Storie di lagunari - Dino Doveri - parte 04 | |||||||
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Lagunare Dino Doveri Villa Vicentina 2° contingente 1966 Sezione di Jesolo e-mail: ddoveri@associazionelagunari.it | |||||||
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Per la sedicesima puntata, siamo a ricordare l’inizio del periodo primaverile del 1967. In camerata aleggiano notizie di prossime esercitazioni. Si sentono nomi mai uditi prima: Porto Calèri, Foci Reno, Rosolina, Rosa Pineta, Cà Vio. Tutti nomi che richiamano spiagge o quantomeno zone marine correlative all’attività lagunare ed anfibia. La mia indole che mi spinge la dove ci poteva essere novità, probabile avventura ed azione, mi incita a chiedere notizie e chiarimento: si favoleggia di sbarchi alla Marines in spiagge da conquistare, notti all’addiaccio per “beccare” il “nemico”, vita da campo, e possibilità di trascorrere momenti formidabili ed indimenticabili. Mi ricordo allora, dei film più e più volte visionati nel buio delle sale cinematografiche, dove mi ero pasciuto in gioventù, di pellicole come “il Giorno più lungo” ed altre, dove un pubblico sempliciotto d’allora, tifava sonoramente per gli yankees che sbarcavano indomiti sulle spiagge sotto le sventagliate delle MG dei tedeschi che anche un po’ cretini sembravano, perché filmicamente, non ne indovinavano una che fosse una. Alla fine il “glorioso” Marine la spuntava sempre. Ed in effetti, al di la delle sceneggiature “ad hoc”, alla fine nella realtà, la spuntarono eccome! Detto fatto, repentina ed immediata la decisone, chiedo al Comandante di Compagnia, di esentarmi dal mio incarico provvisorio al Circolo Sottufficiali, cosa che per altro lo meraviglia e capisce mica tanto bene il perché io chieda questa variazione: glielo spiego e sorride ben impressionato di questa mia voglia di vivere l’azione. “C’è da farsi un bel “mazzo” mi avvisa”, ed io gli dico “OK, per me va bene”. Chiudo il breve periodo del Circolo e ritorno a far vita di Compagnia e ahimè, subito si ricomincia prima degli eventi addestrativi, una rinfrescata con il mortaio. Sarebbe la solita minestra di cui oramai siamo più che satolli e si prevede nel periodo antecedente alla partenza, una noia mortale. Nel frattempo però, arriva il momento “clou” che la maggior parte delle “Tube”, attendevano con bramosia ed ansia: l’arrivo dei Signori “Baffi”! Or dunque una mattina si sparge la voce che in giornata arrivavano i baffi. Le reazioni sono le più varie: c’è gente che si carica psicologicamente sin dal primo mattino,altri che covano una “cerimonia” di ricevimento che sarebbe dovuta rimanere negli annali della storia reggimentale; si preparano gavettoni e quant’altro, i superiori sono in allarme, gironzolano per le compagnie avvisando che non si sarebbe ammesso nessun tipo di “cazzata”; il Tenente Graziani ci avvisa chiaro e tondo che il primo “fattaccio” che succede, ci farà vedere i sorci colorati…. e così via. I malcapitati arrivano in tarda mattinata, trasportati nei soliti CM con telone chiuso, sin sotto l’entrata delle Compagnie: s’aprono i tendoni e si scorgono i visi spauriti e timidi dei giovanotti per i quali da quel momento, sarebbe iniziata l’avventura dello “status” di “baffo”. Sbarcano con il bagaglio sotto la pensilina del portico delle compagnie e qui cominciano i fuochi d’artificio. Per la verità, io personalmente non avevo assolutamente ne la voglia ne la brama, di “rompere” più di tanto: ancora mi ricordavo quello che toccò a me nello stesso frangente, e di comportarmi da “rincretinito diplomato” come avevo visto fare ai miei “noni”, proprio non mi andava. Comunque, visto che la cosa era ineluttabile, defilato ed a margine del pandemonio, mi feci quattro risate nel seguire la scena dell’inquadramento e dell’ assegnazione; vidi arrivare alcuni gavettoni volanti, qualche messa sull’attenti da parte di alcuni di noi a ‘sti poveri cristi con gli sguardi allucinati e la tensione tirata come corda di violino, ma alla fine la “resa” del momento tanto atteso dalla gran parte della “vecchiaia”, si esaurì momentaneamente, nei soliti “Chi sei?”; “ReclutaTizio Caio”, “No tu non sei niente, sei un vile verme della terra!” “Lagunare Caio Sempronio”, “Lagunare cooooosa?”grida andando di testa il “nono” imbestialito “Lagunare un c…o! Prima di poterti definire Lagunare dovrai..(e qui seguivano una serie di programmini inenarrabili niente male, durante la cui elencazione , generalmente il “baffo” ammutoliva, cambiava di colore andando sul pallidino, guardava da un’altra parte facendosi coraggio con un accenno di sorriso di sfida ma tradito dal respiro affannoso e dai movimenti inconsulti dello stropicciarsi nervosamente le mani. “Come ti chiami?”, “ Pinco Pallino!”, “Cosa ho sentitoooo? Da adesso ti chiami baffo “Cucù”!” E via così per alcuni minuti; la cosa non andò oltre anche perché molti si ripromettevano di dar fondo alle più becere angherie e scherzi vari, sia durante la serata che durante la notte. Si schierano i baffi in camerata e com’è uso, ad ogni vecchio si “assegna” il baffo di competenza. A me capita uno spilungone magro e con naso aquilino e capelli spennacchiati con l’espressione da bamboccio decenne appena uscito dall’oratorio; il labbro inferiore leggermente sporgente e pendulo ma l’occhio vivo e pronto……, manco mi ricordo ne come si chiamava ne da dove veniva. Lo guardo con fare severo (un po’ di teatralità non guastava), ma siccome mi ispira tenerezza per tanto frastornato che lo vedo sul momento, gli dico di sistemarsi la dotazione e che se ne