermiere, mi riscontra uno strabiliante 40,2!

Ritorno in fureria ed il C.M., rosso in faccia e mogio mogio, riferisce la gradazione di febbre riscontratami.

E qui, cari colleghi che mi seguite, mi sono reso conto che tipo d’uomo e d’ufficiale fosse il Signor Graziani.

Il C.M. subì uno di quegli “spezzatini” che si sentì urlare sino alle Armerie per un quarto d’ora; zitto zitto con il piedino che disegnava cerchi per terra, prese atto che gli veniva comminata una punizione piuttosto severa e quindi spedito via in malo modo al Corpo di Guardia.

Il Tenente Graziani mi accompagna personalmente all’Infermeria di fronte alla Compagnia, mi fa portare delle bevande calde, telefona all’Ufficiale Medico di venire urgentemente a vistarmi e mi augura buona e repentina guarigione.

Il Medico mi ammolla, constatando il serio stato di patologia influenzale, una serie di pillole da ingurgitare tre volte al giorno, e per giunta mi infligge subito una puntura di chissà quale farmaco dirompente, perché mi ricordo ancora oggi, l’acuto dolore che mi pervase la gamba destra per un paio d’ore; mi dice che se do via di testa è normale (sic!) a quella temperatura, saluti e baci e buona permanenza.

Passai un paio di giorni pari pari, suppongo, ad uno “strafatto”: non riuscivo a camminare in linea retta, non pisciavo, non defecavo, sudavo come una bestia per poi piombare in brividi deliranti.

Al quinto giorno rinvengo: i miei amici Bari e De Prà mi portano da mangiare dalla mensa.

Chi trova un amico (vero, dico io), trova un tesoro.

Ed io il tesoro l’avevo trovato: alla sera venivano a trovarmi per farmi compagnia, mi prestavano la radiolina a transistor, mi davano una mano a deambulare sino al cesso ed altro.

Grazie Amici miei, vi sarò sempre debitore per tutta la vita.

La mia stima nel Tenente Graziani crebbe a dismisura e questo episodio fu il primo dei vari ove stabilii che di poche persone al mondo, io avrò grande stima ed ammirazione, come per quest’Uomo.

Dopo una settimana esco dall’infermeria e ritorno alla Compagnia: il freddo è intenso, quasi palpabile; non c’è un buco dove si può stare al caldo: fortunati gli imboscati che almeno se ne stanno in qualche buco al chiuso, che siano colti dalla dissenteria fulminante!

Mi chiama il Comandante di Compagnia, il Tenente Graziani: cosa avrò combinato adesso mi chiedo, ma non mi viene in mente nulla.

Vado in Fureria in allarme ed invece mi aspetta una buona notizia: il Signor Graziani mi fa: “ho chiesto personalmente al responsabile del Circolo (mi sembra che quel circolo fosse quello per i Sottufficiali ma potrebbe anche essere stato anche “unificato” perché vedevo anche Ufficiali), di farti stare un po’ li a dargli una mano; al circolo ci sono sempre delle stufe che funzionano e così te ne potrai stare un po’ al caldo”.

Io imboscato? Non sia mai!

Gli replico “Ma io non avrei mica tanta idea di andarmi ad imboscare come quei quattro “fiappi” che fregano pure noi; la cosa non mi sarebbe molto congeniale, vorrei rimanere in compagnia”

E questo di rimando “ tu te ne vai al Circolo per qualche tempo e poi vediamo; non vedi che hai le orecchie trasparenti e l’occhio da bassotto?”.

Un ordine è un ordine e me ne parto a malincuore per il Circolo.

Mi viene da arrossire: io, far parte degli imboscati?

Poi ci ripenso e mi dico che ho ricevuto un “ordine”, per cui moralmente sono un  I.I.C.B.S. cioè “Imboscato involontario comandato e a breve scadenza”.

Il Circolo è ubicato in una bassa costruzione in piazza d’armi sul lato destro tenendosi il Comando alle spalle.

Mi presento da Maresciallo responsabile, un Maggiore con i  capelli bianchi, occhialini d’oro (Coletti, può essere?),di cui adesso mi sfugge il nome preciso che è sepolto nella memoria, , camminata tentennante, piuttosto irascibile, chiuso e silente e mai visto ridere: mi mette al bar del circolo a fare il barista; a ore perse  scopo (con la scopa), e vado a dare una mano in cucina del circolo.

Quand’ero civile avevo fatto durante la stagione turistico – estiva, delle esperienze come barista più che altro per guadagnarmi una “paghetta”, e con i caffè e bibite avevo una certa confidenza.

Sto tutto il giorno li dentro, alla sera finisco e me ne vado il libera dopo gli altri, però rientro pure in ritardo senza che nessuno mi  “rompa”.

C’è sempre un bel calduccio e alla fine sento che mi sto rimettendo.

Quando ho finito con il bar, pulizie varie e quant’altro, vado in cucina a dare una mano: qui comanda una “tuba” (parigrado), di Sottomarina, certo Boscolo, niente affatto amichevole, scorbutico più che mai, e non si riesce a far amicizia; io ritengo che bisogna mantenere un atteggiamento “sotto le righe” e farsi gli affari propri senza “inserirsi”.

Imparo a fare il Ragù di carne, la Carbonara, la Pasta la Forno, le zuppe di verdura ed i bolliti e minestre varie; il Boscolo qualche volta si apre e si scioglie parzialmente ed allora se pure a gocce, mi trasfonde alcuni  segreti della culinaria.

A volte mi affida la cottura alla piastra delle braciole di maiale e delle bistecche; facciamo anche qualche bel pesce dove il Boscolo essendo di Sottomarina…. eccelle!

Comincio ad ingrassarmi: lo noto subito dai buchi della cintura: per mangiare, si mangia. Eccome se si mangia!

Il Francioso, il Sergente per antonomasia, che ha saputo subito che sono al Circolo, almeno un paio di volte la mattina ed una al pomeriggio, viene fare un’incursione alla dispensa con la scusa di fare  due parole: una mela, un panino con qualche cosa, un paio d’uova sode, un qualche cosa di commestibile saltava sempre fuori: “oh Francis…guarda che la roba è contata …dopo viene fuori un casino con il Maresciallo…oh, ma sei senza fondo?”

“Dai non rompere, tuba marcia, sgancia che ho una fame che non ci vedo…”

Mai visto una persona così magra ingurgitare tante cibarie senza nessuna conseguenza ponderale; avrà pesato un cinquantacinque/sessanta ma non dava cenni di oltrepassare tale limite: misteri del metabolismo umano!

Il passaggio dalla “sbobba” incredibile della mensa truppa, a tanto ben di Dio, mi esalta e ogni tanto ringrazio mentalmente il Tenete Graziani di tale cambiamento.

A metà mattina, il caffè dei marescialli: per tutto il tempo che rimasi dietro il bancone del bar, ogni mattina si ripeteva la stessa pantomima.

Arrivava il maresciallo Zara dall’officina; per prima cosa tentava di ammollarmi il solito sberlone preventivo sul “capocollo”  e non desisteva neanche una mattina da questa simpatica pratica se pure ero riuscito ad acquisire un certo sesto senso nell’ evitare ‘ste “botte” furibonde che ti  facevano vedere tra le altre, anche le costellazioni di Cassiopeia che pur essendo boreale, si sovrapponeva a Dorado che è notoriamente è australe. Il “potere” delle sberle del M.llo Zara!

Tutte le mattine la stessa solfa: “oh…cosa mi ci bevo oggi? Oggi….oggi. …si potrebbe …..ma no, va! Fammi un “ricco “ caffè, va!”

Tutte le mattine questa frase finché cominciai ad azzardare “Maresciallo…questa mattina decidiamo per un ricco caffé’”, conoscendo l’irrimediabile e congenita tirchieria dei Sottufficiali.

E subito mi ritraevo per evitare la poderosa e fulminea destra dello Zara.

Le giornate si susseguono sempre più fredde e grigie; viene fuori una novità: si faranno le ronde interne alla caserma e tutti a turno, senza esclusione, (a parte i laureati lecca – deretani), dovranno passarsi un paio d’ore durante la notte a girare per il luogo.

La sera che tocca a me (tre ronde notturne interne in tutto), il Sergente (anche qui la memoria non mi aiuta sul suo nome, capelli biondi quasi bianchi, penso sia semi-albino, ha gli occhi in due sottili fessure e sempre strette, ciglia quasi bianche, carnagione rosea da neonato, pochi capelli di un esagerato biondo nordico), mi sveglia alla due meno dieci e si girerà per la caserma sino alle quattro.

Il Sergente “albino” è un timidone che soffre.,suppongo, di questa sua particolarità fisica: si vede che la cosa gli pesa ma la “naja” lo sta facendo crescere e vedi che nel tempo prende coscienza del suo “potere” nei nostri confronti.

Nei confronti dei superiori in grado però si dimostra imbranato e timidissimo.

Però pure noi non è che fossimo “pastine” e per farci fare un qualche cosa, doveva mettercela tutta.

Quando viene a svegliarmi per la ronda, camerata al buio, vado a lavarmi la faccia per “rinvenire” e poi lo seguo fuori dalla camerata dalla parte della scala dei cessi: s’incammina con fare spedito lungo il corridoio centrale costituito dai pali in ferro.

Vedo che prende una traiettoria diagonale sulla destra verso le nere colonne di tubo di ferro, ma penso che all’ultimo centimetro devierà: invece no!

Si spiaccica su per la colonna, prende una pacca frontale tra naso, denti e fronte, di quelle con i controfiocchi, rompe una stanghetta degli occhiali e si mette ad ulurare dal dolore:

gli chiedo “ma c…o, non hai visto i pali…hai preso una botta che hai quasi divelto la colonna!?!?!”

Mi dice che ha problemi di vista; io immagino perché è albino, ma poi ci ripenso perché gli albini sono come i gatti: con il buio vedono meglio che con la luce; glielo sottolineo e questo imprecando, mi guarda male.

Ma seguita a tacere, poi impreca e mugugna frasi incomprensibili, si aggiusta alla bene e meglio gli occhiali e s’incammina verso la porta della camerata.

Il “fattaccio” non viene svelato e della sua vista non ne parliamo più.

Mi tengo a debita distanza…non si sa mai….

Il freddo come sempre, è aggressivo ed implacabile; si “ciacola”girellando qua e là, si controllano i cancelli delle armerie, si fa un giro negli uffici del Comando, mi siedo sulla poltrona del Comandante di Reggimento, insceno una “tragica” commediola proferendo con autorità “Sergente! Stia punito! La mando a Peschiera!”, “ ma vai a farti fottere!” risponde il Sergente; “ Sergente! Come si permette?!?! Io la distruggo!”, “ ma va’ in m..a de to mare, tuba stramaledeta…..”.

Oramai in guerra aperta con il freddo di Villa, gli confido che ho la chiave del Circolo: dopo trenta secondi siamo già distesi sui divani della sala del circolo a ronfare per un’oretta; passata l’oretta, un giro di “rappresentanza” affinché  l’Ufficiale di Picchetto ci veda, e poi un’altro round sino a fine corsa. Evviva il Circolo!

Partita di calcio della Nazionale: i Sottuff. decidono di vedersela alla TV che troneggia in sala: una cosa tira l’altra e s’improvvisa per gli spettatori, un spuntino di mezza sera.

Spignatta e spadella, metti a posto, lava e pulisci, va a finire che si tocca mezzanotte: arriva il Sergente Francioso (uomo eternamente affamato), Sottufficiale d’Ispezione e la butta la: “non è che magari tra una cosa e l’altra, sei potrebbero buttar su “du’ “ spaghi alla Carbonara?”

Ci guardiamo in faccia, l’ora è tarda, il nostro ventenne stomaco è sempre ricettivo, la pancetta “affumicata  - stufata” c’è, uova non ne parliamo…..zac….acqua sul fuoco e giù a preparare il tutto ed in onore del detto latino “melius abundare quam deficere -  meglio abbondare che scarseggiare”,  letteralmente raddoppiamo le dosi ed i pesi: ne esce una carbonara da dieci persone:

Stiamo scolando la pasta, quando entra con occhio indagatore l’Ufficiale di Picchetto (tra l’altro della nostra Mortai), chiede informazioni su questa estemporanea attività notturna e con fare furbetto si cala a capotavola: già in cinque!

Il Capoposto (anche questo della Mortai), viene a cercare l’Ufficiale di Picchetto per chissà cosa, gira che ti rigira ed anche quello si siede: e sei!

Attacchiamo con veementi forchettate i piatti stracolmi ed a mezzo della “battaglia dello spaghetto” supportata da capienti “boccali” di rosso del Friuli (comunque di molto inferiore dalla produzione dei pregiati vini di Nimis, ma un comune e banale Merlot della zona che pur non grattava per niente la glottide), stiamo portando a termine la “furibonda lotta” tra risate e sana goliardia cameratesca e…. si apre di colpo la porta della cucina e con occhio fulminante entra come un primo attore, il Capitano  d’Ispezione (questo non della Mortai, parca vacca!), che o era Frendo o Mineo (oh…gli anni passano e certi particolari sfumano…), e con lo sguardo vitreo ci congela e noi rimaniamo impietriti con la forchetta a mezz’aria.

Tutti rossi e tremebondi (più l’Uff. e il Sottuff., che noi… per la verità), “ma sa … c’era la partita….è avanzata della Carbonara….fuori fa freddo….tre a uno per l’Italia…..si era detto che dovevano venire anche altri Marescialli…”

Il Capitano ci squadra e dice “ ho vi mando tutti a Peschiera con alternativa Gaeta…e sarebbe un’ignominia per il Btg. …..oppure devo accodarmi a questa banda di degenerati”!

Non è rimasto uno, dico uno spaghetto per il Capitano d’Ispezione!

“No ghe ne più Sior Capitano” , proferisce con la classica cadenza sottomarinante, il timido per l’occasione,  Boscolo!

M’insinuo io per la prima volta, visto che la mia presenza era sempre sottotono: “però volendo…l’acqua è ancora calda, ci mette cinque minuti a bollire…il “desfrito” e la pancetta da scaltrire in due minuti si prepara….le uova (di gallina – n.d.r.), basta romperle come ultimo tocco…..in dieci minuti si fa replica….”

Tutti si guardano, Francioso l’uomo senza sazietà, con deferenza e contegno subalterno nei confronti del Capitano, dice “ beh… però sarebbe un’idea...”, il Capitano lo fredda con un'occhiata fulminante, poi guarda l’Ufficiale di Picchetto ed insinua “Lei si fa un’altro piatto?”; l’altro non osa neanche guardalo negli occhi ed annuisce silenziosamente: “ordine superiore” fa il Capitano”, e sorride finalmente  “ e vada per un’altra andata!”

Si tira tutti un sospiro di sollievo e avanti allo “sbarco”, anzi alla Carbonara!

Sicchè per non farvela poi tanto lunga, va  a finire che alle due e mezza di notte, in cucina del Circolo, trovansi: Il Capitano d’Ispezione, l’Ufficiale di Picchetto, il Capoposto, il Sergente d’Ispezione, e noi addetti alle cibarie! Ci mancava il Comandante di Battaglione e s’era apposto!

Memorabile nottata che finì tra frizzi e lazzi e dove poi ogni uno s’incamminò satollo e barcollante, alle rispettive destinazioni notturne.

Dopo una settimana ( il fatto non ha collegamento con la serata a base di Carbonara), un certo Maresciallo Mannino, vice del responsabile del Circolo, fa una specie d’inventario e scopre (dice lui), che siamo in rosso (cioè, mancano all’appello), ben dieci “gabbie” di bottiglioni da due litri dell’ “incolpevole” rosso (perdonatemi la ripetizione), tappo corona da tavola che veniva normalmente usato per i pasti.

Viene fuori il pandemonio: veniamo interrogati dal M.M. che ci sottopone ad un confronto all’americana: non ne esce un ragno dal buco; il Tenente Graziani interroga noi due (io e certo Massaro) della Mortai, spieghiamo che probabilmente i responsabili del Circolo stiano dando via di testa e per di più sottolineiamo che sono anche accuse poco simpatiche e fan girar i marroni: il Tenente è salomonico e ci rincuora cosicché per la prima volta odo il detto “male non fare, paura non avere”.

Finiamo uno per uno, davanti all’Aiutante Maggiore Tenente Zitter: il Signor Zitter non ci attacca in maniera plateale ma insiste sull’ammanco.

A me stè cose fanno andare la pressione a trecento e i cosiddetti incominciano a girare ad elica: con correttezza perché l’uomo mi è simpatico e non mi dispiace come Ufficiale, preciso: “guardi Signor Tenente che io mi considero una persona onesta al di la della media ovvero onesta senza se e senza ma (come usano dire adesso i politici alla TV), qualche “ombra” sarà anche stata bevuta in più, un litro…due litri …, però da qui a far sparire nel nulla dieci gabbie di bottiglioni da due litri ovvero dodici per due per dieci equivale a duecentoquaranta litri di vino, scusi….ma neanche se avessimo preso una ciucca furibonda ogni giorno non ci si può arrivare;  tuttavia direi che se i Signori Marescialli hanno uno straccio di prova in mano che siamo stati noi (o sono stato io), che la dicano, sennò non mi sembra giusto continuare con sta’ storia; mi permetta di dirle che se sarò punito per questa cosa, durante il servizio militare non potrò far niente, ma le assicuro che appena ridiventato civile, addiverrò a vie legali tramite il mio legale che purtroppo per i miei casi della vita oramai e a “contratto” per altre cose”

Il Tenente Zitter che io ho sempre reputato un brav’uomo, mi dice “ ma va… dai….ci parlo io con il M.llo Mannino…vedrai che va tutto a posto….ma anche questi…. cosa rompono con il vino?….E caspita…guarda se non ci sono altre cose per diventare matti!”