riparlava in serata. In serata, dopo avere assistito a tutta quella serie di scherzacci che comunque furono sempre meno pesanti di quelli che a nostra volta subimmo nella stessa situazione, mi piglio il baffo nelle prospicenze della mia branda e gli spiego la faccenda: “Io non sono uno di quelli che ti romperà i “marroni” più di tanto; tu fai quello che ti dico e vedrai che da parte mia non ci saranno problemi; quindi: per non perdere la faccia nei confronti degli altri “noni” dovrai fare per me alcune cosette e per la comunità dei “noni”, altre”. “Quando c’è la “bagarre” dei “noni” cerca di defilarti, non incazzarti perché sennò è peggio; prendila come un fatto assolutamente ineluttabile ed “abbozza”; sappi che quello che s’incazza di più, è quello che patisce di più: sarà poi sempre nel mirino di tutti”. “Nei miei riguardi e sempre per non perdere la “faccia” nei confronti dei miei colleghi “noni”, tu devi: sistemarmi il cubo la mattina dopo la sveglia, una robetta da quattro/cinque minuti (non serve che me lo fai alla sera perché sono troppo delicato in questa faccenda); lucidare anfibi e scarpe da libera a seconda della necessità e “dulcis in fundo” ma non è una tragedia, in servizio, com’è giusto che sia, da oggi il “tubo della stufa” ovvero la canna del Mortaio da 120 è tuo e te lo scarrozzi dove ti viene comandato quando sei in Plotone.” “Altro non voglio e vedrai che se “ottemperi” con perspicacia e “vispezza” (termine coniato al momento in onore al fatto che il “baffo” doveva essere innanzitutto “vispo”), in confronto ad altri baffi, te la passerai molto meglio. Azione!”. Il ragazzotto non è tanto convinto, ed allora debbo tirar fuori quel tanto d’autorità che avrei dovuto avere con il baffo già dall’inizio, gli spiego per benino cosa abbiamo passato i miei colleghi ed io nella passata ed analoga circostanza, Rimane colpito dal racconto e comincia a connettere; gli sottolineo che già per i suoi colleghi assegnati ad altri “noni”, era cominciata molto male e tutto faceva presagire che sarebbe finita peggio, quindi gli consiglio di attenersi alle regole (agli ordini se mai i miei potessero essere considerati degli ordini), e tutto sarebbe andato ottimamente. Il baffo è indeciso e valuta se realmente potesse essere così, ma poi si guarda attorno e inizia a fare mente locale, quindi cogita tristemente ed assiste perplesso : siamo in una bagarre da pseudo - girone infernale dantesco, le urla inumane, le sguaiate risate, le frasi, l’atmosfera è incandescente per cui il baffo che “mona” non è, pesa la situazione e sembra che dopo immediato ed attento esame di come stavano andando le cose in camerata, opta per il “silenzio – assenso” e mugugnando se ne va alla sua branda. La nottata è insonne: girate di branda, qualche “gavettoncino” se pure moderato, qualche teatrino tipo “fammi il CuCù”, poi la fatica vince anche i “noni” più esagitati e finalmente a metà nottata si dorme. Il mattino dopo, il baffo fa finta di non ricordarsi del cubo e tenta la strada dello “gnorri”: vedo che i colleghi “noni” ridacchiano sotto sotto e quindi decido per una linea più “dura” ed una risoluzione “definitiva”: scatto urlando “alla Canfora”, i miei amici mi sostengono nella sceneggiata demolendo le difese psicologiche del soggetto, il Sergente Francis esce e se ne torna nella sua cameretta per qualche minuto, il ragazzo ritira il collo entro le spalle come una tartaruga, prevede chissà che rogna gli starà arrivando, molla tutto, con sveltezza e perizia mi assembla il cubo e la cosa finisce li senza conseguenze (anche perché non mi era ben chiaro cosa gli avrei potuto fare, senza offenderlo più di tanto….). Da allora io e lui convivemmo ottimamente: intuisce che come “nono” sono uno dei più tranquilli e bonaccioni, capisce che non ho la cattiveria d’infliggerli quanto era preventivato dalla tradizione, comprende che pure io non ho grande simpatia per questi maltrattamenti e condizionamenti psicologici, vede quello che capita agli altri e valuta serenamente che quel poco che c’è da fare per il suo “nono”, è il minimo indispensabile. Quando andiamo fuori con il Mortaio, senza far storie si carica in spalla la maledetta “bocca da fuoco”, io mi “accollo” l’onere del congegno di puntamento e paline, al rientro senza tanto smenare, si pulisce il pezzo e se lo sistema in armeria: con il baffo, tutto bene quindi! Alcune volte vedo che il ragazzo, anche se non vuol darlo a vedere, è sfiancato e quindi mi sobbarco nuovamente la bocca da fuoco. Alla sera in libera è spaesato, non sa niente degli usi e costumi della banda, e mi pare opera pia, dargli qualche “dritta”; mi fa un po’ pena nella sua ingenuità di zerbinotto di campagna tant’è che “spingo” presso i miei due sodàli, nel permettere di lasciarlo accodare a noi tre in libera, e che ciò fosse cosa buona e giusta era scritto nel cielo perché il baffo recepisce e tutto sommato a parte qualche cazzatina tipo “baffo! Fammi una decina di pompatine con salto!” che non raggiungevano mai il fatidico numero, la sua convivenza con noi “noni” diveniva sempre più amichevole. A riguardo degli altri baffi, non ho ricordi particolari: solite menate alla sera prima dormire, solite esibizioni dei vari Juke Box, Cucù, Buffalo Bill, la Dolce Bajadera e varie altre improponibili interpretazioni; qualche incursione notturna, qualche sporadico dentifricio, qualche gavettone di sostanze varie giù per la scala dei cessi, ma tutto sommato, il fenomeno nonnismo con il nostro contingente non ebbe grandi sprazzi o fatti salienti; molti di noi si vergognavano un po’ nel praticare quella tradizione militare, e sicuramente non infierirono sui baffi, più di tanto: il fenomeno stava nel tempo affievolendosi. Una sera, in una innominabile caciara organizzata da un “nono” rodigino, volavano ad altezza crani, brande e zaini, sicché una stanga della branda in ferro incocciò con una certa forza sulla pur dura zucca di un baffo che rimase secco e senza sensi: ne venne fuori un casino dell’accidenti: ricovero del colpito in infermeria per rianimarlo, urla del Sottotenente Bordon, ricognizioni di altri Ufficiali in camerata, arrivo del Tenente Graziani con relativo “tutti in mimetica, zaino e Fal a farsi un giretto per la campagna friulana”, “ tra mezz’ora!”. I colleghi “noni” che tante ne avevano subite a loro volta, si vedevano sfumare così la possibilità di rifarsi sugli incolpevoli “baffi”, ma intelligentemente dopo un altro paio di “passeggiate” notturne per i frutteti friulani carichi per altro, di quelli che tra qualche tempo sarebbero divenuti frutti succosi che aiutavano a superare la fatica e lo smacco morale, si rassegnarono a ben più miti consigli ed a comportamenti meno vessatori e cretini nei confronti dei baffi. La patì bruttina il baffo apprendista trombettiere che faceva pratica dello strumento spaccatimpani, in un angolino all’aperto tra il comprensorio del “percorso di guerra” e la strada che portava alle officine dietro la Mensa e lo Spaccio e poi giungeva alla Polveriera. Era stato messo lì appositamente perché con il metallico strumento oramai aveva esasperato un po’ tutto il Battaglione: comunque anche da lì, i miseri tentativi di far uscire una nota degna di tale nome dall’ infernale oggetto, erano sistematicamente naufragati ed era divenuta oramai una cosa diabolica e indisponente alle orecchie infiammate dei militari del luogo ed anche oltre. Sicchè il “nono” (inteso come categoria), che una ne pensa e cento ne sa, raccoglie in un capiente sacco di plastica, sostanze liquide varie tra cui spicca per la cattiveria, il grasso del fondo delle placche dove erano state cotte le salsicce (o salamelle che dir si voglia): ogni uno poi, ci contribuì del suo e quindi ingaggiato un CL con autista, il gruppo “noni” carica il pestilenziale e diabolico ordigno chimico e si dirige alla volta dell’ignaro neo-trombettiere che emette suoni simili a miserabili “flatulenze”, a più non posso, proprio addossato alla curva del percorso. L’ignaro vede l’autocarro avvicinarsi ma la cosa non lo insospettisce perché da li passano i mezzi che vanno su e giù dalle officine: all’altezza della vittima, si spalanca il telone dietro e ne fuoriesce lanciato con veemenza e considerevole velocità, il gavettone pestifero, che si schianta addosso allo sfortunato baffo trombettiere. Una ultima “pernacchietta” soffocata da cotanta materia innominabile e il baffo è sommerso dal contenuto del mega gavettone. Per un paio di settimane si dovette intensificare la mattutina “reazione fisica” per cui passatempi di questo genere furono saggiamente accantonati. Per la verità, nelle compagnie degli assaltatori, il movimento notturno era intenso e sistematico, ma d’altro canto erano cavoli loro e l’aristocrazia del Battaglione, cioè la Mortai, si defilò quasi signorilmente e la cosa andò scemando da sola (anche perché contrariamente, il Tenente Graziani diveniva una belva e tutto sommato il gioco non valeva la candela). Si parte: si farà l’esercitazione “Down Clear” a Bibione. Fermento, preparativi, “breefing” (si fa per dire, perché per noi semplici Lagunari fanalini di coda del contesto, il breefing era costituito da un “datevi da fare e non rompete i c.…..i in giro per il vasto e sconosciuto mondo! Azione!), controlli dell’attrezzatura, dell’equipaggiamento (misero, se confrontato con quello di adesso). Si chiede un aiuto per l’armeria (mio vecchio amore), ed io mi do disponibili subito: smonto, sgrasso, diluisco, gratto, ingrasso (le armi, non me), sono il solito pignolo, mi prodigo nei particolari, la vite, la cinghia, la lente, i bellissimi congegni di puntamento del mortaio di raffinata fattura meccanica (ne ho uno che troneggia proprio davanti a me sulla scrivania dove mi sto metodicamente impegnando su queste righe: congegno ovviamente non “involato” al Ministero della Difesa, ma acquistato a caro prezzo in un mercatino di militaria). Mi “rapisce” il Bar, fucilone mitragliatore della IIa Guerra Mondiale, pur se prodotto in tempi bui, il pezzo è un trionfo della meccanica “fine”; pure l’MG mi “prende”: è un idea della tecnica tedesca, la cosiddetta “sega di Hitler” , che la dice lunga sulla pignoleria, maestria ed orgoglio del tedesco quando produce un qualche cosa: un insieme di innovazioni armiere tecnicamente ancora oggi in auge, che sposavano la nuova “corrente” della “stampataura” della lamiera balistica, invece che la lavorazione con macchine utensili tipo frese, torni e trapani. La semiautomatica pistolina Beretta Mod. 34 invece, era una vera “frana”. Dura allo scatto, vecchia, malmessa da decenni di usi sconsiderati da parte dei figli della laguna, un vero ferro vecchio con una cartuccina da pena, tale era la 9 Corto altresì denominata internazionalmente 380 ACP. Meno male che molti decenni dopo, venne sostituita con la omonima Mod 92 in 9 Parabellum! Io mi ci applicavo con passione: non doveva rimanere un grumo di olio rinsecchito, un vite allentata, una canna sporca, un caricatore inefficiente. Era una sfida. Qualche giorno prima di partire per Bibione, l’armeria è una sala operatoria, e il contenuto si poteva paragonare ai relativi ferri