Me ne vado fuori dell’ufficio con perfetto saluto e dietrofront con piroetta, e di quella storia in seguito, non se ne sentirà più parlare.

Il tempo passa  ed io al circolo sono insofferente: il clima comincia a assumere toni meno rigidi; sento che dovrò andarmene dal quel luogo di caffè e di brodini, di cerate al pavimento e di pulitura di cessi.

E poi si comincia a vociferare di “Operazione Down Clear” ed altre incredibili  avventure da vero “Guerriero” lagunare, per cui ci rimugino sopra e decido: appena posso me ne torno a fare il Lagunare effettivo!

La botta finale e decisiva, me la da il Capitano Canfora, che Dio l’abbia in gloria, colerico e urlante Ufficiale della Vecchia Guardia: sono fuori del Circolo e sto scopando il raccoglitore di acque (scolina forse?), che convoglia le acque nei tombini attorno al marciapiede di ciottoli incastrati: ‘sto convogliatore e in liscio di cemento e i sassi del viale della piazza d’armi ci vanno a finire sopra e tra acqua, pioggia e pedate, ‘sti sassetti, essendo più piccoli delle feritoie del tombino, prima o poi ci vanno a finir dentro.

Non che fossi in società con il Ministero della Difesa, ma come sempre cerco di fare anche se il materiale non è mio, vedo di comportarmi correttamente.
Per cui mi adopero con la punta della scopa, di farne un mucchietto da raccogliere e ributtare sul viale.

Eseguo l’operazione con metodo, attenzione e perizia, sicchè riesco a guidare con la scopa, sasso per sasso, affinché non cada nel tombino, al mucchietto in attesa di esser sparso ancora sul viale.

Mi renderò conto poi che l’operazione come la portavo avanti io, se vista senza conoscerne il contesto e da lontano, poteva sembrare oltremodo leziosa ovvero una vera commedia per far passare il tempo; ma così non era.

Però il Capitano Canfora che stava chiacchierando con altro Ufficiale ad una cinquantina di metri, interpretò questa mia precisione, nella maniera negativa, incominciò a fissarmi insistentemente, e poi si proiettò con fare belluino nella mia direzione.

“Lagunare, ma che c…o fai; presentati….ma mi stai pigliando “pa u culo”, stai punito, ma guarda cosa mi tocca di vedere, ma che ci fai i ricami con la scopa….coglione, testa di c…o…..”

Mi sentii offeso e tentai di replicare e spiegare che il mio intento era positivo e non intendevo certo batter la fiacca e quindi profusi un timido “scusi Signor Capitano…”

Non l’avessi mai fatto: vedo l’uomo cambiare di colore attraversando tutte le gradazioni, dal rosa incarnato normale, al rosso granata e forse anche al carminio; incomincia ad urlare come un tarantolato, intravedo possibilità d'infarto del miocardio e penso che lo sentiranno sino alla Nembo (dopo le sbarre del treno), mi arrivano spruzzi di saliva in viso tanto è sconvolto ed incazzato; non so che pesci pigliare e rimango come una statua senza proferir parola.

Dopo un cinque minuti di una farsa indegna, mi ammolla la solita formula “stai punito” e se ne va’.

Testa di c…o a me, ma testa di c…o a te “rimba” penso io; rientro  al Circolo, sbatto la scopa in un angolo e stabilisco “affan… a tutti, io qui non ci resto più”.

So che il Canfora da molti anni se ne è involato nel mondo dei più, dovrei dimenticare quella cazzata, però vi giuro, non ne abbi mai più stima  e anzi da quella volta lo considerai sempre negativamente. Anche quando seppi che non era più con noi, la pietà umana per una persona che non c’è  più dovrebbe aver il sopravvento, ma non riuscii più a rivedere nella mia mente, in quell'atteggiamnetio nei miei confronti, un comportamento consono ad un buon Ufficiale.

Ora finisco qui e la prossima puntata parliamo sbarchi, “Down  Clear” a Bibione,  Baffi in arrivo, campi estivi e varie.

A Tutti quelli che mi leggono, fuorché a coloro che non stimo, (loro lo sanno chi sono e poi sono sicuro che durante la naja erano sicuramente imboscati e Dio dall’alto li ha visti e quindi vede e provvede), un caloroso,

San Marco!

Lagunare Dino Doveri.

 

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Subject: 16ª puntata "Racconti di naja".
Data: Dom, 09 Dic 2005

Per la sedicesima puntata, siamo a ricordare l’inizio del periodo primaverile del 1967. In camerata aleggiano notizie di prossime esercitazioni. Si sentono nomi mai uditi prima: Porto Calèri, Foci Reno, Rosolina, Rosa Pineta, Cà Vio.  Tutti nomi che richiamano spiagge o quantomeno zone marine correlative all’attività lagunare ed anfibia. La mia indole che mi spinge la dove ci poteva essere novità, probabile avventura ed azione, mi incita a chiedere notizie e chiarimento: si favoleggia di sbarchi alla Marines in spiagge da conquistare, notti all’addiaccio per “beccare” il “nemico”, vita da campo, e possibilità di trascorrere momenti formidabili ed indimenticabili. Mi ricordo allora, dei film più e più volte visionati nel buio delle sale cinematografiche, dove mi ero pasciuto in gioventù, di pellicole come “il Giorno più lungo” ed altre, dove un pubblico sempliciotto d’allora, tifava sonoramente per gli yankees che sbarcavano indomiti sulle spiagge sotto le sventagliate delle MG dei tedeschi che anche un po’ cretini sembravano, perché filmicamente, non ne indovinavano una che fosse una. Alla fine il “glorioso” Marine la spuntava sempre. Ed in effetti, al di la delle sceneggiature “ad hoc”, alla fine nella realtà, la spuntarono eccome!

Detto fatto, repentina ed immediata la decisone, chiedo al Comandante di Compagnia, di esentarmi dal mio incarico provvisorio al Circolo Sottufficiali, cosa che per altro lo meraviglia e capisce mica tanto bene il perché io chieda questa variazione: glielo spiego e sorride ben impressionato di questa mia voglia di vivere l’azione. “C’è da farsi un bel “mazzo” mi avvisa”, ed io gli dico “OK, per me va bene”.

Chiudo il breve periodo del Circolo e ritorno a far vita di Compagnia e ahimè, subito si ricomincia prima degli eventi addestrativi, una rinfrescata con il mortaio. Sarebbe la solita minestra di cui oramai siamo più che satolli e si prevede nel periodo antecedente alla partenza, una noia mortale.

Nel frattempo però, arriva il momento “clou” che la maggior parte delle “Tube”, attendevano con bramosia ed ansia: l’arrivo dei Signori “Baffi”! Or dunque una mattina si sparge la voce che in giornata arrivavano i baffi. Le reazioni sono le più varie: c’è gente che si carica psicologicamente sin dal primo mattino,altri che covano una “cerimonia” di ricevimento che sarebbe dovuta rimanere negli annali della storia reggimentale; si preparano gavettoni e quant’altro, i superiori sono in allarme, gironzolano per le compagnie avvisando che non si sarebbe ammesso nessun tipo di “cazzata”;  il Tenente Graziani ci avvisa chiaro e tondo che il primo “fattaccio” che succede, ci farà vedere i sorci colorati…. e così via.

I malcapitati arrivano in tarda mattinata, trasportati nei soliti CM con telone chiuso, sin sotto l’entrata delle Compagnie: s’aprono i tendoni e si scorgono i visi spauriti e timidi dei giovanotti per i quali da quel momento, sarebbe iniziata l’avventura dello “status” di “baffo”. Sbarcano con il bagaglio sotto la pensilina del portico delle compagnie e qui cominciano i fuochi d’artificio. Per la verità, io personalmente non avevo assolutamente ne la voglia ne la brama, di “rompere” più di tanto: ancora mi ricordavo quello che toccò a me nello stesso frangente, e di comportarmi da “rincretinito diplomato” come avevo visto fare ai miei “noni”, proprio non mi andava. Comunque, visto che la cosa era ineluttabile, defilato ed a margine del pandemonio, mi feci quattro risate nel seguire la scena dell’inquadramento e dell’ assegnazione; vidi arrivare alcuni gavettoni volanti, qualche messa sull’attenti da parte di alcuni di noi a ‘sti poveri cristi con gli sguardi allucinati e la tensione tirata come corda di violino, ma alla fine la “resa” del momento tanto atteso dalla gran parte della “vecchiaia”, si esaurì momentaneamente, nei soliti “Chi sei?”; “ReclutaTizio Caio”, “No tu non sei niente, sei un vile verme della terra!”

“Lagunare Caio Sempronio”, “Lagunare cooooosa?”grida andando di testa il “nono” imbestialito “Lagunare un c…o! Prima di poterti definire Lagunare dovrai..(e qui seguivano una serie di programmini inenarrabili niente male, durante la cui elencazione , generalmente il “baffo” ammutoliva, cambiava di colore andando sul pallidino, guardava da un’altra parte facendosi coraggio con un accenno di sorriso di sfida ma tradito dal respiro affannoso e dai movimenti inconsulti dello stropicciarsi nervosamente le mani.

“Come ti chiami?”, “ Pinco Pallino!”, “Cosa ho sentitoooo? Da adesso ti chiami baffo “Cucù”!”

E via così per alcuni minuti; la cosa non andò oltre anche perché molti si ripromettevano di dar fondo alle più becere angherie e scherzi vari, sia durante la serata che durante la notte. Si schierano i baffi in camerata e com’è uso, ad ogni vecchio si “assegna” il baffo di competenza. A me capita uno spilungone magro e con naso aquilino e capelli spennacchiati con l’espressione da bamboccio decenne appena uscito dall’oratorio; il labbro inferiore leggermente sporgente e pendulo ma l’occhio vivo e pronto……, manco mi ricordo ne come si chiamava ne da dove veniva. Lo guardo con fare severo (un po’ di teatralità non guastava),  ma siccome mi ispira tenerezza per tanto frastornato che lo vedo sul momento, gli dico di sistemarsi la dotazione e che se ne riparlava in serata. In serata, dopo avere assistito a tutta quella serie di scherzacci che comunque furono sempre meno pesanti di quelli che a nostra volta subimmo nella stessa situazione, mi piglio il baffo nelle prospicenze della mia branda e gli spiego la faccenda: “Io non sono uno di quelli che ti romperà i “marroni” più di tanto; tu fai quello che ti dico e vedrai che da parte mia non ci saranno problemi; quindi: per non perdere la faccia nei confronti degli altri “noni” dovrai fare per me alcune cosette e per la comunità dei “noni”, altre”.

“Quando c’è la “bagarre” dei “noni” cerca di defilarti, non incazzarti perché sennò è peggio; prendila come un fatto assolutamente ineluttabile ed “abbozza”; sappi che quello che s’incazza di più, è quello che patisce di più: sarà poi sempre nel mirino di tutti”.

“Nei miei riguardi e sempre per non perdere la “faccia” nei confronti dei miei colleghi “noni”, tu devi: sistemarmi il cubo la mattina dopo la sveglia, una robetta da quattro/cinque minuti (non serve che me lo fai alla sera perché sono troppo delicato in questa faccenda); lucidare anfibi e scarpe da libera a seconda della necessità e “dulcis in fundo” ma non è una tragedia, in servizio, com’è giusto che sia, da oggi il “tubo della stufa” ovvero la canna del Mortaio da 120 è tuo e te lo scarrozzi dove ti viene comandato quando sei in Plotone.”  “Altro non voglio e vedrai che se “ottemperi” con perspicacia e “vispezza” (termine coniato al momento in onore al fatto che il “baffo” doveva essere innanzitutto “vispo”), in confronto ad altri baffi, te la passerai molto meglio. Azione!”. Il ragazzotto non è tanto convinto, ed allora debbo tirar fuori quel tanto d’autorità che avrei dovuto avere con il baffo già dall’inizio, gli spiego per benino cosa abbiamo passato i miei colleghi ed io nella passata ed analoga circostanza, Rimane colpito dal racconto e comincia a connettere; gli sottolineo che già per i suoi colleghi assegnati ad altri “noni”, era cominciata molto male e tutto faceva presagire che sarebbe finita peggio, quindi gli consiglio di attenersi alle regole (agli ordini se mai i miei  potessero essere considerati degli ordini), e tutto sarebbe andato ottimamente.

Il baffo è indeciso e valuta se realmente potesse essere così, ma poi si guarda attorno e inizia a fare mente locale, quindi cogita tristemente ed assiste perplesso : siamo in una bagarre da pseudo -  girone infernale dantesco, le urla inumane, le sguaiate risate, le frasi, l’atmosfera è incandescente per cui il baffo che “mona” non è, pesa la situazione e sembra che dopo immediato ed attento esame di come stavano andando le cose in camerata, opta per il “silenzio – assenso” e mugugnando se ne va alla sua branda.

La nottata è insonne: girate di branda, qualche “gavettoncino” se pure moderato, qualche teatrino tipo “fammi il CuCù”, poi la fatica vince anche i “noni” più esagitati e finalmente a metà nottata si dorme.

Il mattino dopo, il baffo fa finta di non ricordarsi del cubo e tenta la strada dello “gnorri”: vedo che i colleghi “noni” ridacchiano sotto sotto e quindi decido per una linea più “dura” ed una risoluzione “definitiva”: scatto urlando “alla Canfora”, i miei amici mi sostengono nella sceneggiata demolendo le difese psicologiche del soggetto, il Sergente Francis esce e se ne torna nella sua cameretta per qualche minuto, il ragazzo ritira il collo entro le spalle come una tartaruga, prevede chissà che rogna gli starà arrivando, molla tutto, con sveltezza e perizia mi assembla il cubo e la cosa finisce li senza conseguenze (anche perché non mi era ben chiaro cosa gli avrei potuto fare, senza offenderlo più di tanto….).

Da allora io e lui convivemmo ottimamente: intuisce che come “nono” sono uno dei più tranquilli e bonaccioni, capisce che non ho la cattiveria d’infliggerli quanto era preventivato dalla tradizione, comprende che pure io non ho grande simpatia per questi maltrattamenti e condizionamenti psicologici, vede quello che capita agli altri  e valuta serenamente che quel poco che c’è da fare per il suo “nono”, è il minimo indispensabile.

Quando andiamo fuori con il Mortaio, senza far storie si carica in spalla la maledetta “bocca da fuoco”, io mi “accollo” l’onere del congegno di puntamento e paline, al rientro senza tanto smenare, si pulisce il pezzo e se lo sistema in armeria: con il baffo, tutto bene quindi!

Alcune volte vedo che il ragazzo, anche se non vuol darlo a vedere, è sfiancato e quindi mi sobbarco nuovamente la bocca da fuoco.

Alla sera in libera è spaesato, non sa niente degli usi e costumi della banda, e mi pare opera pia, dargli qualche “dritta”; mi fa un po’ pena nella sua ingenuità di zerbinotto di campagna tant’è che “spingo” presso i miei due sodàli, nel permettere di lasciarlo accodare a noi tre in libera, e che ciò fosse cosa buona  e giusta era scritto nel cielo perché il baffo recepisce e tutto sommato a parte qualche cazzatina tipo “baffo! Fammi una decina di pompatine con salto!” che non raggiungevano mai il fatidico numero, la sua convivenza con noi “noni” diveniva sempre più amichevole.

A riguardo degli altri baffi, non ho ricordi particolari: solite menate alla sera prima dormire, solite esibizioni dei vari Juke Box, Cucù, Buffalo Bill, la Dolce Bajadera e varie altre improponibili interpretazioni; qualche incursione notturna, qualche sporadico dentifricio, qualche gavettone di sostanze varie giù per la scala dei cessi, ma tutto sommato, il fenomeno nonnismo con il nostro contingente non ebbe grandi sprazzi o fatti salienti; molti di noi si vergognavano un po’ nel praticare quella tradizione militare, e sicuramente non infierirono sui baffi, più di tanto: il fenomeno stava nel tempo affievolendosi.

Una sera, in una innominabile caciara organizzata da un “nono” rodigino, volavano ad altezza crani, brande e zaini, sicché una stanga della branda in ferro incocciò con una certa forza sulla pur dura zucca di un baffo che rimase secco e senza sensi: ne venne fuori un casino dell’accidenti: ricovero del colpito in infermeria per rianimarlo, urla del Sottotenente Bordon, ricognizioni di altri Ufficiali in camerata, arrivo del Tenente Graziani con relativo “tutti in mimetica, zaino e Fal a farsi un giretto per la campagna friulana”, “ tra mezz’ora!”.