chirurgici. Una bella mattina piovosa, si parte per Bibione: pochi chilometri per la verità. Arriviamo all’incirca a mezza strada tra il ponte di Bevazzana e Bibione; deviamo alle spalle della laguna, c’insinuiamo in una “codetta” tra barena e “palù” , e qui scarichiamo i Mortai da 120. Contrariamente a molte altre volte dove si piazzava il mortaio appoggiato sul terreno, questa volta ci fanno scavare una buca che “fortificheremo” con sacchi riempiti della terra scavata: un lavoraccio improbo e un “mazzo” tanto. In buca si affonda sempre più giù e i sacchi s’innalzano sempre più su, mentre però il fondo della buca tende a riempirsi della pioggia che allegra e copiosa scende su di noi ininterrottamente. Dopo poco, lo strato di fanghiglia e profondo una ventina di centimetri e ogni anfibio pesa un due/tre chili in più; d’altro canto medito tra una sbuffata e l’altra, è questa la vita del Lagunare: in “umido” e sguazzante nel fango e nella poltiglia: sennò che ragione c’era di fregiare le Compagnie con effigi di rane, caimani e altre bestiacce anfibie? Piazziamo il “Mostro”, lo copriamo con mezzi di fortuna, qualche telino tenda e qualche sacco della spazzatura in nylon rinvenuto chissà dove, lasciamo una sentinella che è sull’orlo della crisi di nervi e per grazia ricevuta, noi dell’ “arma base” (ma pure gli altri mi sembra), ce ne andiamo a Cesarolo dove ci attende diroccata per la gran parte della sua vastità, una principesca casa colonica del mezzadro locale, rudere in lento disfacimento, che ci farà da tetto per la prossima settimana. A piano terra, la base operativa e Comando della Compagnia Mortai: carte geografiche appiccate a telai, tavoli con documenti e orografie, radio che gracchiano in continuazione, alcuni Ufficiali che si dannano l’anima a convertire le coordinate che arrivano via etere, con le impostazioni della serie di mortai che attendono annegati in pozze d’acqua, a qualche chilometro di distanza. Secondo piano, alcuni piloti degli LVT MK4, alcuni Sottufficiali d’altre Compagnie. Terzo piano, sul nudo suolo di assi di legno su cui si sono negli anni di disuso, stratificati chili di polvere impalpabile, ci dicono è il nostro giaciglio! Stendo il telo tenda, ci stendo ulteriormente sopra un paio di sacchi sventrati di una plastica dura e spessa che fungeranno da intercapedine agli spifferi che provengono dalle fessure del “siolo” in legno marcio, distendo e gonfio il famigerato “Materassino Pneumatico”, vera e propria tortura cinese per dormire, qualche coperta, zainone in testa del giaciglio e alla fine mi sembra d’aver combinato su, una “postazione da sonno” disperatamente decente. Invadiamo il paesetto di Cesarolo che allora era un agglomerato di poche case ed un paio d’osterie, e come sempre avviene nei casi specifici, ci troviamo tutti dentro in una di queste, tra noi, Uff. e Sottuf. I quali pure loro non sanno dove andare a parare. Casini e schiamazzi, osti inviperiti per tanta cagnara però in fondo contenti per l’afflusso di Lire che alla fine si concretizzano nelle loro casse; i paesani svicolano e le poche “tose” esistenti le immaginiamo a letto guardate a vista dei severi genitori che per la bisogna, hanno riesumato la vecchia doppietta da “folaghe”, caricata a sale. Partite a carte, televisione, qualche tavolo s’inforna tutto quel che di commestibile offre la bettola; la pance lagunari com’è risaputo negli annali dell’Esercito Italiano, sono sempre vuote e le gole sempre asciutte. Anche per l’occasione, come per altro è tradizione consolidata, le “ciucche” non si contano e le comitive rientrano alla “base”, con passo malfermo e canti sguaiati. La mattina dopo però, il fisico Lagunare viene fuori come sempre alla grande e tutti sono in forma come campanelli. O quasi. Noi Mortaisti giungiamo alla nostra “ragione di vita” e ci rendiamo conto che il complesso “arma” è immerso in buoni trenta centimetri d’acqua. Svuota e sguazza, bestemmia (moderatamente però) e impreca, si opta per assemblare con sterpaglia e materiale di fortuna, una pavimentazione su cui poter evitare di sprofondare; ogni tanto la pioggia s’interrompe per alcuni momenti ma poi rincomincia più convinta di prima. Ogni mezz’oretta facciamo finta di sparare e c’è pure qualcuno che ci dice che abbiamo preso il bersaglio o l’abbiamo sbagliato (mai capita ‘sta storia); a mezza mattina del secondo giorno di “battaglia” ci dicono che gli Americani sono sbarcati e stanno costruendo un ponte portato li con gli elicotteri, da qualche parte ( per noi avrebbero potuto anche essere ritornati in Tennessee o in Nebraska, che manco ce ne saremo accorti); proseguiamo l’esercitazione sino a sera ma invece di rientrare rimaniamo sul posto, dentro la meraviglia di buca che funge da postazione: ci sistemiamo nella fanghiglia, piove di gusto e siamo fradici ed infreddoliti, ogni uno dice la sua e si fa fatica a dormire, ma comunque ci si riesce e giuro, fu un’esperienza indimenticabile. Il giorno dopo si rimase sul posto (sempre a far finta di sparare e facendo “bum!” con la bocca quando il virtuale scoppio avveniva), si venne a sapere che lo sbarramento di bombe “Pepa” vocali, aveva fatto il suo dovere ed all’imbrunire si affardellano armi e bagagli per ritornare in “baracca”: vari espedienti per asciugarsi ed asciugare gli indumenti (falò improvvisati sotto portici di case coloniche abbandonate, cofani dei motori interni alla cabina dei camion, aiuto per la bisogna chiesto agli abitanti della zona – pure il calore delle vacche in stalla ci andava bene – e quanto la fantasia del Lagunare riuscì ad escogitare. Io personalmente mi spogliai e indossai una tuta ginnica che allora era blu scuro ed in tessuto felpato, e portai la mia divisa da combattimento ad asciugare presso la cucina di fortuna che era stata ubicata in un garage dell’osteria centrale di Cesarolo: i miei passati “agganci” con il personale del Circolo, furono per l’occasione, determinanti. Nottata incredibile perché spegnendo le candele che fungevano da illuminazione, ci accorgiamo di movimenti furtivi e rumorini strani che si percepisce, provengono dai bui anfratti delle vecchie mura coloniche. Per niente tranquilli a causa di questi gratta – gratta, decidiamo per la riaccensione delle candele: dopo qualche decina di minuti, ci accorgiamo di mastodontiche “pantegane” che mettono il loro muso appuntito, fuori dalle fessure nelle quali normalmente soggiornano e per altro una o due attraversano la stanza con fulminea traiettoria. La cosa ci mette in allarme tant’è che il sottoscritto ed altro incaricato dal gruppo, partiamo alla ricerca di un qualche cosa di risolutivo: l’oste della taverna di fronte ci ride sopra ma poi ci dice che basta tenere la luce accesa e non succede niente; ci presta due belle lanternone a petrolio illuminante e ci consiglia di non mangiare per non ingolosire i ratti. Il consiglio e relativo implicito avvertimento, non ci tranquillizza per niente ed anzi, ci rende sempre più perplessi. Le due belle e panciute lampade a petrolio fanno il loro dovere e dopo aver scoperto che uno di noi, un triestino, stava sgranocchiando cibarie prima di dormire, e dopo aver preso le stesse e scaraventate nel cortile della casa colonica con speranza che le simpatiche bestiole se ne accorgessero, si ritenne che si poteva tentare di dormire. Senza però aver organizzato un servizio di guardia alla “pantegana”. Ogni tanto ci si svegliava di soprassalto con l’impressione che qualche occhio puntuto ci stesse osservando……con golosità! Non smise mai di piovere durante tutta l’esercitazione denominata “Down Clear”; si parti da Villa con la pioggia e con la pioggia vi si rientrò dopo circa una settimana. Si ritornò alla “base” verso il finire della settimana, più sbudellati e “stonfi” che mai; sporchi ed abbruttiti ma consci che tutto sommato avevamo “vinto” gli Americani (almeno così ci dissero). Certo che la vita da “guerriero” era dura ma tuttavia ti dava la consapevolezza di aver acquisito più esperienza, più saggezza, ma soprattutto, d’aver vissuto l’avventura e l’azione, in diretta. Alla prossima. San Marco! Lagunare Dino Doveri.
La diciassettesima puntata inizia nell’immediato periodo del dopo “Down Clear” di Bibione. Siamo ancora con la nostra bella divisa in panno ma i cappotti sono stati ripiegati e messi definitivamente nello zaino. Quell’indumento, considero, non verrà più utilizzato perché un altro inverno a Villa Triste non lo passerò mai più perché per quel periodo dovrei essere a casetta mia, già da qualche mese. Intanto in caserma la vita scorre lenta e monotona; come “vecchi”, la storia delle guardie sembrerebbe finita la cosa che maggiormente assorbe le nostre attenzioni, sono le metodiche strategiche per andarsene ogni tanto in licenza e le uscite serali in libera, che invariabilmente ci conducono a “spanzarci” di cibo in qualche nuova scoperta nel perimetro fruibile attorno a Villa. Una domenica, non mi ricordo più per quale strano motivo, ci trovammo in caserma in quattro del solito gruppo e per altri motivi persi oramai nei meandri del tempo, si riuscì ad uscire nel primo pomeriggio: visto che la primavera incombeva e oramai stufi delle solite puntate a Cervignano, decidiamo di organizzare una incursione a Grado, nota località turistica dell’alto Adriatico a pochi chilometri dalla nostra caserma. Come ci siamo arrivati, ora pur sforzandomi, non riesco a ricordarmi, ma qualche cosa mi dice che il sano ed economico “autostop” ci permise senza spese superflue, di raggiungere la celeberrima località d’antiche origini preromaniche. La parte vecchia di Grado (pur avendola sentita nominare spesso, questa località mi era del tutto sconosciuta), c’entusiasmò ed io inveterato cultore dei costumi della tradizione rivierasca veneta, subito colsi nelle fogge delle case e dagli intrichi delle calli, una assonanza che riconduceva ai centri storici delle varie città e centri urbani d’influenza veneziana. Sicché, dato che l’aria era ancora fresca ma non proibitiva, anzi quella sera piuttosto tiepida, con molto anticipo sull’ora di cena ci attirava sederci in una trattoria che ci sembrava a buon mercato per le nostre infime tasche di militari, spinti principalmente dai profumi da essa provenienti, notevolmente invitanti. Ci sediamo dunque, in uno dei tavoli che già erano apparecchiati all’esterno davanti alla trattoria. Giunta l’ora del desinare, in attesa della quale venne deciso di “valutare” una bottiglietta di classico bianco regionale, ordiniamo, dando già indicazione su cosa sarebbe seguito al primo piatto; finito questo, stiamo già pregustando l’arrivo del secondo, quando uno di noi, che per caso guarda il passaggio della gente ciondolante davanti, nella via data la bella serata, vediamo che… strabuzza gli occhi e mezzo soffocandosi, avverte: “fjoi…ghe xe un basco nero che xe drio vegnir vanti sieme con na tosa, e porc’…. me par ch’el gabia stelete, un per, e ostrega… mostrine rosse sora a giaca!” Terrore ed apprensione, siamo fuori distretto e li non potevamo e dovevamo esserci! Il basco nero in avvicinamento viene fortunatamente deviato verso una vetrina, dalla signorina tenuta sottobraccio, e