I colleghi “noni” che tante ne avevano subite a loro volta, si vedevano sfumare così la possibilità di rifarsi sugli incolpevoli “baffi”, ma intelligentemente dopo un altro paio di “passeggiate” notturne per i frutteti friulani carichi per altro, di quelli che tra qualche tempo sarebbero divenuti frutti succosi che aiutavano a superare la fatica e lo smacco morale, si rassegnarono a ben più miti consigli ed a comportamenti meno vessatori e cretini nei confronti dei baffi.

La patì bruttina il baffo apprendista trombettiere che faceva pratica dello strumento spaccatimpani, in un angolino all’aperto tra il comprensorio del “percorso di guerra” e la strada che portava alle officine dietro la Mensa e lo Spaccio e poi giungeva alla Polveriera.

Era stato messo lì appositamente perché con il metallico strumento oramai aveva esasperato un po’ tutto il Battaglione: comunque anche da lì, i miseri tentativi di far uscire una nota degna di tale nome dall’ infernale oggetto, erano sistematicamente naufragati ed era divenuta oramai una cosa diabolica e indisponente alle orecchie infiammate dei militari del luogo ed anche oltre.

Sicchè il “nono” (inteso come categoria), che una ne pensa e cento ne sa, raccoglie in un capiente sacco di plastica, sostanze liquide varie tra cui spicca per la cattiveria, il grasso del fondo delle placche dove erano state cotte le salsicce (o salamelle che dir si voglia): ogni uno poi, ci contribuì del suo e quindi ingaggiato un CL con autista, il gruppo “noni” carica il pestilenziale  e diabolico ordigno chimico e si dirige alla volta dell’ignaro neo-trombettiere che emette suoni simili a miserabili “flatulenze”, a più non posso, proprio addossato alla curva del percorso.

L’ignaro vede l’autocarro avvicinarsi ma la cosa non lo insospettisce perché da li passano i mezzi che vanno su e giù dalle officine: all’altezza della vittima, si spalanca il telone dietro e ne fuoriesce lanciato con veemenza e considerevole velocità, il gavettone pestifero, che si schianta addosso allo sfortunato baffo trombettiere.

Una ultima “pernacchietta” soffocata da cotanta materia innominabile e il baffo è sommerso dal contenuto del mega gavettone.

Per un paio di settimane si dovette intensificare la mattutina “reazione fisica” per cui passatempi di questo genere furono saggiamente accantonati.

Per la verità, nelle compagnie degli assaltatori, il movimento notturno era intenso e sistematico, ma d’altro canto erano cavoli loro e l’aristocrazia del Battaglione, cioè la Mortai, si defilò quasi signorilmente e la cosa andò scemando da sola (anche perché contrariamente, il Tenente Graziani diveniva una belva e tutto sommato il gioco non valeva la candela).

Si parte: si farà l’esercitazione “Down Clear”  a Bibione.

Fermento, preparativi, “breefing” (si fa per dire, perché per noi semplici Lagunari fanalini di coda del contesto, il breefing era costituito da un “datevi da fare e non rompete i c.…..i in giro per il vasto e sconosciuto mondo! Azione!), controlli dell’attrezzatura, dell’equipaggiamento (misero, se confrontato con quello di adesso).

Si chiede un aiuto per l’armeria (mio vecchio amore), ed io mi do disponibili subito: smonto, sgrasso, diluisco, gratto, ingrasso (le armi, non me), sono il solito pignolo, mi prodigo nei particolari, la vite, la cinghia, la lente, i bellissimi congegni di puntamento del mortaio di raffinata fattura meccanica (ne ho uno che troneggia proprio davanti a me sulla scrivania dove mi sto metodicamente impegnando su queste righe: congegno ovviamente non “involato” al Ministero della Difesa, ma acquistato a caro prezzo in un mercatino di militaria).

Mi “rapisce” il Bar, fucilone mitragliatore della IIa Guerra Mondiale, pur se prodotto in tempi bui, il pezzo è un trionfo della meccanica “fine”; pure l’MG mi “prende”: è un idea della tecnica  tedesca, la cosiddetta “sega di Hitler” , che la dice lunga sulla pignoleria, maestria ed orgoglio del tedesco quando produce un qualche cosa: un insieme di innovazioni armiere tecnicamente ancora oggi in auge, che sposavano la nuova “corrente” della “stampataura” della lamiera balistica, invece che la lavorazione con macchine utensili tipo frese, torni e trapani.

La semiautomatica pistolina Beretta Mod. 34 invece, era una vera “frana”. Dura allo scatto, vecchia, malmessa da decenni di usi sconsiderati da parte dei figli della laguna, un vero ferro vecchio con una cartuccina da pena, tale era la 9 Corto altresì denominata internazionalmente 380 ACP.

Meno male che molti decenni dopo, venne sostituita con la omonima Mod 92 in 9 Parabellum!

Io mi ci applicavo con passione: non doveva rimanere un grumo di olio rinsecchito, un vite allentata, una canna sporca, un caricatore inefficiente. Era una sfida.

Qualche giorno prima di partire per Bibione, l’armeria è una sala operatoria, e il contenuto si poteva paragonare ai relativi ferri chirurgici.

Una bella mattina piovosa, si parte per Bibione: pochi chilometri per la verità.

Arriviamo all’incirca a mezza strada tra il ponte di Bevazzana e Bibione; deviamo alle spalle della laguna, c’insinuiamo in una “codetta” tra barena e “palù” , e qui scarichiamo i Mortai da 120.

Contrariamente a molte altre volte dove si piazzava il mortaio appoggiato sul terreno, questa volta ci fanno scavare una buca che “fortificheremo” con sacchi riempiti della terra scavata: un lavoraccio improbo e un “mazzo” tanto.

In buca si affonda sempre più giù e i sacchi s’innalzano sempre più su, mentre però il fondo della buca tende a riempirsi della pioggia che allegra e copiosa scende su di noi ininterrottamente.

Dopo poco, lo strato di fanghiglia e profondo una ventina di centimetri e ogni anfibio pesa un due/tre chili in più; d’altro canto medito tra una sbuffata e l’altra, è questa la vita del Lagunare: in “umido” e sguazzante nel fango e nella poltiglia: sennò che ragione c’era di fregiare le Compagnie con effigi di rane, caimani e altre bestiacce anfibie?

Piazziamo il “Mostro”, lo copriamo con mezzi di fortuna, qualche telino tenda e qualche sacco della spazzatura in nylon rinvenuto chissà dove, lasciamo una sentinella che è sull’orlo della crisi di nervi e per grazia ricevuta, noi dell’ “arma base” (ma pure gli altri mi sembra), ce ne andiamo a Cesarolo dove ci attende diroccata per la gran parte della sua vastità, una principesca casa colonica del mezzadro locale, rudere in lento disfacimento, che ci farà da tetto per la prossima settimana.

A piano terra, la base operativa  e Comando della Compagnia Mortai: carte geografiche appiccate a telai, tavoli con documenti e orografie, radio che gracchiano in continuazione, alcuni Ufficiali che si dannano l’anima a convertire le coordinate che arrivano via etere, con le impostazioni della serie di mortai che attendono annegati in pozze d’acqua, a qualche chilometro di distanza.

Secondo piano, alcuni piloti degli LVT MK4, alcuni Sottufficiali d’altre Compagnie.

Terzo piano, sul nudo suolo di assi di legno su cui si sono negli anni di disuso, stratificati chili di polvere impalpabile, ci dicono è il nostro giaciglio!

Stendo il telo tenda, ci stendo ulteriormente sopra un paio di sacchi sventrati di una plastica dura e spessa che fungeranno da intercapedine agli spifferi che provengono dalle fessure del “siolo” in legno marcio, distendo e gonfio il famigerato “Materassino Pneumatico”, vera e propria tortura cinese per dormire, qualche coperta, zainone in testa del giaciglio e alla fine mi sembra d’aver combinato su, una “postazione da sonno” disperatamente decente.

Invadiamo il paesetto di Cesarolo che allora era un agglomerato di poche case ed un paio d’osterie, e come sempre avviene nei casi specifici, ci troviamo tutti dentro in una di queste, tra noi, Uff. e Sottuf. I quali pure loro non sanno dove andare a parare.

Casini e schiamazzi, osti inviperiti per tanta cagnara però in fondo contenti per l’afflusso di Lire che alla fine si concretizzano nelle loro casse; i paesani svicolano e le poche “tose” esistenti le immaginiamo a letto guardate a vista dei severi genitori che per la bisogna, hanno riesumato la vecchia doppietta da “folaghe”, caricata a sale.

Partite a carte, televisione, qualche tavolo s’inforna tutto quel che di commestibile offre la bettola; la pance lagunari com’è risaputo negli annali dell’Esercito Italiano, sono sempre vuote e le gole sempre asciutte.

Anche per l’occasione, come per altro è tradizione consolidata, le “ciucche” non si contano e le comitive rientrano alla “base”, con passo malfermo e canti sguaiati.

La mattina dopo però, il fisico Lagunare viene fuori come sempre alla grande e tutti sono in forma come campanelli. O quasi.

Noi Mortaisti giungiamo alla nostra “ragione di vita” e ci rendiamo conto che il complesso “arma” è immerso in buoni trenta centimetri d’acqua.

Svuota e sguazza, bestemmia (moderatamente però) e impreca, si opta per assemblare con sterpaglia e materiale di fortuna, una pavimentazione su cui poter evitare di sprofondare; ogni tanto la pioggia s’interrompe per alcuni momenti ma poi rincomincia più convinta di prima.

Ogni mezz’oretta facciamo finta di sparare e c’è pure qualcuno che ci dice che abbiamo preso il bersaglio o l’abbiamo sbagliato (mai capita ‘sta storia); a mezza mattina del secondo giorno di “battaglia” ci dicono che gli Americani sono sbarcati e stanno costruendo un ponte portato li con gli elicotteri, da qualche parte ( per noi avrebbero potuto anche essere ritornati in Tennessee o in Nebraska, che manco ce ne saremo accorti); proseguiamo l’esercitazione sino a sera ma invece di rientrare rimaniamo sul posto, dentro la meraviglia di buca che funge da postazione: ci sistemiamo nella fanghiglia, piove di gusto e siamo fradici ed infreddoliti, ogni uno dice la sua e si fa fatica a dormire, ma comunque ci si riesce e giuro, fu un’esperienza indimenticabile.

Il giorno dopo si rimase sul posto (sempre a far finta di sparare e facendo “bum!” con la bocca quando il virtuale scoppio avveniva), si venne a sapere che lo sbarramento di bombe “Pepa” vocali, aveva fatto il suo dovere ed all’imbrunire si affardellano armi e bagagli per ritornare in “baracca”: vari espedienti per asciugarsi ed asciugare gli indumenti (falò improvvisati sotto portici di case coloniche abbandonate, cofani dei motori interni alla cabina dei camion, aiuto per la bisogna chiesto agli abitanti della zona – pure il calore delle vacche in stalla ci andava bene – e quanto la fantasia del Lagunare riuscì  ad escogitare.

Io personalmente mi spogliai e indossai una tuta ginnica che allora era blu scuro ed in tessuto felpato, e portai la mia divisa da combattimento ad asciugare presso la cucina di fortuna che era stata ubicata in un garage dell’osteria centrale di Cesarolo: i miei passati “agganci” con il personale del Circolo, furono per l’occasione, determinanti.

Nottata incredibile perché spegnendo le candele che fungevano da illuminazione, ci accorgiamo di movimenti furtivi e rumorini strani che si percepisce, provengono dai bui anfratti delle vecchie mura coloniche.

Per niente tranquilli a causa di questi gratta – gratta, decidiamo per la riaccensione delle candele:

dopo qualche decina di minuti, ci accorgiamo di mastodontiche “pantegane” che mettono il loro muso appuntito, fuori dalle fessure nelle quali normalmente soggiornano e per altro una o due attraversano la stanza con fulminea traiettoria.

La cosa ci mette in allarme tant’è che il sottoscritto ed altro incaricato dal gruppo, partiamo alla ricerca di un qualche cosa di risolutivo: l’oste della taverna di fronte ci ride sopra ma poi ci dice che basta tenere la luce accesa e non succede niente; ci presta due belle lanternone a petrolio illuminante e ci consiglia di non mangiare  per non ingolosire i ratti.

Il consiglio e relativo implicito avvertimento, non ci tranquillizza per niente ed anzi, ci rende sempre più perplessi.

Le due belle e panciute lampade a petrolio fanno il loro dovere e dopo aver scoperto che uno di noi, un triestino, stava sgranocchiando cibarie prima di dormire, e dopo aver preso le stesse e scaraventate nel cortile della casa colonica con speranza che le simpatiche bestiole se ne accorgessero, si ritenne che si poteva tentare di dormire.

Senza però aver organizzato un servizio di guardia alla “pantegana”.

Ogni tanto ci si svegliava di soprassalto con l’impressione che qualche occhio puntuto ci stesse osservando……con golosità!

Non smise mai di piovere durante tutta l’esercitazione denominata “Down Clear”; si parti da Villa con la pioggia e con la pioggia vi si rientrò dopo circa una settimana.

Si ritornò alla “base” verso il finire della settimana, più sbudellati e “stonfi” che mai; sporchi ed abbruttiti ma consci che tutto sommato avevamo “vinto” gli Americani (almeno così ci dissero).

Certo che la vita da “guerriero” era dura ma tuttavia ti dava la consapevolezza di aver acquisito più esperienza, più saggezza, ma soprattutto, d’aver vissuto l’avventura e l’azione, in diretta.

Alla prossima.

San Marco!

Lagunare Dino Doveri.

 

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Subject: 17ª puntata "Racconti di naja".
Data: Dom, 13 Mar 2006

La diciassettesima puntata inizia nell’immediato periodo del dopo “Down Clear” di Bibione.

Siamo ancora con la nostra bella divisa in panno ma i cappotti sono stati ripiegati e messi definitivamente nello zaino.

Quell’indumento, considero, non verrà più utilizzato perché un altro inverno a Villa Triste non lo passerò mai più perché per quel periodo dovrei essere a casetta mia, già da qualche mese.

Intanto in caserma la vita scorre lenta e monotona; come “vecchi”, la storia  delle guardie sembrerebbe finita la cosa che maggiormente assorbe le nostre attenzioni, sono le metodiche strategiche per andarsene ogni tanto in licenza e le uscite serali in libera, che invariabilmente ci conducono a “spanzarci” di cibo in qualche nuova scoperta nel perimetro fruibile attorno a Villa.

Una domenica, non mi ricordo più per quale strano motivo, ci trovammo in caserma in quattro del solito gruppo e per altri motivi persi oramai nei meandri del tempo, si riuscì ad uscire nel primo pomeriggio: visto che la primavera incombeva e oramai stufi delle solite puntate a Cervignano, decidiamo di organizzare una incursione a Grado, nota località turistica dell’alto Adriatico a pochi chilometri dalla nostra caserma.

Come ci siamo arrivati, ora pur sforzandomi, non riesco a ricordarmi, ma qualche cosa mi dice che il sano ed economico “autostop” ci permise senza spese superflue, di raggiungere la celeberrima località d’antiche origini preromaniche.

La parte vecchia di Grado (pur avendola sentita nominare spesso, questa località mi era del tutto sconosciuta), c’entusiasmò ed io inveterato cultore dei costumi della tradizione rivierasca veneta, subito colsi nelle fogge delle case e dagli intrichi delle calli, una assonanza che riconduceva ai centri storici delle varie città e centri urbani d’influenza veneziana.

Sicché, dato che l’aria era ancora fresca ma non proibitiva, anzi quella sera piuttosto tiepida, con molto anticipo sull’ora di cena ci attirava sederci in una trattoria che ci sembrava a buon mercato per le nostre infime tasche di militari, spinti principalmente dai profumi da essa provenienti, notevolmente invitanti. Ci sediamo dunque, in uno dei tavoli che già erano apparecchiati all’esterno davanti alla trattoria.

Giunta l’ora del desinare, in attesa della quale venne deciso di “valutare” una bottiglietta di classico bianco regionale, ordiniamo, dando già indicazione su cosa sarebbe seguito al primo piatto; finito questo, stiamo già pregustando l’arrivo del secondo, quando uno di noi, che per caso guarda il passaggio della gente ciondolante davanti, nella via data la bella serata,  vediamo che… strabuzza gli occhi e mezzo soffocandosi, avverte:

“fjoi…ghe xe un basco nero che xe drio vegnir vanti sieme con na tosa, e porc’…. me par ch’el gabia stelete, un per, e ostrega… mostrine rosse sora a giaca!”

Terrore ed apprensione, siamo fuori distretto e li non potevamo e dovevamo esserci!

Il basco nero in avvicinamento viene fortunatamente deviato verso una vetrina, dalla signorina tenuta sottobraccio, e noi rannicchiando le teste nelle cavità clavicolari, fluidi e felini come si addice a “vecchi” Lagunari, “l’azione deve essere flessibile, immediata, efficace!”, frase tante volte udita, con decisione ponderata ma  fulminea, entriamo in un battibaleno dentro la trattoria; gli avventori ci guardano con sospetto e facce perplesse immaginando chissà che cosa; piglio da parte un cameriere e gli spiattello la faccenda pregandolo di lasciarci tranquilli in un posto nascosto sino a che il tizio non fosse passato.

Il cameriere, capito la comica e critica situazione, c’indirizza in un corridoietto che immette alla cucina e dopo un quarto d’ora mandiamo in avanscoperta, una vedetta che ci riferisce che all’orizzonte non si vedono ne mostrine rosse, ne baschi neri.

Pian pianino ritorniamo al tavolo, rinfrancati e seguiti dagli sguardi interdetti dei commensali ed attacchiamo il secondo, ridacchiando come ragazzacci discoli, sollevati e con l’euforia dello scampato pericolo.

Sicché, dopo una mezz’oretta, presi nel risolvere il dubbio amletico relativo ad un prosieguo con lauta porzione di dolce oppure no, veniamo di nuovo sorpresi dalla faccia allibita e sconvolta, reiterata ulteriormente dal nostro “fratello di naja” di vedetta, che per la seconda volta assumeva un’espressione allarmata.

Senza chieder nulla, ci voltiamo tutti dalla parte dov’è puntato l’occhio vitreo del commilitone, e constatiamo con terrore, che l’Ufficiale Lagunare, se ne stava nella sua passeggiata galante, ripassando proprio per di la.

Evidentemente lui non ci scorge perché nascosti da fioriere e cartelli, ma inesorabilmente si avvicina anche se lentamente e pieno d’attenzioni per la sua compagnia.

Altra scena tragicomica degna di un film muto degli anni ’20: rocambolesca, fulminea e penosa a vedersi fuga all’interno dove per un altro quarto d’ora cerchiamo di mantenere un’aria normale, mentre la gente seduta ai tavoli, comincia a considerarci con attenzione scrutandoci con un non malcelata apprensione.

Altro breve periodo d’attesa ed a ‘sto punto, non vediamo l’ora di levare le ancore; quindi paghiamo al volo chiedendo scusa al trattore che se la ride sotto i baffi: “ma va a remengo ti e i to’…..” pensiamo.

Furtivamente, facendo un giro dell’anima, ci portiamo sulla strada che esce da Grado.

Comunque più sereni per lo scampato pericolo, ci accingiamo in due gruppi, all’oramai, tradizionale e praticato spudoratamente, “autostop” per ritornare in quel di Villa.

Passa una, passa due macchine, ne passano centinaia, ma per una buona mezz’ora (strano perché i militari vengono presi su molto rapidamente, in genere), non si ferma nessuno.

Sull’incazzatello andante e non il contrario, stiamo facendo i nostri commenti non proprio raffinati, quando un bel Maggiolino VW rosso cupo, caccia fuori la freccia e si ferma davanti a noi.

Sorridenti e contenti si chiede: “Scusi, se va verso Villa Vicentina, potrebbe darci……”

Un colpo al cuore ci ammutolisce perché scorgiamo le due scarlatte mostrine con il Mao e due micidiali stellette dorate per ogni spallina, che ci raggelano il sangue.

Terrore e sgomento!

Non era una faccia nuova, ma non sapevamo chi fosse e comunque era il tizio che ci aveva fatto fare la misera figura di cui sopra, poco tempo prima.

“Ma dov’è che c...o state andando fuori distretto! Lo sapete che qui non ci potete arrivare? E anche l’ autostop…”

Facciamo la faccia da “gnorri” e questo s’incacchia ancora di più.

Uno di noi ispirato dalla convinzione del proprio “status” di “nonno”, proferisce con fare conciliante:

“…ma sior tenente, semo oramai veci e xe na vita che ‘ndemo ‘ndrio vanti per i busi de Vila Triste…porca vacca, ‘sta volta gavemo vossuo vedar ‘na roba diversa: Se no se more sempre co’ le stesse robe…”

Questo ci valuta e cambia espressione; ci vede sinceri e inoltre penso che la motivazione gli sia chissà perché, comprensibile e sicchè fa: “dai montare…che vi porto io… così potrebbe anche essere che non vi becchi qualcun’altro”

Ringalluzziti per la piega presa dalla faccenda, entriamo in macchina ed una parola tira l’altra, un paio di battute, un “ostion” del gruppo fa qualche leccata e chiede “…se el Sior Tenente el pol serar un’ocio per piasser…”, quindi un tentativo di corruzione riuscito con un “Sior Tenente, se el se ferma podaressimo ofrirghe un qual’ cossa da bevar?...”.

Arrivammo all’incrocio della Triestina e sbarcammo ringraziando di tanta magnanimità  non prima d’avere udito: “La prossima volta, almeno cercate di non farvi beccare!”.

Che nome avesse questa superlativa e prestigiosa figura d’Ufficiale, giuro non lo ricordo ma era in quel periodo, in una compagnia di assaltatori.

Un paio di mattine dopo successo l’ameno fatto, alla presentazione della forza, il Tenente Graziani, la butta li: “sembrerebbe che abbiamo dei signori che vanno a fare i turisti a Grado; attenti perché se venite beccati, oltre alla punizione che vi appioppano, poi ve la vedete con me!”

Più andati a Grado!

Le guardie ai forti sembravano cosa orami esclusa ed invece la Mortai è per l’ennesima volta, spedita in Veneto; questa volta (si vede che come “vecchio” me la passano), non sono nell’elenco degli eletti del gruppo “vacanze ai forti”.

Se ne partono ed io resto dei “vecchi”, praticamente da solo in Compagnia.

Ma naturalmente c’è sempre un ma all’orizzonte.

Mi fa in un’adunata lo Sten:  “….guarda che vai a Cà Vio con i mortaisti da 81 a fare uno “sbarco; domani preparati per una trasferta di un paio di giorni. Vi portate via un 120 e illustri agli 81 com’è la faccenda del 120…..”

“Portatevi via gli anfibi di tela e roba da cambiarvi perché c’è d’andare probabilmente in acqua. Azione e non fare danni per il vasto e complicato mondo!”

Guerriero!

Ecco per quale glorioso scopo è costruito il Lagunare: per fare il Guerriero!

Sempre immerso in mille azioni avventurose e “bagnate”.

Verso metà mattina del giorno dopo andiamo in armeria con gli altri tre, gli faccio assaggiare il peso del “mostro”, illustro le metodiche d’inbragamento e di carico e scarico dell’attrezzo, noto le facce schifate dei colleghi “ottantunisti”, per cotanto ingombro e peso, ci facciamo coraggio cameratescamente l’uno l’altro e nel primissimo pomeriggio partiamo con il solito CL, per poi giungere nel pomeriggio inoltrato a Cà Vio;

Anche se abitavo ad una ventina di chilometri, ‘sta faccenda di Cà Vio, manco sapevo che esisteva:

arriviamo entro i tempi che ci permettono di piazzarci in una camerata che ha del tragico, e per presentarci alla libera.

Datosi che non avevamo portato via la divisa da libera, qualcuno pensò di fare uno strappo alla regola e ci permisero di uscire in mimetica: Sembravamo, a parte le facce non proprio terribili o patibolari di ventenni appena svezzati, dei veri “guerrieracci” rotti a tutte le battaglie: la nostra bella giacca a vento, il meraviglioso fazzoletto rosso ed oro senza il quale a quei tempi, non si andava neanche ad espletare esigenze corporali, il bascaccio nero portato alla maniera dei Marò, i leggerissimi anfibi telati da “sverginare”, lacci ai pantaloni da veterani di mille azioni….fichissimi si direbbe adesso!

Pizza e casini in pizzeria a Cà Savio e rientro nella norma.

Alla mattina “comprendiamo” Cà Vio.

La caserma pullula di gente di tutti e tre i Battaglioni, scorgo qualche faccia del “Marghera”, noto i cordoni amaranto del “Piave”, vedo diversi plotoni mortai con il 120; speriamo di fare bella figura…così improvvisati  come siamo noi dell’Isonzo che poi scopro siamo gli unici rappresentanti di Villa Triste.

Preceduti da rombi e fumi densi di gasolio, cominciano ad allinearsi quei mostri sempre “vagheggiati” ma mai “toccati” con mano, gli LVT.

Montiamo impacciati nei movimenti, dal nostro personale pezzo di mostro (a me naturalmente, mi appioppano il maledetto “tubo”); gli ottantunisti a disagio dalla mole del pezzo, imprecano sommessamente, sballottati come animali al macello nel carro dell’ultimo viaggio, sbatacchiando qua e la, arriviamo alla spiaggia smontiamo e dove un Capitano mai visto, ci spiega la faccenda: si monta, si va in mare per un tot, ci si volta e si simula uno sbarco.

Quando si abbassa il portellone saltiamo fuori e andiamo ad assemblare il mortaio vicino ad una qualche duna o avvallamento.

Più chiaro e semplice di così!

Risaliamo e con il cuore in gola mica tanto sicuri che ‘sto affare così pesante non s’inabissi non appena i cingoli non avessero toccato più la sabbia, muti come pesci, spettatori passivi, già con il fiato corto (avete visto le facce in attesa di spiaggiare, durante lo sbarco del film “salvate il Soldato Ryan? Peggio!), guadagnammo il largo per poi con una virata stretta ci mettemmo in direzione spiaggia.

Il tizio che comanda, un sergente mi sembra, ci raccomanda: “appena il portellone è orizzontale saltate giù e poi fate quello che vi dirò di fare!”.

Il motore va su di giri ed incomincia l’avvicinamento alla spiaggia, immagino dal rombo, a tutta forza.

Passano minuti interminabili e il cuore va a mille, gli spruzzi d’acqua salata ci investono e sento il salato sulle labbra; un leggero strattone ci avverte che sotto abbiamo toccato sabbia.

Forse non atteso così nell’immediato, il portellone comincia ad abbassarsi e noi ci prepariamo al balzo.

Quando e bello dritto, sono il primo, uno mi da una pacca sul cranio ed io parto: butto l’occhio e non so che cosa, ma l’istinto mi dice che i particolari non tornano.

Salto…..ploff…blob..glub…ed invece di sentire solido sotto di me, immaginavo ad una cinquantina di centimetri di profondità il massimo, non sento niente e cioè, sento solo acqua.

Sprofondo e realizzo che sono immerso totalmente e ritto, ho una decina di centimetri d’acqua sopra il basco! Profondità valutata , 1,80! Cavoli!

Un attimo di terrore, poi realizzo e mi spingo fuori dall’acqua puntando i piedi sul fondo sabbioso, faccio un bel respiro profondo e stabilisco che mi hanno mollato nel posto sbagliato; reimmergo ma siccome mi viene l’idea che sono tra scanno e scanno, programmo di saltellare sul fondo e prendendo profondi respiri quando riemergo, sento che in un dozzina di metri potrò uscirne almeno con la bocca per respirare normalmente.

Il “tubo” mi grazia perché in acqua pesa meno e tra l’altro non si è riempito d’acqua sia perché ha un coperchio di gomma, sia perché la bocca sarebbe ben fuori del pelo dell’acqua, per cui il mio programma, grazie San Marco che eri presente, si conclude come previsto.

L’LVT “frena” e viene quel tanto indietro talchè saltano giù tutti (questa volta con il terreno sotto i piedi) e scendono in acqua a darmi una mano. Mi scaricano il tubo, il Sergente mi dice “quanti sono questi?” indicando le dita della mano, li mando a fan…. e vedi un po’ te…connetto che ho perso il basco.

Urlo per il basco, ed il “colleone” che ha diretto quest’infamia, cerca di farsi perdonare e con un “mezzo marinaio” in dotazione al vascone da bagno cingolato, mi recupera il prezioso copricapo (ancora attualmente conservato in apposito contenitore).

Tutto ‘sto episodio ritengo non abbia durato più di tre o quattro minuti.

Se i momenti di concitazione e di pura “cacarella” non mi offuscarono la mente, e se i ricordi non mi tradiscono, la faccenda finì a “tarallucci e vino” e pacche sulle spalle.

Erano altri tempi, altra gente. Anche se brutti ed ignorantoni, gente che non si perdeva d’animo, gente abituata sin da piccoli a cavarsela, gente insomma “di mille primavere”: tutti rimontammo sul veicolo anfibio e dopo una cinquantina di metri (forse anche più), ripetemmo la faccenda, come il caso non fosse stato nostro.

Quando arrivammo in spiaggia, fummo aspramente rimproverati dal Capitano che voleva sapere che accidenti era successo, la descrizione del fatto avvenne con la più totale confusione sicché, questo snocciola quattro imprecazioni e si affaccenda ad altre cose;  prendemmo armi e bagagli e si rifece il tutto dall’inizio: prima di fare l’ulteriore salto in acqua mi sporsi bene per capire quanta profondità c’era sotto di me.

Esperienza potenzialmente tragica, ma durante la notte quando non riuscivo a prender sonno ripensando ai fatti, mi dissi che questa è la dura vita del Lagunare “guerrier”!

Certo, gli “amati” imboscati in fureria o in magazzino, potranno raccontare quando si bucarono un dito con una graffetta, o quando prendendo sonno sulla macchina da scrivere, rischiavano di farsi male, sbattendo il naso sui tasti, ma sicuramente non potranno aver vissuto avventure come questa.

I tempi si fanno maturi per ripiegare in zaino anche la divisa di panno ed anche a quella do un mesto addio perché ci dicono che dovremo ritornare tutto il corredo a prescindere la divisa da libera che nel periodo di congedo sarà d’ordinanza.

Tutto d’un tratto le temperature diventano calde e piombiamo in anticipo, in un’atmosfera estiva.

Probabilmente perché non sapevano che altro farci fare, inventarono le gare di pattuglia.

Vari plotoncini di, mi sembra, sei Lagunari, da un punto A ad un punto B della campagna verso Aquileia, dovevano nel più breve tempo possibile fare il percorso inframmezzato di varie prove: che mi ricordi io, valutazione delle distanze, guado corso d’acqua, tiro (simulato) di bomba a mano SRCM, ed altre che ora non mi ricordo.

La prima pattuglia fu una vera fatica: un percorso che a parer mio doveva superare abbondantemente la quindicina di chilometri, in un caldo inusuale e sole cocente che rendeva ogni passo, una tortura; la cinghia del BM59 detto in gergo “Fal”, in qualsiasi posizione la mettevi, ti segava la pelle sotto la mimetica; gli anfibi di tela, usati pochissimo ed ancora rigidi in talune posizioni, producevano vesciche grandi come patate che poi scoppiavano in diretta e facendo poi sgorgare dalle povere martoriate carni, copiose fuoriuscite di sangue; le brache della mimetica anche se “accomodate” con lacci, si strofinavano sull’interno coscia, con effetti devastanti sulla pelle.

Il sudore poi, che sgorgava copiosamente, andava a rafforzare efficacemente questo processo corrosivo.

Il passo volutamente svelto (alla Lagunare si diceva allora), trinciava i polpacci, ed il plotone tendeva ad allungarsi nel percorso sicché, il sergente che comandava, doveva ogni tanto fermarsi e serrare sotto le fila perché sennò qualcuno sarebbe rimasto indietro e perso.

Io ero un camminatore medio, ed in genere in questi “rash” restavo a metà del gruppo; alcuni restavano anche a qualche centinaio di metri e solo promesse di terribili ritorsioni facevano loro da ulteriore sprone.

Notevole e stupefacente era invece l’andatura della “tuba” Gianni De Florio, un veneziano magro e minuto che con un passo forsennato, “tirava” indefessamente, apparentemente fresco e noncurante del caldo asfissiante.

L’orgoglio mi spingeva a non perderlo, ma gli sforzi erano inutili: con quel passo corto ma di ritmo diabolico, dopo qualche centinaio di metri, si allontanava in solitaria.

L’ho ritrovato circa un anno fa e naturalmente fisicamente molto cambiato (pure lui non riusciva a riconoscermi, giustamente direi), comunque sempre misurato, pacato e calmo… e come allora, “filosofo”.

Quando si effettuò la seconda pattuglia, pensai bene di proteggere i piedi dalle vesciche con un congruo numero di cerotti nei punti topici, e cavigliere di calcistica reminescenza, quindi la tracolla del fucile venne avvolta ed “imbottita” con materiale gommoso tenuto in sesto da una legatura di fortuna.

Le brache furono sistemate per bene ed accuratamente prima del via, per cui c’erano tutti i presupposti per un’ottima performance.

Il sole picchiava allegro, le pesche già sugli alberi si dimostravano invitanti, ma in agguato ci attendeva un complesso dilemma: attraversare un canaletto in qualche modo, o allungare sino a trovare un ponticello?

Consiglio del gruppo che valuta la situazione: bagnarsi voleva dire effettuare poi tutto il percorso con i piedi e forse gli indumenti bagnati quindi la cosa faceva presagire non poche “rogne”; allungare e passare dal ponte rischiava di farci perdere il tempo prezioso.

Si decise per allungare.

Per la miseria! Stringendo i denti e sbuffando come anime dannate, compimmo questo infernale giro, con una cadenza di passo allucinante, che penso se ora facessi una cosa del genere, mi ricovererebbero all’ospedale sicuramente: arrivammo senza fiato e ci sdraiammo sul ciglio della strada e per una buona mezz’ora nessuno più fiatò cercando di rientrare in se stessi.

Ritornammo in CM e in camerata facemmo l’inventario dei danni. Non uno era rimasto illeso: pure con tutte le precauzioni, vesciche e scorticamenti decoravano i corpi di tutti gli “intrepidi” pattugliatori; doccia gelida (anche perché questo era il solo sistema di farla), e tutti in riga per apprendere che siamo arrivati primi.