noi rannicchiando le teste nelle cavità clavicolari, fluidi e felini come si addice a “vecchi” Lagunari, “l’azione deve essere flessibile, immediata, efficace!”, frase tante volte udita, con decisione ponderata ma fulminea, entriamo in un battibaleno dentro la trattoria; gli avventori ci guardano con sospetto e facce perplesse immaginando chissà che cosa; piglio da parte un cameriere e gli spiattello la faccenda pregandolo di lasciarci tranquilli in un posto nascosto sino a che il tizio non fosse passato. Il cameriere, capito la comica e critica situazione, c’indirizza in un corridoietto che immette alla cucina e dopo un quarto d’ora mandiamo in avanscoperta, una vedetta che ci riferisce che all’orizzonte non si vedono ne mostrine rosse, ne baschi neri. Pian pianino ritorniamo al tavolo, rinfrancati e seguiti dagli sguardi interdetti dei commensali ed attacchiamo il secondo, ridacchiando come ragazzacci discoli, sollevati e con l’euforia dello scampato pericolo. Sicché, dopo una mezz’oretta, presi nel risolvere il dubbio amletico relativo ad un prosieguo con lauta porzione di dolce oppure no, veniamo di nuovo sorpresi dalla faccia allibita e sconvolta, reiterata ulteriormente dal nostro “fratello di naja” di vedetta, che per la seconda volta assumeva un’espressione allarmata. Senza chieder nulla, ci voltiamo tutti dalla parte dov’è puntato l’occhio vitreo del commilitone, e constatiamo con terrore, che l’Ufficiale Lagunare, se ne stava nella sua passeggiata galante, ripassando proprio per di la. Evidentemente lui non ci scorge perché nascosti da fioriere e cartelli, ma inesorabilmente si avvicina anche se lentamente e pieno d’attenzioni per la sua compagnia. Altra scena tragicomica degna di un film muto degli anni ’20: rocambolesca, fulminea e penosa a vedersi fuga all’interno dove per un altro quarto d’ora cerchiamo di mantenere un’aria normale, mentre la gente seduta ai tavoli, comincia a considerarci con attenzione scrutandoci con un non malcelata apprensione. Altro breve periodo d’attesa ed a ‘sto punto, non vediamo l’ora di levare le ancore; quindi paghiamo al volo chiedendo scusa al trattore che se la ride sotto i baffi: “ma va a remengo ti e i to’…..” pensiamo. Furtivamente, facendo un giro dell’anima, ci portiamo sulla strada che esce da Grado. Comunque più sereni per lo scampato pericolo, ci accingiamo in due gruppi, all’oramai, tradizionale e praticato spudoratamente, “autostop” per ritornare in quel di Villa. Passa una, passa due macchine, ne passano centinaia, ma per una buona mezz’ora (strano perché i militari vengono presi su molto rapidamente, in genere), non si ferma nessuno. Sull’incazzatello andante e non il contrario, stiamo facendo i nostri commenti non proprio raffinati, quando un bel Maggiolino VW rosso cupo, caccia fuori la freccia e si ferma davanti a noi. Sorridenti e contenti si chiede: “Scusi, se va verso Villa Vicentina, potrebbe darci……” Un colpo al cuore ci ammutolisce perché scorgiamo le due scarlatte mostrine con il Mao e due micidiali stellette dorate per ogni spallina, che ci raggelano il sangue. Terrore e sgomento! Non era una faccia nuova, ma non sapevamo chi fosse e comunque era il tizio che ci aveva fatto fare la misera figura di cui sopra, poco tempo prima. “Ma dov’è che c...o state andando fuori distretto! Lo sapete che qui non ci potete arrivare? E anche l’ autostop…” Facciamo la faccia da “gnorri” e questo s’incacchia ancora di più. Uno di noi ispirato dalla convinzione del proprio “status” di “nonno”, proferisce con fare conciliante: “…ma sior tenente, semo oramai veci e xe na vita che ‘ndemo ‘ndrio vanti per i busi de Vila Triste…porca vacca, ‘sta volta gavemo vossuo vedar ‘na roba diversa: Se no se more sempre co’ le stesse robe…” Questo ci valuta e cambia espressione; ci vede sinceri e inoltre penso che la motivazione gli sia chissà perché, comprensibile e sicchè fa: “dai montare…che vi porto io… così potrebbe anche essere che non vi becchi qualcun’altro” Ringalluzziti per la piega presa dalla faccenda, entriamo in macchina ed una parola tira l’altra, un paio di battute, un “ostion” del gruppo fa qualche leccata e chiede “…se el Sior Tenente el pol serar un’ocio per piasser…”, quindi un tentativo di corruzione riuscito con un “Sior Tenente, se el se ferma podaressimo ofrirghe un qual’ cossa da bevar?...”. Arrivammo all’incrocio della Triestina e sbarcammo ringraziando di tanta magnanimità non prima d’avere udito: “La prossima volta, almeno cercate di non farvi beccare!”. Che nome avesse questa superlativa e prestigiosa figura d’Ufficiale, giuro non lo ricordo ma era in quel periodo, in una compagnia di assaltatori. Un paio di mattine dopo successo l’ameno fatto, alla presentazione della forza, il Tenente Graziani, la butta li: “sembrerebbe che abbiamo dei signori che vanno a fare i turisti a Grado; attenti perché se venite beccati, oltre alla punizione che vi appioppano, poi ve la vedete con me!” Più andati a Grado! Le guardie ai forti sembravano cosa orami esclusa ed invece la Mortai è per l’ennesima volta, spedita in Veneto; questa volta (si vede che come “vecchio” me la passano), non sono nell’elenco degli eletti del gruppo “vacanze ai forti”. Se ne partono ed io resto dei “vecchi”, praticamente da solo in Compagnia. Ma naturalmente c’è sempre un ma all’orizzonte. Mi fa in un’adunata lo Sten: “….guarda che vai a Cà Vio con i mortaisti da 81 a fare uno “sbarco; domani preparati per una trasferta di un paio di giorni. Vi portate via un 120 e illustri agli 81 com’è la faccenda del 120…..” “Portatevi via gli anfibi di tela e roba da cambiarvi perché c’è d’andare probabilmente in acqua. Azione e non fare danni per il vasto e complicato mondo!” Guerriero! Ecco per quale glorioso scopo è costruito il Lagunare: per fare il Guerriero! Sempre immerso in mille azioni avventurose e “bagnate”. Verso metà mattina del giorno dopo andiamo in armeria con gli altri tre, gli faccio assaggiare il peso del “mostro”, illustro le metodiche d’inbragamento e di carico e scarico dell’attrezzo, noto le facce schifate dei colleghi “ottantunisti”, per cotanto ingombro e peso, ci facciamo coraggio cameratescamente l’uno l’altro e nel primissimo pomeriggio partiamo con il solito CL, per poi giungere nel pomeriggio inoltrato a Cà Vio; Anche se abitavo ad una ventina di chilometri, ‘sta faccenda di Cà Vio, manco sapevo che esisteva: arriviamo entro i tempi che ci permettono di piazzarci in una camerata che ha del tragico, e per presentarci alla libera. Datosi che non avevamo portato via la divisa da libera, qualcuno pensò di fare uno strappo alla regola e ci permisero di uscire in mimetica: Sembravamo, a parte le facce non proprio terribili o patibolari di ventenni appena svezzati, dei veri “guerrieracci” rotti a tutte le battaglie: la nostra bella giacca a vento, il meraviglioso fazzoletto rosso ed oro senza il quale a quei tempi, non si andava neanche ad espletare esigenze corporali, il bascaccio nero portato alla maniera dei Marò, i leggerissimi anfibi telati da “sverginare”, lacci ai pantaloni da veterani di mille azioni….fichissimi si direbbe adesso! Pizza e casini in pizzeria a Cà Savio e rientro nella norma. Alla mattina “comprendiamo” Cà Vio. La caserma pullula di gente di tutti e tre i Battaglioni, scorgo qualche faccia del “Marghera”, noto i cordoni amaranto del “Piave”, vedo diversi plotoni mortai con il 120; speriamo di fare bella figura…così improvvisati come siamo noi dell’Isonzo che poi scopro siamo gli unici rappresentanti di Villa Triste. Preceduti da rombi e fumi densi di gasolio, cominciano ad allinearsi quei mostri sempre “vagheggiati” ma mai “toccati” con mano, gli LVT. Montiamo impacciati nei movimenti, dal nostro personale pezzo di mostro (a me naturalmente, mi appioppano il maledetto “tubo”); gli ottantunisti a disagio dalla mole del pezzo, imprecano sommessamente, sballottati come animali al macello nel carro dell’ultimo viaggio, sbatacchiando qua e la, arriviamo alla spiaggia smontiamo e dove un Capitano mai visto, ci spiega la faccenda: si monta, si va in mare per un tot, ci si volta e si simula uno sbarco. Quando si abbassa il portellone saltiamo fuori e andiamo ad assemblare il mortaio vicino ad una qualche duna o avvallamento. Più chiaro e semplice di così! Risaliamo e con il cuore in gola mica tanto sicuri che ‘sto affare così pesante non s’inabissi non appena i cingoli non avessero toccato più la sabbia, muti come pesci, spettatori passivi, già con il fiato corto (avete visto le facce in attesa di spiaggiare, durante lo sbarco del film “salvate il Soldato Ryan? Peggio!), guadagnammo il largo per poi con una virata stretta ci mettemmo in direzione spiaggia. Il tizio che comanda, un sergente mi sembra, ci raccomanda: “appena il portellone è orizzontale saltate giù e poi fate quello che vi dirò di fare!”. Il motore va su di giri ed incomincia l’avvicinamento alla spiaggia, immagino dal rombo, a tutta forza. Passano minuti interminabili e il cuore va a mille, gli spruzzi d’acqua salata ci investono e sento il salato sulle labbra; un leggero strattone ci avverte che sotto abbiamo toccato sabbia. Forse non atteso così nell’immediato, il portellone comincia ad abbassarsi e noi ci prepariamo al balzo. Quando e bello dritto, sono il primo, uno mi da una pacca sul cranio ed io parto: butto l’occhio e non so che cosa, ma l’istinto mi dice che i particolari non tornano. Salto…..ploff…blob..glub…ed invece di sentire solido sotto di me, immaginavo ad una cinquantina di centimetri di profondità il massimo, non sento niente e cioè, sento solo acqua. Sprofondo e realizzo che sono immerso totalmente e ritto, ho una decina di centimetri d’acqua sopra il basco! Profondità valutata , 1,80! Cavoli! Un attimo di terrore, poi realizzo e mi spingo fuori dall’acqua puntando i piedi sul fondo sabbioso, faccio un bel respiro profondo e stabilisco che mi hanno mollato nel posto sbagliato; reimmergo ma siccome mi viene l’idea che sono tra scanno e scanno, programmo di saltellare sul fondo e prendendo profondi respiri quando riemergo, sento che in un dozzina di metri potrò uscirne almeno con la bocca per respirare normalmente. Il “tubo” mi grazia perché in acqua pesa meno e tra l’altro non si è riempito d’acqua sia perché ha un coperchio di gomma, sia perché la bocca sarebbe ben fuori del pelo dell’acqua, per cui il mio programma, grazie San Marco che eri presente, si conclude come previsto. L’LVT “frena” e viene quel tanto indietro talchè saltano giù tutti (questa volta con il terreno sotto i piedi) e scendono in acqua a darmi una mano. Mi scaricano il tubo, il Sergente mi dice “quanti sono questi?” indicando le dita della mano, li mando a fan…. e vedi un po’ te…connetto che ho perso il basco. Urlo per il basco, ed il “colleone” che ha diretto quest’infamia, cerca di farsi perdonare e con un “mezzo marinaio” in dotazione al vascone da bagno cingolato, mi recupera il prezioso copricapo (ancora attualmente conservato in apposito contenitore). Tutto ‘sto episodio ritengo non abbia durato più di tre o quattro minuti. Se i momenti di concitazione e di pura “cacarella” non mi offuscarono la mente, e se i