Urla e fischi e il Tenente Graziani è soddisfatto; certo aver “buggerato” gli assaltatori che ‘ste cose le facevano quasi tutti i giorni, fu un grande vanto.

In bacheca, la”tabella” famosa, poi fu esposto il comunicato ufficiale con tanto di nomi e cognomi e graduatoria: primi!

Fu una grande soddisfazione e confesso che non riuscii di far a meno questa volta, di appropriarmi di una cosa dell’Esercito; aprii subdolamente la bacheca e “requisii” lestamente il foglietto con tanto d’intestazione “Compagnia Armi d’Accompagnamento “Tobruk” ecc. ecc., e di timbro e firma del Tenente Graziani. “Reperto” che conservo tutt’ora tra i miei ricordi militari. In aria c’è odore di campo addestrativo, “i tiri” come in gergo si diceva allora. Sono prossimi e si andrà in zona montagnosa, si dice su per la Carnia. Ma questa è un’altra puntata.

San Marco!

Lagunare Dino Doveri.

 

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Subject: 18ª puntata "Racconti di naja".

Data: Mer, 22 Nov 2006

 

Ed eccola un’altra puntata: la 18ª che dovrebbe essere l’ultima secondo i miei recenti programmi di stesura.

Immagino la gioia e il sentimento di sollievo con le quali la maggior parte dei miei “amici” consociati accoglieranno tale notizia. Ebbene, proprio così non è; le puntate, lo ho deciso dopo ponderate valutazioni, saranno ventuno! Lo so che la notizia getterà i di cui sopra nella disperazione più nera, ma tant’é. Anche in funzione di quell’esiguo numero di comunque estimatori che più volte hanno incitato il prosieguo di questo diciamo così e con molta superbia, scherzo autobiografico. La diciannovesima vedrà il congedo.

La ventesima sarà dedicata al periodo del CAR, dove invece avevo volontariamente omesso di scriverne perché nella progettuale visione generale della cosa, questo momento di naja così lontano dalla realtà “lagunare”, mi appariva, ad una considerazione superficiale, poco interessante e troppo “canoistico” (i Lagunari m’intenderanno di certo…). Invece ora, quasi alla fine della fatica, ritengo che pure questo tragicomico periodo per certi versi e di grande impatto per altri, fu un’esperienza di tutto rispetto e vale la pena di tornarci sopra. La ventunesima puntata invece, dovrebbe articolarsi a guisa d’appendice e buone ultime, le considerazioni conclusive su quindici mesi di naja e questi quanto abbiano influito sul bagaglio di acquisizioni che poi tutta la vita mi sono trascinato dietro.

E come le vostre sveglie e frizzanti menti facilmente intuiscono, ci siamo: voci insistenti di campo estivo circolano con persistenza.  Gli informati che si “svenano” di lavoro presso uffici e furerie, portano la conferma che tira aria di “tiri” e di campo d’addestramento. C’è fermento nell’aria: si rinverdiscono le nozioni mortaistiche, si assiste al sermone di comportamento su il cosa, il come ed il perché si faranno le prove a conclusione del nostro addestramento. Si delinea che il prossimo teatro delle nostre imminenti gesta, sarà con molta probabilità ancora una volta il carnico e prealpino ambiente a servitù militare. Ed in quel luogo si svolgerà in buona sostanza, l’esame finale! Si controlla l’attrezzatura e si verifica che al corredo richiesto non manchi niente. Sicché, Anno Domini 1967, poteva essere giugno o luglio, si carica tutta la mercanzia in CM e si parte per imperscrutabili orizzonti di gloria. Destinazione: poligono naturale della Val Cellina, località Klaut.

Val Cellina mi evoca un termine dialettale delle mie parti con il quale viene – parlo degli anni ’60 – identificata l’azienda che distribuisce energia elettrica: "Celina” sta (stava), per quello che ora è “Enel”. Klaut ha assonanze con la ruvida e gutturale lingua teutonica e mi suona a guisa di Klagenfurt o Kurt; stabiliamo con la sicurezza e la proverbiale supponenza dei vent’anni, che il posto sarà senz’altro ai confini con l’Austria. Tuttavia c’è quel “K” dato per scontato e che in Claut c’entra come i cavoli a merenda, dicono gli intellettuali televisivi, e cioè: Klaut non è Klaut ma Claut…”ostregheta”!

Naturalmente scopriamo subito, consultando le ingiallite carte della Compagnia Tobruk, che proprio così si chiama il borgo che sarà teatro delle mirabolanti nostre gesta; trattasi di località sopra il Lago di Barcis, non molto distante da dove siamo. Peccato, si sarebbe potuto conoscere  misteriose contrade di frontiera ed invece una corsettina appena sopra Maniago e saremo arrivati sul posto che vedrà le nostre conclusive ed indubbiamente “epiche”, nonché sicuramente gloriose imprese di consumati mortaisti. Sta di fatto che l’entusiasmo è alle stelle e i Lagunari, come dice uno degli attuali Comandanti in servizio, “sono gasatissimi!” Bacio in bocca (da fuoco) il mio mortaione, lo depongo con delicatezza e cura amorevole in una cassa di legno color verde militare con un bel numero 1 bianco dipinto sopra, lo carico con i suoi fratelloni  nel mezzo di trasporto, mi piglio in armeria una Beretta mod. 34 con tanto di fondina e correggiolo (non il Fal questa volta per noi vecchi mortaisti, ma il buon vecchio Garand di onorata fattura statunitense: se ci fossero guardie da fare, seguirà per suo conto verso il Campo di tiro), e dopo aver caricato zaini e zainetti sul centro del CM, in una rutilante alba estiva, partiam, partiam, partiamo! La gente è allegra perché finalmente si va fuori della routine di caserma; discretamente compressi sulle panche del CM, con bagagli e attrezzature varie che protrudono da tutte le parti, qualcuno ha la rischiosa idea di dar dentro all’assaggio del micidiale “cordiale” di produzione militare, incandescente e caustico liquido venefico contenuto in bustine di plastica trasparente: l’indefinibile liquore, che comunque come gradazione alcolica era ben dotato, favorisce una raffica di cori di estrazioni ed origini le più disparate ed eterogenee.

Tra un “Se non ci conoscete guardateci sul basco…” che si concludeva invariabilmente con “Se la corrente elettrica è una corrente forte, chi tocca il Lagunare pericolo di morte – bombe a man e carezze col pugnaaaal!”, ed un “Allarmi! Allarmi! Siam congedanti! Un passo avanti…” e dove si cantava di un treno ricoperto di “fiori bianchi, tutto pieno di congedanti…”, verso il Lago di Barcis un reverente intervallo per ammirare un orrido dove un torrente con l’acqua più cristallina che si fosse veduta, aveva creato una meraviglia da gustare anche se “accalorati” da canti e libagioni  mattutine. Quindi come tradizione, un immancabile tributo alla “Fanteria” alla quale notoriamente capita che “e se la sposa, la sposa con onore, perché ch….ta da un  Lagunar!” Tiè! ‘Sta “fanteria” (e pure tutti sapevamo che noi pure c’eravamo dentro), in casa lagunare proprio non la sopportava nessuno; quell’àncora sul fregio…quel Leone di San Marco…avranno pure  significato qualche cosa…?! Verso la massima azione del cordiale ingurgitato, la vena malinconica faceva attaccare roba di molti anni addietro e quasi sicuramente un “Di la e di qua del Piave ci sta un’osteria, un osteria…” dove c’è da (haimè) bere e da mangiare...”.

All’apice dell’azione di raffreddamento, si concludeva con un quanto mai mesto “Era una notte nera nera, e tirava un forte vento, immaginatevi che grande tormento per un Lagunar fare il soldà” , dove la corretta dizione prevedeva al posto dell’errato “Lagunar”, un più appropriato “Alpin”. E via così sin che il cartello stradale di Claut ci dice che ci siamo. Subito prima di un ponticello di pietra, si volta a destra e ballonzolando su stradine tutte sassi e costeggiate da bassi e novelli alberetti di conifera, larice e latifoglio, ci depositano ad un tiro di schioppo dal greto, larghissimo e composto da ciotoloni e massi bianchi, del leggendario torrente Cellina parte integrante ci spiegheranno poi, del bacino idrico relativo al comprensorio del Meduna - Cellina. Il sole ha da poco fatto capolino sopra le alture crestate che circondano il luogo e l’aria è frizzante e secca.

Allestimento del campo. Brache corte, calzettoni ed anfibi e petto nudo, e naturalmente basco ben calcato sul cranio, riceviamo istruzioni dal Sergente Francis sul come assemblare una tenda per sei anime usufruendo dei misteriosi teli tenda e degli altrettanto misteriosi tubetti in metallo che ci trascinavamo dall’inizio della naja avvolti nella coperta allacciata al mitico zainetto tattico.

É la prima volta che, pur avendo già avuto esperienza di campi, mi e ci capita di dormire nella tendina che se ne ricava con questo sistema. Maraviglia delle meraviglie, i teli combaciano, i bottoni metallici si infilano nelle rispettive asole del telo tenda del commilitone coabitante “fratello di naja”. I tubetti metallici uniti ad incastro tengono in tensione e sollevano il tutto per davvero e orgoglio misto a soddisfazione, l’assemblaggio prende corpo; alcuni studi per “combinare” le due teste della tenda, “et voilà”, la superlativa progettazione tecnica del materiale militare, si rivela nella sua fantasmagorica magnificenza.

Pure le aperture/finestrine per guardare fuori della tenda ottenute con il buco ricavato per far fuoriuscire la testa dell’inarrivabile “poncho” che il telo tenda noi credevamo, avesse come unico uso e scopo. La bassa tendina così ottenuta, era anche bellina e orgogliosamente, scartando l’idea poco maschia e “guerriera” di ornare il tutto con qualche rametto di pino o orribile a dirsi, qualche ciclamino del sotto bosco vicino, qualcuno ci appese all’apertura un pezzo di cartone con la scritta “ ho tu che entri, baffo maledetto, abbandona ogni speranza!”, reminescenza di scolastiche scorribande nell’opera dantesca.

Il vecchio che per niente viene chiamato “vecchio”, e cioè alcuni di noi che hanno già provato a dormire sul duro terreno nudo e non fo' per dire ma "gente di mille primavere", approntano uno spessore di ramaglie di pino da coprire con i famosi fogli di plastica reduci dalla “Down Clear” di Bibione; il tutto attentamente sistemato sotto il micidiale “materassino pneumatico gonfiabile” di infausta esperienza.

Passiamo tutta la mattina affaccendati a tale impegno ed al rancio percepisco che le spalle mi bruciacchiano assai; nel pomeriggio i bruciori si fanno micidiali e delle belle bolle alte un dito, ovviamente messo in orizzontale, come da classica scottatura solare compaiono copiosamente sulle mie spalle: mi sono beccato da “mona”, una fantastica rosolata.

Manco riesco ad infilarmi la camicia per la libera uscita della sera. I solidali “fratelli di naja” che vedono tale scempio, invece di andar per trattorie, si precipitano in farmacia del paese a qualche chilometro e mi portano a casa (si fa per dire…in tendina insomma!), un tubone di pomata anti scottature che ancora ricordo, si chiamava “Vegetallumina”: una pasta bianca puzzolente e molto solida che a spalmarla  sulle martoriate carni, era un supplizio.

Il buon Dario Bari, che Dio l’abbia in gloria, pazientemente e da vero amico, con delicatezza mi spalma sulle spalle ‘sta pasta che non vuol farsi spalmare: la schiena diverrà tra urli ed imprecazioni, completamente bianca. Poi a pancia in giù affronterò la prima notte di sonno (quasi tutta veglia per la verità), in  quel di Claut.

L’indomani sento che i bruciori sono diminuiti notevolmente ma passando le dita sulle spalle, rilevo che bolle ed ipersensibilità sono ben presenti. L’eritema è al massimo del suo splendore.

Dopo i relativi riti militari della sveglia, ci comunicano che la mattinata sarà dedicata ad ambientarci con il mortaio in previsione della imminente sparatoria.

Vado in tenda che funge da armeria e dove il mio “mortaione” torreggia nel suo nobile e minaccioso gigantismo; imbrago il “tubo” nell’apposito sistema/zaino, e con l’aiuto del fratello di naja, con cautela lo appoggio alle spalle: dolore lancinante, lacrimazione, bruciore ed inevitabile rottura delle vesciche in corrispondenza degli spallacci!

Non ce la faccio!

Invece di marcare visita, mi viene in mente di dirigermi verso la tenda che funge da Comando di Compagnia con l’intenzione di evitare il medico per una simile puttanata, ma di chiedere al Comandante di Compagnia di essere esentato dal trasporto della “bocca da fuoco”, essendo quella  per l’occasione, la mia competenza nell’organizzazione del sistema/arma.

Haimè scopro che per quella esercitazione, il ruolo di Comandate di Compagnia è stato preso dal Capitano Canfora ed il Tenente Graziani passa a Vice Comandante.

Oramai la frittata è fatta e mi presento da quest’uomo che in me desta dall’episodio del Circolo Sottufficiali, una sensazione di disagio e anche qualche cosa d’altro.

Gli espongo i fatti, gli faccio vedere la scottatura che mi variega le spalle e chiedo di poter essere momentaneamente esentato dal trasposto del pezzo.

Come era oramai prevedibile reazione dell’uomo, egli prendeva subito una colorazione carminio/ violacea per poi degradare gradatamente, durante l’emissione del suo forbito eloquio da caserma, in un caldo color granata che poi si stabilizzava sul rosso porpora medio/chiaro.

Una sequela di considerazioni colorite a me rivolte in dialetto campano e probabilmente partenopeo, delle quali ricordo, quella meno offensiva fu un “…ma guarda se si può essere più coglione di così, chist’ so’ uomm e’mmerda…”

Tuttavia ne esco con un’esenzione per quel giorno, e la indiscutibile certezza che io e quell’uomo non avremmo mai potuto avere un punto di contatto.

Me ne sto tutto il giorno in tenda ed ogni paio d’ore mi faccio dare da qualche volontaria buonanima , una spalmata della miracolosa pomata.

Il giorno seguente è un giorno di transizione; il Sergente Francis mi evita ancora il trasporto e me la cavo con le paline ed il congegno di puntamento.

I bruciori tendono ad attenuarsi ma devo stare ben attento al calore del sole che pur attraverso alla giacca della mimetica, se non direttamente, ma ottiene dei risultati di tutto rispetto.

Tuttavia, visto che sono già due giorni che si va in postazione ma non si tira un colpo, e teniamo presente che questa era l’occasione ultima per “per dargli una botta” con ‘sto accidenti di mortaio, cominciamo a porci delle  motivate domande: ma si sparerà sul serio con la famigerata arma…o no?

Durante l’intervallo dell’ennesima sessione d’addestramento “in bianco”, decido di gironzolare dalle parti della postazione di Comando; chiedo al Francis che ne sa meno di me, tento con lo Sten. Bordon e qui colgo che c’è qualche cosa che non va.

Giracchio attorno Tenente Graziani, vedo che l’atmosfera è cameratesca e allora tento e la butto li: “ma Signor Tenente, quand’è che spariamo le bombe vere invece di fare il solito bum con la bocca?”

La risposta è più o meno questa: “ragazzi, forse se tutto va bene tiriamo qualche colpo con l’ 81; con il 120 sembrerebbe, anzi è certo, che le famose bombe Pepa manco le vediamo in fotografia!”

“Ma Signor Tenente” dico, “e tutto ‘sto impianto per non tirare neanche un colpo con il 120? Non ci credo!”

“Credici, credici” mi conferma Lui.

“E allora tutta la naja per imparare un  cosa che non faremo mai. Dodici mesi e mezzo di su e giù con il Mortaio da 120 per poi andare in bianco. Tutto: corso, esercitazioni, scarpinate e quant’altro, per niente?”, dico io.

“Amici miei, qui le cose da quel che ho capito io, stanno così: soldi per le bombe, e chissà per quante altre cose ancora, non ce ne stanno. Lo Stato non sgancia. Punto e basta”.

Mentre scrivo (novembre 2006) mi rendo conto che quarant’anni fa, già i finanziamenti per le Forze Armate, erano intristiti dei cronici tagli di spesa che pure attualmente vengono sofferti dal comparto militare e denunciati dai vari Capi di Stato Maggiore.

Ora con la figura del volontario e la diminuzione del personale, è cambiato tutto.

Ma è cambiato tutto nel senso “gattopardesco” del concetto e cioè “cambia tutto perché non cambi nulla!”

Mah!

Un senso di incompiutezza e di demoralizzazione ci assale. Qualche imprecazione, nei confronti dell’ “establishment”, considerazioni le più disparate ma assolutamente negative. Tutte.

Ci cuociamo per un paio di giorni sotto un sole impietoso, dentro a buche ricavate tra i sassi nel larghissimo greto del torrente Cellina; guardo triste la bocca del “tubo” che sembra mi dica “hai hai, hai; mi avete tradito! Manco una fiammata mi fate fare!”

Poi, visto che tutti avevamo capito che così sarebbe andata, i nostri Comandanti per far passare il tempo ci faranno fare delle mirabolanti scarpinate su è giù per le rive di ‘sto torrente, che alla sera s’arrivava al campo distrutti e demoliti.

Sempre alla facciaccia dei colleghi imboscati al fresco in qualche tenda o a spellarsi le natiche su qualche sgabello di fureria.

Domani mattina si va a fare “sgombro poligono” che poi sarebbe che si deve controllare che nessuno deve accedere a quel ghiaione perché li ci tirano gli 81.

La sera imbastiamo un programma dove si prevede una sontuosa mangiata in qualche trattoria di Claut.

Vado a lavarmi alla bellemmeglio con l’acqua del torrente; è ghiacciata!

Sollievo per la schiena ustionata ma per il resto… da farsi venire una sincope. Urlando e lavandomi a pezzi, nudo come un verme in bilico su di un pietrone, mi risciacquo il mitico sapone tutto fare della naja usando la gavetta d’alluminio ad uso rancio ed a pezzi riesco a compire l’opera; una saponata pure al cespuglio di corti capelli massacrati dal famigerato barbiere di battaglione, e mi sembrava d’essere tornato nuovo e pimpante.

Torno ciabattando verso la tendina; mi vede il Tenente Mangione del “Marghera”: “dove vai in quelle condizioni, minchione a tre punte?” scartavetra nei miei confronti l’Ufficiale.

Chissà cosa avevo che non gli andava datosi che a fine servizio tutti se ne andavano in giro per il campo conciati nei modi più diversi ed estemporanei.

“Stai punito!”

Vabbè…starò punito…Bho, non  mi chiede il nome e mi lascia così su l’attenti in mezzo al campo.

Se ne va. Mi guardo in giro: tutti sono affaccendati per andare fuori; ma vaffa…me ne vado in tenda e mi vesto per la libera.

All’uscita dal campo a passarti d’ispezione c’e lui. Si… il Mangione!

Mi metto in riga, questo passa, controlla, non mi riconosce o almeno credo, ci intima di limitare le coglionate d’uso e via… fuori!

Succede che a far le stesse cose che eravamo andati a fare noi Lagunari, c’era pure (spero che la memoria non mi tradisca nell’identificazione), il 151° Reggimento di Fanteria “Sassari” di stanza a Trieste: l’incontro avviene dopo una curva sulla strada che porta a Claut.

Accedono alla strada uscendo da un sentiero che porta al loro campo: quasi ci sbattiamo contro.

Loro hanno le mostrine bianche e rosse, non ci giurerei ma parlano in sardo ma poteva essere pure una parlata meridionale per quello che allora ne capivo io.

I baschi cloro cachi, stature bassine, carnagioni brune, divise smisurate, mal messi ed ingrugniti.

Siccome nessuno cede il passo, ci affianchiamo già guardandoci in cagnesco.

Il clima diventa elettrico in un baleno.

Certo noi, per quell’inveterata abitudine di ritenerci meglio, più belli, Lagunari poi…”della laguna la più bella gioventù”, con il bascaccio nero (in giro di baschi neri non se ne vedevano mai e quindi si pensava di essere gli unici a portarlo di questo colore), con le nostre “differenze” sulla divisa, il Mau al taschino, il volantino sulla spalla sinistra con i luccicanti distintivi d’incarico, le sole stellette alla camicia, quasi tutti muniti del bel cordone rosso-giallo – dai “vecchi” sino agli alti gradi -  tutti con le nostre scarpette fuori ordinanza, e loro… bruttini anzichennò, con degli scarponacci dissestati da marmittoni, la onde per cui succede che una battuta ne tira l’altra - come le ciliegie - loro rispondono in “lingua” ma i visi sono seri e decisi, si forma qualche capannello con la sana e convinta convinzione di addivenire allo scontro fisico.

Passa fortunatamente la campagnola nostra con tanto di ronda e quindi si riesce ad arrivare in paese senza spargimenti di sangue.

In trattoria, mangia, bevi, ridi, scherza purtroppo anche pesantemente da ambo le parti, intuisco la mala parata e propongo di cambiare aria; andiamo in una birreria e trascorriamo li il tempo della libera uscita.

Giunge l’ora del rientro e la logica vuole che ci troviamo loro del Sassari e noi Lagunari, sempre percorrendo la stessa strada del rientro.

Gli animi son caldi più per le bevute che per la reale antipatia.

In una piazzola incomincia la bagarre: uno da Sacca Fisola profferisce un classico “chi cani dei to’ morti!”, simpatico (forse), intercalare dialettale che di solito vuol dire “ma va la”, un Sassari intuisce invece la versione letterale e tosto appioppa una testata in pieno viso al veneziano; i nostri, più altini di statura, rispondono con precisi diretti al cranio e nello specifico al mento senza disdegnare le folte arcate sopraciliari che caratterizzano le fisionomie moresche della controparte.

In pochi secondi, c’è gente che si sta strozzando ai bordi della strada; cerco di defilarmi ma all’improvviso quando oramai stavo guadagnando il limbo, mi arriva una pedata a mezza coscia che mi toglie il fiato e mi fa inginocchiare per terra.

E’ buio profondo e la scena si svolge ad intuito, favorita dal chiarore degli astri che rabbrividiscono alla furibonda scena; percepisco che il “calciatore” è dietro di me in attesa del prosieguo.

La cosa è cinematografica. In ginocchio, con un dolore lancinante al muscolo della coscia, alzo velocemente il braccio per parare una seconda botta che mi sembra arrivare e fortuna degli innocenti… con forza colpisco il tizio proprio nei “pendenti”: questo si accascia e digrigna i denti intuisco nel buio dagli ululati, tenendosi i gioielli di famiglia nell’intento di lenire il dolore.

Rimane li per terra e per quanto mi riguarda me ne vado e si arrangi. Chi di spada ferisce, di spada perisce! Sassari Uno, Venezia uno!

La caciara continua financo l’arrivo precipitoso degli addetti alla sicurezza di ambo i reparti; io e gli altri amici già siamo a qualche centinaio di metri dalla bolgia incandescente ed alle nostre spalle si perpetra una bella “retata”in stile filmico: molti se ne finiscono direttamente in CPR per proprio conto nei rispettivi campi.

Concludo la serata disteso sul materassino tra un’imprecazione per le pulsazioni al muscolo della coscia, una litania per le sfiammate della schiena arrosto, ed un cantata favorita dalle abbondanti libagioni di poco prima, intonando le canzoni di allora, alla cow boy con tanto di chitarra, la mia fida Eko detta “Bruna” pervicacemente trascinata appresso per tutta la naja..

Arriva il Ten. Graziani, mi supplica di non distruggere con  la mia esecuzione, i padiglioni auricolari del prossimo, e visto che non la mollo, mi intima, pena l’indomani lo svuotamento delle latrine da campo. Il salutare ed immediato silenzio e…tutti a nanna.

Il mattino dopo, all’adunata, dopo la classica gamella di caffellatte e lignee gallette della Cric, troviamo ad attenderci il Capitano Canfora.

Aveva già assunto il caldo color violetto di quando era in sovra pressione, colore che caratterizzava la nobile espressione.

“Se succede che quando andate fuori la prossima volta, attaccate ancora briga con il Sassari, fuori non ci andate più!”. “Se qualcuno di voi rompe ancora le palle con quelli della Sassari, gli do tanta di quella CPR che va in congedo a Natale!”

Ci guardiamo e sapendo il caratterino dolce e bonario dell’uomo, i “vecchi” non aprono bocca; un “baffo” se ne esce con: “ma sono stati loro ad attaccarla e vuole che noi, che siamo quello che siamo, non rispondiamo per le rime?”.

Il Canfora strabuzza gli occhi ed il colore violetto si manifesta pure sulle labbra e sulle orecchie: “Perche, noi cosa siamo, di grazia?”

Quell’altro si fa coraggio e sicuro la butta li: “noi siamo Lagunari, la nostra storia, la nostra tradizione, siamo gli eredi delle tradizioni della Serenissima…i Fanti da Mar… e poi… loro sono terroni!”

Le vene del collo dell’ufficiale divengono gonfie e turgide, gli occhi tendono a fuoruscire dai rispettivi fori orbitali, ha un intorcinamento delle labbra, arrota i denti e sputa bava: “ ma chist’ cazz, coglione d’un “polentone”! Ma che cazz’ vuoi saperne tu di tradizioni e di storia! Ma lo sai che storia ha la Sassari alle spalle? Terroni sono? (lui mi sembra era campano); certo!”

“Certo, è vero che i terroni sono differenti di voi, anzi siamo differenti. Ma lo sai dove sta la differenza? La differenza sta sul fatto che voi pensate solo a lavorare da polentoni di “mmerda” ed invece noi terroni pensiamo a fottere! Capito bene: a fottere!”

“C’è qualcuno di voi “polentoni del cazz’” che deve replicare su quanto ho detto?”

L’occhio era cosparso di impressionanti venuzze sanguigne e le narici dilatate in attesa del polentone che replicasse.

E qui la sopraggiunta prudenza del “polentone di mmerda”, si dimostrò più produttiva del carattere sanguigno del terrone, perché tutti se ne stettero zitti e ben si ritenne che la cosa doveva decantare opportunamente.

“Questa mattina tutti una bella passeggiata su e giù per il Cellina!”

“Tenente, mi formi una Guardia che vada a fare “sgombro poligono” .

Lo Sten. ne piglia una decina, io tra questi, e quel giorno si va a controllare che qualche laborioso contadino friulano, vada a farsi centrare da qualche “pillola” da 81.

Mi agguanto il Garand, e con la campagnola mi portano sul luogo; mi schiaffano sul ponticello in pietra fuori dello sterrato del Campo; a lato una carrabile all’inizio della quale c’è una specie di sbarra, una pertica, chiude la stradina che fiancheggia un canalone che s’innalza verso la montagna. L’ordine è perentorio: nessuno deve andare oltre quella sbarra, neanche i paesani che vanno a fieno.

Possono passare solo militari del Serenissima!

Saranno le 08,30; comincio a ciondolare davanti alla sbarra. Passa poco tempo e si presenta il buon contadino friulano con tanto di gerla e falce per andar a fieno occorrente al bovino in stalla.

Gli spiego che non si può passare. L’ometto mi guarda malevolo e comincia una sfilza di imprecazioni impressionante; non capisco un’acca di quello che il nervoso ometto insiste a comunicarmi in stretta lingua friulana.

Cerco di esprimermi in italiano ma lui o c’è o ci fa, sta di fatto che la cosa si “inghippa”.

Piglio la radio che ho in dotazione e comunico la crisi nascente.

Arriva un nostro Ufficiale, cerca di convincere il tizio che li si stanno tirando “mortaiate” se pur da 81, ma questo niente! Sbraita e vuol forzare il “posto di blocco”.

Impugno a due mani il Garand e mi metto per traverso davanti alla sbarra; l’ometto brandisce minacciosamente la falce ed il sottoscritto se la vede brutta.

Tuttavia prudentemente e fortunatamente (per me), non emula la Nera Signora che recidendo teste limita la popolazione del Mondo, ma incazzato urla offese incomprensibili sino all’arrivo di due Carabinieri chiamati all’uopo, che lo convincono per quel giorno ad andar alla malga a far formaggi.

Scosso più che mai, mi ricompongo e mi accorgo che con ‘sta storia sono già passate diverse ore.

Ad un certo punto, sarà per l’emozione della scaramuccia di prima o sarà perché così doveva essere, ho un impellente necessità di espletare una funzione fisiologica; “Mai abbandonare il posto di guardia! Pena Peschiera o Gaeta!”

Quindi memore di tale norma, radiochiedo una momentanea sostituzione; di la mi dicono che arriva tosto uno.

Passa il tempo, la pressione aumenta ma di cambi non se ne vedono.

O macchiare la mia mimetica, o infischiarmene del regolamento e compiere l’atto liberatorio.

Opto per la seconda soluzione.

Appoggio il Garand all’interno dell’arcata del ponticello, m’inoltro sotto la volta e identifico un anfratto dietro un arbusto. Finalmente disbrigo l’impellenza.

Sono nel bel mezzo dell’opera, quando arriva la campagnola con il momentaneo sostituto.

In campagnola c’è anche il Tenente Graziani; vede il Garand appoggiato all’arcata del ponte e lo prende!

Tragedia! “Non si deve mai abbandonare l’arma!” Non mi ricordo più se la cosa era considerata “mancanza grave” e ripagata con la fucilazione sul posto, ma di cosa serissima comunque si trattava.

“Hao? Ma dove cacchio si è cacciato questo qua?”

“Son qui Sior Tenente. Mi scappava di brutto…”

Con la brache in mano, alla bellemeglio galoppo fuori da sotto il ponte e mi trovo il gruppetto in campagnola che sghignazza ed il mio Garand tra le mani del Tenente Graziani.

L’occhio è severo e l’aria è elettrica: “Sior Tenente, non ce la facevo più. Ho dovuto…ho dovuto...non c'era alternativa!”.

“Ma almeno potevi portarti dietro il fucile! Ma lo sai che potrebbero essere cazzi?”

Già il fatto che dicesse “potrebbero” invece che “sono”, è buon auspicio.

Attacco al solfa: “ho chiesto la momentanea sostituzione un’ora fa e io più di così non riuscivo a tenermi Sior Tenente… Ero sull’orlo dello svenimento dai dolori di ventre e non ci ho capito più niente ed ho ammollato il fucile dove mi è capitato…”

Come sempre faceva, il Tenente Graziani ti guardava dritto negli occhi per vedere se raccontavi una bubbola o se eri sincero. Ero sincero, pensò.

Mi lancia il Garand e se ne va in campagnola dove gli altri si sganasciano per la scenetta appena goduta; ormai è l’ora di rancio. La paura è passata e ringrazio Dio di aver provveduto ad assegnarmi un Comandante così comprensivo; la pancia brontola dalla fame ora, ma non arriva nulla.

Mi trascino verso sera, oramai non sapendo più come passare il tempo; ogni tanto uno si ferma a chiacchierare, ma di cambio nemmeno l’ombra.

Consumo una quantità industriale di Nazionali con Filtro, mi esercito nel tiro della baionetta contro un grosso albero, accendo al radio ma smenando colgo solo trasmissioni incomprensibili di coordinate per i tiri. Due palle…

I colleghi dall’altra parte della strada, affluiscono verso Claut per la libera uscita, la luna scompare dietro le creste rocciose e gli astri cominciano a luccicare (in qugli anni non c’era l’ora legale), nella volta celeste.

Dopo un’altra buona oretta, passa la campagnola a recuperarci: oltre dodici ore di guardia ininterrotta.

Dopo esserci precipitati alle cucine da campo a recuperare qualche fondo di pignatta, ci scaraventiamo in cuccia e partiamo per una dormita ristoratrice.

Prima della sveglia, cosa oltremodo sospetta, mi scuote il Sergente Francis: “hoè angioletti, sveglia e prepararsi a fare un’altra giornatina di guardia “sgombro poligono!”

Ma come? Me se ieri per tutta la giornata ci siamo “ingroppati” ‘sto cavolo di “sgombro poligono” senza neanche un intervallo…una turnazione, per più di dodici ore?.

“Guagliò, questo sono gli ordini, rapidi e prepararsi! Azione!”

Bestemmie a raffica. Uno la butta li: “ma il regolamento dice che non si può fare più di un tot di ore di guardia consecutiva (non ricordo i termini), in ventiquattrore e a noi ci rischiaffano un’altra volta per tutta la giornata a romperci i cosiddetti con ‘sta cazzata di “sgombro poligono!”

Ammutinamento!

Beh, ammutinamento no ma parlarne si…

Uno dice: “tanto mica ci ascoltano a noi. Però un’altra giornata intera di guardia è da suicidio”

Mi viene l’idea: dico “se fisicamente non ce la facciamo, vuol dire che non stiamo bene; e se non stiamo bene, significa che abbiamo dei disturbi fisici e quindi si prospetta la possibilità di marcare visita…”

Sei, che marcano visita (mai marcato visita in tutto il periodo di naja), sono sospetti, tuttavia pensiamo che qualcuno ci chiederà pure perché marchiamo visita.

Il regolamento parla chiaro (almeno spero che non mi abbiano raccontato una cacchiata).

Andiamo dal Caporale di Giornata e diamo i nomi per la visita medica.

Ci presentiamo dal medico tutti e sei e giù a spiegare che la faccenda di un altro giorno di guardia in quella maniera, non è giusto e non è corretto e manco previsto dal regolamento.

Il medico fa due più due e ci spedisce dal Tenente Graziani.

“Oh!? Ma che accidenti mi state combinando? Cos’è ‘sta faccenda che non volete eseguire un’ordine?”

Siamo li sull’attenti, nessuno parla, ma convinto dell’ingiustizia attacco io e spiego il prologo della torbida faccenda.

“Non muovetevi da qui che vado a sentire io com’è la cosa”, dice il Tenente Graziani.

Se ne parte di gran carriera verso il Comando e se ne sta via un’oretta buona.

Noi in tenda neanche fiatiamo e attendiamo di sapere quanti giorni di CPR ci ammollano questa volta.

Il Tenente Graziani ritorna, noi ci schiaffiamo sull’attenti e ci accingiamo alle dolenti note:

“siete esentati dal prossimo turno di guardia per “sgombro poligono” e… farete normale attività di Compagnia; adesso mi hanno sentito e imparino a mandare anche quelli delle altre compagnie… porca miseria!”

Non ci sembra vero. Ma non è finita li: “ma siccome queste cose un Lagunare non le fa, voi avete sbagliato! Non avete avuto fiducia nel comunicarmi  il problema; non avete avuto fiducia del vostro Comandante e se mi aveste serenamente detto della cosa, avrei agito in merito prima di questo casino che avete piantato, mannaggia a voi! Per mancanza di fiducia nel vostro Comandante e perché avete disobbedito ad un ordine…(immaginavo cose tragiche in arrivo), questa sera niente libera uscita e questa volta per passatempo andate a occuparvi delle latrine da campo!”

Un sospiro di sollievo, anche se le latrine da campo erano una vera prova infernale; tuttavia tra quello che ci capita e quello che poteva capitarci, la bilancia pende notevolmente a nostro favore, per cui visi più distesi e via a far chissà che  cosa.

La lezione fu importante, ma tutti noi capimmo che il nostro Comandante, il Tenente Graziani, ci aveva difeso e nel contempo ci aveva evitato guai grossi.

La mia stima e rispetto per quell’ Uomo con la “U” maiuscola mi permetto io di asserire, crebbe a dismisura e a tutt’oggi penso di aver trovato nella mia vita, pochissime persone di quello spessore morale .

Grazie per la lezione e “Comandi, Signor Tenente!”. Anche a quarant’anni di distanza.

Una paio di giorni ancora, è chiudemmo bottega; tiri a fuoco per quanto ne so io, con il mortaio da 120, il 2° 66 del Rgt. Lagunari “Serenissima” non ne fece e mai li farà.

Torniamo a Villa Triste per l’ultimo mese, mese e mezzo di naja .

Il traguardo è prossimo e la cosa ci mette di buon umore, tuttavia incomincia se pur molti di noi lo avvertano segretamente e non lo manifestino più di tanto, a profilarsi un certo clima di malinconia…

Ma come mi è oramai consueto uso per accomiatarmi…. questa sarà un’altra puntata!

San Marco!

Lagunare Dino Doveri.

 

 

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Subject: 19ª puntata "Racconti di naja".

Data: Ven, 29 Dic 2006.

 

Conseguentemente al progetto di procedere alla chiusura dei “racconti di naja” delineato nella precedente puntata, vi propongo l’ultima tranche delle mie vicende propriamente “lagunari”. E’ la diciannovesima e sarà dedicata all’addio ai sacri suoli.

Non so come impostarla questa puntata; fatti degni di nota non me ne ricordo o non ne avvennero.

Si tirava a campare in attesa del giorno fatidico.

Scrivendo queste righe, strada facendo mi sforzerò di rovistare nella memoria.

L’estate era splendida e qualche “passeggiatina” su è giù per la campagna friulana si riusciva ancora a portarla a termine: delle pattuglie mica male e sempre infarcite di percorsi lunghi e polverosi, ma mitigate da un’aria di sbaraccamento.

Più che a piazzarsi secondo gli standard competitivi o ad arrivare primi, si pensava a trovare un buon albero frondoso dove sotto la sua ombra, fagocitare la bella e fragrante frutta che qualche agricoltore locale avrebbe pianto.

Le calure estive inducevano a fine del servizio pomeridiano, ad una bella doccia ristoratrice naturalmente fredda e rinvigorente, alla fine della quale ci asciugavamo con il mitico “telo-asciugamano” una telaccia dura e cartavetrosa dai molteplici usi. Poi la libera uscita a ciondoloni in giro per le vicinanze.

Contrariamente al periodo invernale, dove la doccia, calda naturalmente, era un lusso ed era concessa una volta la settimana, d’estate ci lasciavano sguazzare senza limiti e tempi determinati; tutti capivamo che tanta magnanimità e senso dell’igiene, era dovuto al fatto che l’acqua non doveva essere scaldata e quindi consumi di combustibile non ne avveniva e l’acqua (fredda), si supponeva, era un costo sicuramente abbordabile dall’amministrazione militare.

Quando si finiva la doccia dopo una giornata di copioso sudore, era bello sedersi all’ombra sulla pensilina delle compagnia ed attendere l’ora della libera uscita, godendosi belli lindi di bucato e rinfrescati, un momento di pace e tranquillità: si chiacchierava dei futuri programmi, di cosa da civili avremmo voluto o potuto fare. Molti progetti ed un’ondata di sogni e di successo.

Non era tutto roseo quel che si prospettava: chi non aveva un lavoro o non era specializzato in qualche cosa, chi prima della naja aveva lasciato una situazione incerta e si sarebbe trovato ancora nella stessa situazione di prima della partenza. Per molti in conclusione, le cose erano molto nebulose e freddamente incerte.

Si era contenti si di finire la naja, ma nel contempo si era pure timorosi per quello che ora dopo il congedo ci attendeva.

Durante queste pause in uno di questi tardi pomeriggi estivi, seduti tra le scale che portavano in camerata, la pensilina e la scaletta che discendeva sui binari, ci si stava appunto scambiando pareri e timori, suggerimenti ed impressioni, quando se ne esce dal magazzino di Compagnia il Maresciallo Lo Cascio. Non pensavamo, data l’ora, che ormai ci fosse rimasto qualcuno in Compagnia.

Si parlava ad alta voce ed il Maresciallo aveva, attraverso la finestra aperta del magazzino, sentito tutto il nostro discorrere.

Per la prima volta lo vediamo sorridere e il piglio è, invece del solito burbero e ruvido porsi, più morbido e accomodante.

“Eh, ragazzi miei…certo che adesso per voi “l’hè dura”; se volete un suggerimento, chi non ha prospettive concrete di lavoro che lo aspettano a casa, ha mai pensato di mettere la firma nell’Esercito?” Ci si guarda in faccia piuttosto sorpresi e perplessi: difatti ogni tanto se ne era pure parlato. Il Sergente Francis più volte ci aveva illustrato che la cosa non era poi tragica come noi ritenevamo; da “firme” le cose cambiavano notevolmente e poi la vita militare non era poi questa tragedia che inizialmente ritenevamo.

Ma troppo avevamo sognato di finire ‘sta vita inquadrata e scandita da regolamento, ordini e comparti predefiniti d’autorità, da altri.

Noi sognavamo per l’immediato futuro, di far bene e far bene sopratutto da civili.

Il Maresciallo Lo Cascio però prima di andarsene quel pomeriggio, disse la frase immortale: “Voi pensate che con il congedo i vostri problemi siano finiti, che le cose saranno senz’altro migliori solamente per il fatto che non avverranno più nel contesto militare. Io invece vi dico, e vedrete che per molti di voi avrò ragione, dopo il congedo incominciano veramente le cose serie della vita! Tra qualche anno se avremo occasione di rivederci, mi direte…mi direte…”

Mai frase come quella fatidica del Maresciallo Lo Cascio fu così centrata e mi rincorse così spesso nei pensieri successivi, da “borghese”. I “cavoli amari” erano in agguato dopo il congedo e non prima; quasi tutti in quel momento non lo sapevamo e ci interessava solo di varcare il fatidico portone per l’ultima volta.

Ah si, è vero…mi dimenticavo di Monfalcone e del “buco”.

Per cui una sera si profila la possibilità, dato che il Dario ha portato da casa la fida e sgangherata 600, di andarsene a zonzo fuori distretto.

Già a Grado l’avevamo rischiata bella, certo era che così, con il macinino del Dario, l’autostop non si sarebbe attuato giammai e quindi i pericoli diminuivano notevolmente e la possibilità

dell’incontro devastante con il Tenente Di Benedetto detto Kriminal, si riduceva ai minimi termini.

Quindi si decide e quella sera si va a Monfalcone.

Luogo in cui nessuno di noi era mai stato e anche se naturalmente non si sarebbe trovato chissà che, era pur tuttavia una novità nella lagna di vita da caserma che oramai era diventata piatta e noiosa.

Belli e stirati, tirati “a rajo” dicono in Veneto, ci involiamo con la sputacchiante 600 blu scuro, alla volta della rivierasca città caratterizzata da numerosi e storici cantieri navali.

Una volta arrivati, si ciondola su e giù, si cerca di attaccare bottone con qualche ragazza: i tentativi naufragano uno dietro l’altro e perché si è compreso che le ragazze diffidano dei militari, e anche probabilmente perché nessuno di noi tre, il Dario, il Gianni ed io, eravamo campioni di bellezza virile: non eravamo “fighi” si direbbe adesso ed in verità eravamo dei normali, ne belli ne brutti; si faceva quel che si poteva ma certo è che le fanciulle non è che cadessero stecchite al nostro proporsi.

Ci voleva tempo e metodica…

Almeno…nelle immediatezze.

Si giracchiò a zonzo qua e la, e come sempre ci si cacciò dentro una qualche trattoria e dopo il giusto rifocillamento, si pensò bene di guadagnare il rientro visto il tempo appena sufficiente.

Sul forsennato filo dei sessanta all’ora, velocità consigliabile la onde escludere grippamenti e fusioni varie, l’asmatica 600 comincia qualche centinaio di metri prima del ponte sull’Isonzo, ad andarsene a zig-zag.

Capiamo subito che abbiamo forato! Ruota anteriore sinistra!

Manca un quarto d’ora al rientro.

Ci fermiamo con il cerchione quasi a vivo sull’asfalto, davanti ad una osteria e ci apprestiamo a sostituire la ruota.

Il Dario apre il cofano anteriore dove nella 600 alloggia la ruota di scorta e …tra mille imprecazioni si prende atto che della ruota suddetta…nemmeno l’ombra!

Succede che il buon Dario aveva cambiato una lampadina la settimana prima e vai a capire il perché, l’elettrauto leva la ruota e evidentemente si dimentica di ripiazzarla al suo posto.

Immane tragedia!

Il cric e la chiave ci sono per cui leviamo intanto la ruota bucata, ma poi cosa fare mica ci era chiaro.

L’orario è tale che tutti i luoghi deputati ad una possibile riparazione della gomma sono già chiusi da tempo.

L’orologio ci dice che siamo già fuori orario. Tristemente valutiamo che ormai da “vecchi” congedanti, ci appiopperanno una punizione da leccarsi le orecchie.

La necessità aguzza l’ingegno. E come sappiamo, se l’ingegno delle persone normali è buono, é manifesto e risaputo che l’ingegno dei Lagunari è eccelso.

Sopraggiunge una seicento color verde oliva chiaro e ne scende non senza difficoltà, un ometto dal naso paonazzo e dalle guanciotte rubiconde assai, l’occhio acquoso e la risatina significativa ed arguta di chi non si è risparmiato in libagioni.

Si ordina una misura da mezzo litro di “blanc” e si siede sui tavolini esterni dell’osteria; da li ci osserva armeggiare con la ruota e tirare moccoli in varie configurazioni.

Gli sguardi s’incontrano e io penso che lui anche se parzialmente ottenebrato dai “tajut”, avendo una seicento già si è fatto un ragionamentino coerente.

Lo stesso che ho fatto io.

Mi dirigo dal tizio e ispirato attacco: “senta egregio signore, lei abita da queste parti?”

Non ve la faccio lunga e quindi vado al sodo dettagliandovi che dopo due mezzi litri offerti di tasca nostra, l’ometto più ridanciano ed ingarbugliato che mai, apre il cofano e ci presta la sua ruota di scorta; domani sera dopo le opportune sostituzioni, il Dario provvederà a riportare la ruota in osteria dove l’oste la conserverà per renderla al nostro allegro benefattore.

Buttiamo su la ruota ringraziando l’ometto che ancora mi ricordo, ci confida di chiamarsi Teonisto  (e come si fa dimenticare un nome così), e ringraziando pure il dio Bacco di cotanta collaborazione, e toccando vette oltre gli ottanta all’ora, giungiamo incuneandoci ad incastro, nella stradina dove la 600 è normalmente parcheggiata vicino alla “A Bafile”.

La stradina costeggia il perimetro della caserma e uno dei due amici, il Gianni De Prà dei due mi sembra, ha il lampo di genio che nella rete metallica di recinzione ci dovrebbe essere il famigerato “buco”.

Per “buco” intendasi apertura proditoria di fortuna atta al rientro fraudolento fuori orario dei Lagunari ritardatari.

L’alternativa era il rientro attraverso la porta principale ed automaticamente una botta di punizioni oltremodo sgradita ed inappropriata per il nostro amor proprio di “vecchi” già “borghesi” ed anche se vogliamo, di per se oltraggiosa.

La logica immediata c’indirizza al “buco”.

E’ buio, a fatica radendo la rete metallica con le mani, individuiamo l’apertura, guardiamo in giro oltre la recinzione per quanto si potesse vedere nell’oscurità totale, e via…si passa attraverso la rete.

Io sono l’ultimo dei tre e non appena metto suola sul sacro territorio lagunare, da dietro una baracca si accende il raggio di una pila e perentorio e proferito da voce familiare giunge un secco “fermi la signori miei!”

Porca la miseriaccia!

Come baffi. Tali a baffi novellini. Peggio dei baffi… in quanto “noni”.

Ed il bello è che accompagnato da altri due Lagunari di servizio, a “sgamarci” è proprio, la voce mi aveva fatto presagire la dura realtà, il nostro Comandante di Compagnia, il Tenente Graziani!

Inizia una sequela di cazziatoni che noi in veneto traducevamo in “ciapar a carne”.

Ma porca la peppina! Mi risulta che tre quarti del Battaglione  “Isonzo”, dal “buco”, va dentro e fuori dalla caserma forse di più che dalla porta principale; tutti vanno e vengono senza essere mai beccati, e vuoi vedere che proprio noi sempre attenti a non fare cazzate, l’unica che abbiamo fatto ci triturano ben bene?

Mi viene un moto di spavalderia inopportuna e poco adatta alla situazione.

Lancio li: “E va ben Sior Tenente. Oramai siamo “noni”. Non sarà mica la fine del mondo… e poi siamo già “borghesi”…civili…”

Mi arriva una manrovescio (anzi mandritto), che mi lascia impietrito sul posto. Ancora brucia sulla guancia sinistra!

L’indole avrebbe dettato una reazione, ma la ragione ed il rispetto che avevo per il mio Comandante m’impongono la calma e mi fanno solo massaggiare la guancia arrossata per cotanto impatto.

“…e ringrazia Dio che sono di luna buona! E ancor di più ringrazia Iddio che se c’era il Tenente Di Benedetto vedevate voi “borghesi” di che colore è il cielo dietro le sbarre. Via in camerata di corsa e senza rompere i cosiddetti!”

La botta è dura da assorbire ma senza indugi e con la coda tra le gambe, ce ne andiamo in camerata.

Io sento una rabbia sorda che mi macina le budella: pigliare uno sberlone di quella entità senza ritornarlo al mittente? Era dura a mandar giù.

Non riesco a pigliar sonno: mi rosica. Poi calmandomi e cominciando a ragionare a mente fredda, stabilisco che: effettivamente eravamo noi in torto. Se ad aspettarci invece di Graziani c’era Di Benedetto o altri, senza dubbio la cosa sarebbe divenuta seria. Ma non seria poco: seria mooolto.

Che non avessi compreso lo stato d’animo dell’Ufficiale e la sua reattività alle mia battuta da “smargiassetto” era evidente. Poi dovevo anche mettere sulla bilancia che il Tenente Graziani non aveva preso nei nostro confronti nessun provvedimento disciplinare.

Era il “manrovescio” che dava fastidio più che altro.

Il Dario mi fa: “certo che l’abbiamo scappata bella. Pensa se c’era qualche altro Ufficiale…” era vero. “Ma dai! Non incazzarti! Forse che tuo padre per farti comprendere con più efficacia quando ne fai una sbagliata, non ti ammolla qualche ceffone ben assestato?”.

Il buon Dario era un filosofo e progenie come quasi tutti noi, di coppie nate agli albori del secolo, dove per rafforzare gli insegnamenti, i buoni genitori all’antica, corroboravano i dogmi educativi con qualche ben assestato ed amorevole sganassone.

Il babbo erano diversi anni che mancava ma, per la verità gli insegnamenti me li aveva tonificati con qualche (molti), sonori e ruspanti schiaffoni di una volta.

Ragionando in tali termini, la rabbia per il torto subito andava ridimensionandosi e tant’è che il giorno dopo, valutando tutte le “rogne” che il Tenente Graziani ci e mi aveva risparmiato, vedevo la “lecca” sopraggiunta, addirittura con riconoscenza.

E oggi dopo tanti anni, non mi vergogno assolutamente nel dire: “grazie Signor Tenente!”.

Grande personaggio il mio Comandante; anche quando menava fendenti!

Qualche settimana dopo, durante il rancio di mezzogiorno, si presentano in mensa il Comandante di Battaglione Colonnello Mazzarella ed il Tenente Zitter. Il Comandante di Battaglione era l’autorità massima data a conoscere. Sapevamo di un Comandante di Reggimento al Lido di Venezia, ma questo per noi era figura astratta, leggendaria e per altro, evanescente e quasi sacra: mai lo avevamo visto e ritengo che molti di noi sospettassero che, o aveva l’aureola o addirittura si trattasse un’entità trascendentale.

Comunque il fatto di essere a contatto con il Comandante di Battaglione, era cosa inusitata ed inconsueta; mai lo avevamo visto alla stessa nostra stessa altezza.

Visto pochissime volte in occasioni speciali dove ci arringava da una pedana e altre volte ci esaminava, sempre dalla pedana famosa, quando alla mattina, reazione fisica si chiamava, ci si impegnava in pieno assetto di combattimento, in corse forsennate sul perimetro della piazza d’armi.

Quindi, figura vista da noi sempre dal basso verso l’alto; nel frangente attuale, allo stesso piano: strabiliante e sbalorditivo!

Su di un carrello della mensa ci mettono un paio di scatole e, traendole da quelle e sfilando tra i tavoli, il Comandante Col. Mazzarella ci consegna uno per uno, una medaglia bronzea che ancora conservo. Da una parte c’è effigiato il Mau e la scritta “Reggimento Lagunari Serenissima” e dall’altro lato il fregio lagunare ed il motto “Come lo scoglio infrango, come l’onda travolgo”. Ed uno per uno, cosa straordinaria ed inaspettata, il Comandante ci stringe la mano e ci indirizza uno stringato “Auguri!”

Quando se ne va, siamo tutti a bocca aperta e ci rigiriamo pensando chissà a che, la medaglia che vale quattordici mesi di naja. Di naja nei Lagunari. Nei Lagunari del Battaglione “Isonzo”. Nei Lagunari del Battaglione Anfibio “Isonzo” del Reggimento Lagunari “Serenissima”!

Oserei dire: mirabolante e stupefacente!

La cena dei congedanti, rigorosamente organizzata al “Ragno d’Oro”, ci occupa per giorni: si raggranella qualche lira con la “vendita” ai baffi delle solite puttanate tipo “squadrazaino”ed “attaccapanni tattici”… e varie; si recupera quel che a nostra volta i nostri “vecchi” ci hanno estorto d’autorità.

Alla cena dei congedanti e non mi ricordo per quale motivo, il Tenente Graziani non è presente ed in verità non lo vedrò più e me ne dispiace perché avrei voluto ringraziarlo. Anche della sberla, ebbene si! E la mia non è piaggeria ne vigliaccheria: è rispetto.

C’è lo Sten. Bordon e lo facciamo diventare matto tra frizzi e lazzi. Una ciucca memorabile mi offusca i ricordi ma rimembro benissimo che tra le altre cose si mangiò anche peperonata…

Dopo il fatto delle medaglie, capiamo che la va a giorni.

Incominciamo a scambiarci indirizzi, numeri di telefono; “dove ti trovo?”, “come arrivo a casa tua?”, “guarda che vengo a trovarti”, “se hai bisogno mi trovi qui”,  e così via, rinverdendo progetti, pronosticando fortune, augurando successi e figli maschi.

In effetti l’aria è elettrica, le pazzie aumentano, qualche baffo se la vede brutta, qualche “vecchio” rischia Peschiera, ma tutti cogliamo in quell’atmosfera euforica, una vena di malinconia: non si vedranno più le facce di quei pirati che hanno condiviso gli spazzi d’ogni giorno; quei brutti musi con i quali abbiamo corso, sguazzato nel fango, faticato, sudato, tremato dal freddo e sbuffato dal caldo assieme. Non vedrò più la barbona del Sergente Francis, non sentirò più le battute salaci del Tenente Graziani, non vestirò più la mimetica divenuta oramai una seconda pelle, non calzerò più gli anfibiacci mutati per l’uso, da ignobili e rigide scarponacce a morbidi e confortevoli calzature. Non vedrò più il Mau appuntato al petto o sui polsini, non calzerò più il nero basco con il bel fregio dorato, ne mi allaccerò più al collo lo straordinario fazzoletto con il “Leon”. Vado in armeria e mi saluto con una carezzina, senza che nessuno mi veda, per carità, il mortaione che tanto mi aveva fatto sbudellare. Do un’ultima scarrellata al Fal detto tipo “Alpino” (fucile automatico leggero), mod. BM 59.

Non lo do a vedere ma sento che queste cose erano divenute parte di me stesso. Per sempre.

Una bella mattina ci leggono gli elenchi e ci danno la data della partenza.

Io sono arrivato al CAR con un giorno di ritardo e quindi tutti gli altri se ne andranno via ed io dovrò attendere un giorno in più: andrò via da solo, porca la miseria.

Consegniamo il corredo: c’è tutto. Al Maresciallo Lo Cascio viene in mente di misurare il cappotto.

Il cappotto non è quello che mi hanno dato al Car, ma l’ho scambiato con un vecchio al “Marghera”: infatti essendo il mio grande ed a lui andava bene, ed il suo più stretto e piccolo e quindi si adattava meglio alla mia figura le cose combaciavano. Mancano tredici centimetri di lunghezza da quella annotata nel libretto di assegnazione corredo.

Il Maresciallo Lo Cascio tira una susina e mi ventila il progetto di farmi pagare il cappotto; io faccio la faccia del cane bastonato e guardo contrito il pavimento.

E chi li aveva i soldi per pagare il paltò?

Si vede che ho l’espressione che fa pena, ed infatti il Sottufficiale mi manda a quel paese e scaraventa nel mucchio dei paltò accatastati in mezzo al magazzino anche il mio: tutto in ordine!

Non mi lasciano nulla se non la divisa estiva che indosso: non porterò a casa nulla in più che la camicia, cordone rosso e giallo, volantino da spalla con distintivo da mortaista, cravatta, pantaloni con cintura, un paio di calzini, un fazzoletto da naso, il basco. In borsa trovano posto, una canottiera della naja, due Mau da polsino in plastica e due in stoffa fuori ordinanza, il fazzoletto da collo, due stellette metalliche fuori ordinanza della giacca a vento, due bossoli inerti di 7,62 Nato ed uno di 12,7, una linguetta della bomba a mano SRCM, il najometro scrupolosamente compilato, un abbozzo di “stecca” in primo abbozzo intagliato su una porzione di manico di scopa nelle fredde e lunghe notti invernali. Poi mai completato.

Gli scarponcini da libera uscita li lascio al baffo che i suoi li ha dovuti dare ad una “tuba” rompiballe ed uso le scarpe fuori ordinanza.

I “fratelli di naja” quella mattina sono già desti prima della sveglia: l’euforia li contagia mentre io sono un po’ sotto tono. In mensa si scambiano le ultime battute, i saluti, le promesse di rivedersi. Salutano i vari Ufficiali e Sottufficiali, (dicevo sopra che il Graziani non c’è), abbracci seri e pacche sulle spalle commoventi: sta terminando uno spicchio di vita.

Quando vedo i miei “fratelli di naja” inquadrati per il fatidico oltrepassare per l’ultima volta la porta della caserma mentre io me ne sto dentro, mi piglia un groppo e la malinconia mi attorciglia le budella.

Un ultimo saluto dalla recinzione e poi vado a sdraiarmi in branda. Guardo il soffitto e cogito in un’atmosfera lugubre.

Passerà anche quel giorno e domani toccherà a me.

L’indomani saluto a mia volta le “tube” ed i “baffi”; il mio baffo mi da la mano ed il commiato è in buona armonia. Per lui tutto sommato è andato bene ed il suo è stato un buon periodo da “baffo”.

Guardo la branda e la camerata. La scala, la pensilina della Compagnia, la piazza d’armi con il pennone della bandiera. Foto indelebili nella mente.

Vado alla porta dove le “tube” di guardia mi salutano con invidia e…me ne esco per l’evento conclusivo.

Mi volto e l’occhio è attratto come la prima volta quando arrivai a Villa Triste, dalle colonne del cancello, dipinte in strisce rosse e gialle: mi debbo sforzare di pensare al rientro, ma mi sento a disagio.

E’ dunque tutto finito. Di colpo.

Arrivo a casa in tarda mattinata di una splendida giornata dell’ agosto del 1967; scendo dall’autobus e subito vado a pigliarmi il caffè nel bar dove ci si trovava sempre con gli amici del paese: non vedo nessuno; ostento la divisa con l’orgoglio d’indossarla ma anche con la malinconia indotta della consapevolezza che sarà l’ultima volta che porterò addosso quelle vesti.

Arrivo a casa, piglio una scatola da scarpe vuota e con delicatezza ci metto dentro il basco,  piego a triangolo ed accarezzo il fazzoletto con il “Leon” e lo metto sopra il basco con religiosa attenzione; sistemo i Mau in una scatolina con il resto dei “cimeli” e chiudo con il coperchio.

Mia zia mi chiama per il pranzo. Prima di scendere mi affaccio al balcone e luccicante di sole estivo guardo la laguna che si scorge in lontananza.

San Marco!

Lagunare Dino Doveri.

 

 

  
  

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Subject: 20ª Puntata.
Date: Dom, 29 Lug 2007

 

Contrariamente alle precedenti, questa e cioè la puntata conclusiva, sarà succinta e per i miei standard, breve. Invece di diffondere e “rivelare il verbo”,  pseudo dogmi o improbabili morali, laddove anche fossero tutto sommato attendibili, mi rendo conto che mi suona questa, un’operazione discordante, poco opportuna e per nulla indicata dato l’argomento nel quale ci si potrebbe perdere in sabbie mobili sempre in agguato. Mi accontento invece per articolare la conclusione, di prendere spunto da un pensiero espresso in una e-mail giunta al Sito e riportata nella rubrica “Chi ci scrive”.

La lettera è a firma di Carlo Bassani, II° 68, un annetto circa dopo di me.

Egli tra la altre cose dice: “Vi garantisco ragazzi che ne abbiamo combinate di tutti i colori, dagli sbarchi notturni a Casalborsetti, al comprensorio della caserma Bafile, ma era solo addestramento! Di certo non si trattava delle eroiche operazioni dei nostri Lagunari di oggi. Sono molto orgoglioso di appartenere ad un corpo così prestigioso – dico appartenere perché un Lagunare rimane Lagunare tutta la vita!”

Per terminare i miei racconti, io non so proprio cosa potrei dire in più della frase formulata dal commilitone Bassani.

E’ una frase che dice tutto.

Che si siano vissute cose per certi versi formidabili, è un fatto inconfutabile.

Che gli addestramenti, la vita lontana dalle “mollezze” di casa, le esperienze maturate, siano state importantissime, non v’è dubbio.

Sicuramente poi, durante quel periodo si è cominciato a capire le cose della vita, a parare i colpi bassi, ad arrangiarci nelle difficoltà. Una bella ed efficace scuola di vita, non c’è che dire.

Personalmente, io che amo l’avventura (oramai haimè, non c’è più l’età ed il fisico… e la “panza” incombe…), ho vissuto momenti irripetibili, che mi gasavano e mi trasmettevano lampi e sferzate d’adrenalina: sensazioni impagabili.

Certo è che in confronto a ciò che viene vissuto dai Lagunari d’oggi, Bosnia, Kossovo, Iraq, Libano, le nostre se proprio goliardate non erano, ma certo nella maggior parte delle occasioni, ci si avvicinava molto.

Però pensando a  frasi del tipo: “noi che abbiamo fatto il militare veramente, noi che abbiamo fatto questo… noi che abbiamo fatto quello…si però vuoi mettere noi… però qui, però là…”, debbo schierarmi con un’ intendimento ben preciso. Le pallottole non le abbiamo sentite saettare a pochi centimetri dal nostro corpo; non abbiamo scrutato fino a lacrimare cercando con gli occhi di forare l’oscurità della notte, nel buio in pattuglia su un VM fragile ed inadeguato, dove le parole non potevano essere pronunciate perché la bocca secca di paura e lo stomaco attorcigliato lo impediscono; non siamo stati fatti segno di bombe da mortaio e di rpg e di quant’altro ben di Dio.

E per non buttarla in retorica e stare più terra terra, non abbiamo boccheggiato dall’interno di un AAV7 o appena riparati da un muretto di fango con 64 gradi di calore negli anfratti cotti dal sole di Nassiriya, o rischiato il congelamento a temperature di - 5, -10, -18 nella notti in Check Point sulle alture attorno a Djakovica o Pec.

Ed ancora pensando a certi paragoni, mica siamo stati a migliaia di chilometri lontani da casa, dalla famiglia, dai nostri affetti più cari, per mesi e mesi: per la maggior parte di noi, quando ci andava male si rientrava una volta alla settimana a casetta nostra che distava dalla caserma il massimo una ottantina di chilometri od un’ora e mezzo di auto per i più distanti.

E per molti invece c’era un venti minuti d’autobus e/o una mezz’oretta di motoscafo.

Quindi la nostra esperienza, la mia, quella di tutti noi della leva, è stata sicuramente onorevole e produttiva. Certo è che deve essere collocata una galassia lontano a ciò che hanno vissuto i nostri “nipotini baffi” di adesso.

Perciò diamo il giusto ed equilibrato valore al nostro passato di naja e consideriamo con altrettanto equilibrio e rispetto, le cose vissute dai Lagunari di oggi.

Il reclutamento locale è un discorso poi, che a prescindere dall’indubbio vantaggio di chi in laguna ci ha sguazzato sin da piccolo e quindi familiarità con i luoghi, che non lo prendo neanche in considerazione e non mi ci voglio neanche cimentare.

Molti che mi conoscono sanno come la penso nel riguardo dei “campanilismi” e degli “orticelli” vari.

Certo è facile pronunciare frasi “ non è più come una volta!”, “noi non facevamo orario da dipendenti statali!”, “Non c’è più il clima e la severità di allora!”; in effetti potrebbe ed anzi sarà tutto vero, però, però…sarò anche stucchevole e fissato ma noi non abbiamo mai fatto la funzione del bersaglio a migliaia di chilometri da casa.

A nostro suffragio dico: saranno stati anni in cui appartenere ad una entità per certi versi leggendaria come i Lagunari, ti trasmetteva orgoglio e fierezza ed ora forse, ripeto forse, la società è più “scafata” e di valori ne sono rimasti pochini… tuttavia dico parafrasando il pensiero del commilitone del II° 68, nessuno più di noi convive con la  certezza  dell’affermazione “Lagunare una volta, Lagunare per tutta la Vita!”

Mi ero preparato "un’omelia” di chiusura dove davo i voti alle cose, ai fatti ed alle persone, dove con poco trasporto mi arrovellavo di fare confronti, rapporti e proporzioni con l’attuale e le nostre cose di allora; e mi solleticava d’inerpicarmi in considerazioni (para)filosofiche.

Ci ho lavorato sopra parecchio ed ho più volte impostato il brogliaccio: non mi piaceva e quindi ho reimpostato; non convinto ho brutalmente cancellato parecchie volte la bozza e ricominciato da un’altra angolatura.

Alla fine ho rinunciato perché l’argomentare che ne usciva mi sembrava eccessivo e per altro inadeguato; ed ho preso in prestito al frase del Lagunare Carlo Bassani che nella sua sinteticità, è mia opinione, dice molto. Anzi dice tutto.

Un grazie a che mi a seguito nel mio andare indietro nel tempo.

Un grazie perché lo scrivere questa ventina di puntate mi ha dato modo di ricordare volti, di rivivere ricordi, situazioni. Emozioni ed accadimenti sono potuti essere ricordati davanti alla tastiera del PC, con attenzione e assaporati nei particolari; mi sono commosso non lo nego, ricordando i “Fratelli di naja” che non ci sono più.

Scrivendo, ho avuto ancora la sensazione del gelo che attanaglia le estremità durante le notti in altana, degli accecanti rivoli di sudore durante le marce interminabili; la strizza ad ogni rumore nelle notti di guardia… Ero ancora la!

Ho ridacchiato come uno scemo, da solo, rivedendo nella mente alcune delle ingarbugliate, abnormi e comiche vicissitudini di quarant’anni fa; mi sono imbufalito ricordando certi “gentiluomini” di quel periodo e riandando alle umiliazioni ed i torti subiti.

Ecco, giusto a proposito: un’unica certezza mi preme ribadire e già l’ho esternata in diverse puntate.

Confermo la mia avversione per gli imboscati di allora e li odio (naturalmente espressione di eufemismo circonlocutivo…forse…), ancora di più ora perché la loro peculiarità d’allora, lo “strissonismo”, (neologismo coniato per argomentare più vigorosamente, il cui etimo ci riconduce al gergo lagunare dove le parole “strissòn” – altresì “bìssa”, serpe in lingua - e che i vecchi “Baffi” capiranno alla grande), si è raffinato ed è maturato in un "Crescendo" sinfonico e perciò essi ne sono risultati nell’interpretazione più dispregiativa, gli imboscati di adesso.

Buon pro gli faccia. Certo che vivere una vita da parassita…

Il valore aggiunto di tutta questa storia?

Ritengo che se fossi stato destinato di far la naja presso uno dei tanti anonimi reparti di fanteria, con tutto il rispetto per la Fanteria nella quale siamo stati “innestati” e della quale siamo parte, reparti anche se custodi di importanti quarti di nobiltà sepolti nella notte dei tempi, non vi avrei raccontato nulla perché per me il valore aggiunto e del quale mi è premuto d’aver raccontato, è stato  l’onore di essere stato e quindi di essere per sempre un Lagunare.

San Marco!

Lagunare Dino Doveri.

 
  
         
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