ricordi non mi tradiscono, la faccenda finì a “tarallucci e vino” e pacche sulle spalle. Erano altri tempi, altra gente. Anche se brutti ed ignorantoni, gente che non si perdeva d’animo, gente abituata sin da piccoli a cavarsela, gente insomma “di mille primavere”: tutti rimontammo sul veicolo anfibio e dopo una cinquantina di metri (forse anche più), ripetemmo la faccenda, come il caso non fosse stato nostro. Quando arrivammo in spiaggia, fummo aspramente rimproverati dal Capitano che voleva sapere che accidenti era successo, la descrizione del fatto avvenne con la più totale confusione sicché, questo snocciola quattro imprecazioni e si affaccenda ad altre cose; prendemmo armi e bagagli e si rifece il tutto dall’inizio: prima di fare l’ulteriore salto in acqua mi sporsi bene per capire quanta profondità c’era sotto di me. Esperienza potenzialmente tragica, ma durante la notte quando non riuscivo a prender sonno ripensando ai fatti, mi dissi che questa è la dura vita del Lagunare “guerrier”! Certo, gli “amati” imboscati in fureria o in magazzino, potranno raccontare quando si bucarono un dito con una graffetta, o quando prendendo sonno sulla macchina da scrivere, rischiavano di farsi male, sbattendo il naso sui tasti, ma sicuramente non potranno aver vissuto avventure come questa. I tempi si fanno maturi per ripiegare in zaino anche la divisa di panno ed anche a quella do un mesto addio perché ci dicono che dovremo ritornare tutto il corredo a prescindere la divisa da libera che nel periodo di congedo sarà d’ordinanza. Tutto d’un tratto le temperature diventano calde e piombiamo in anticipo, in un’atmosfera estiva. Probabilmente perché non sapevano che altro farci fare, inventarono le gare di pattuglia. Vari plotoncini di, mi sembra, sei Lagunari, da un punto A ad un punto B della campagna verso Aquileia, dovevano nel più breve tempo possibile fare il percorso inframmezzato di varie prove: che mi ricordi io, valutazione delle distanze, guado corso d’acqua, tiro (simulato) di bomba a mano SRCM, ed altre che ora non mi ricordo. La prima pattuglia fu una vera fatica: un percorso che a parer mio doveva superare abbondantemente la quindicina di chilometri, in un caldo inusuale e sole cocente che rendeva ogni passo, una tortura; la cinghia del BM59 detto in gergo “Fal”, in qualsiasi posizione la mettevi, ti segava la pelle sotto la mimetica; gli anfibi di tela, usati pochissimo ed ancora rigidi in talune posizioni, producevano vesciche grandi come patate che poi scoppiavano in diretta e facendo poi sgorgare dalle povere martoriate carni, copiose fuoriuscite di sangue; le brache della mimetica anche se “accomodate” con lacci, si strofinavano sull’interno coscia, con effetti devastanti sulla pelle. Il sudore poi, che sgorgava copiosamente, andava a rafforzare efficacemente questo processo corrosivo. Il passo volutamente svelto (alla Lagunare si diceva allora), trinciava i polpacci, ed il plotone tendeva ad allungarsi nel percorso sicché, il sergente che comandava, doveva ogni tanto fermarsi e serrare sotto le fila perché sennò qualcuno sarebbe rimasto indietro e perso. Io ero un camminatore medio, ed in genere in questi “rash” restavo a metà del gruppo; alcuni restavano anche a qualche centinaio di metri e solo promesse di terribili ritorsioni facevano loro da ulteriore sprone. Notevole e stupefacente era invece l’andatura della “tuba” Gianni De Florio, un veneziano magro e minuto che con un passo forsennato, “tirava” indefessamente, apparentemente fresco e noncurante del caldo asfissiante. L’orgoglio mi spingeva a non perderlo, ma gli sforzi erano inutili: con quel passo corto ma di ritmo diabolico, dopo qualche centinaio di metri, si allontanava in solitaria. L’ho ritrovato circa un anno fa e naturalmente fisicamente molto cambiato (pure lui non riusciva a riconoscermi, giustamente direi), comunque sempre misurato, pacato e calmo… e come allora, “filosofo”. Quando si effettuò la seconda pattuglia, pensai bene di proteggere i piedi dalle vesciche con un congruo numero di cerotti nei punti topici, e cavigliere di calcistica reminescenza, quindi la tracolla del fucile venne avvolta ed “imbottita” con materiale gommoso tenuto in sesto da una legatura di fortuna. Le brache furono sistemate per bene ed accuratamente prima del via, per cui c’erano tutti i presupposti per un’ottima performance. Il sole picchiava allegro, le pesche già sugli alberi si dimostravano invitanti, ma in agguato ci attendeva un complesso dilemma: attraversare un canaletto in qualche modo, o allungare sino a trovare un ponticello? Consiglio del gruppo che valuta la situazione: bagnarsi voleva dire effettuare poi tutto il percorso con i piedi e forse gli indumenti bagnati quindi la cosa faceva presagire non poche “rogne”; allungare e passare dal ponte rischiava di farci perdere il tempo prezioso. Si decise per allungare. Per la miseria! Stringendo i denti e sbuffando come anime dannate, compimmo questo infernale giro, con una cadenza di passo allucinante, che penso se ora facessi una cosa del genere, mi ricovererebbero all’ospedale sicuramente: arrivammo senza fiato e ci sdraiammo sul ciglio della strada e per una buona mezz’ora nessuno più fiatò cercando di rientrare in se stessi. Ritornammo in CM e in camerata facemmo l’inventario dei danni. Non uno era rimasto illeso: pure con tutte le precauzioni, vesciche e scorticamenti decoravano i corpi di tutti gli “intrepidi” pattugliatori; doccia gelida (anche perché questo era il solo sistema di farla), e tutti in riga per apprendere che siamo arrivati primi. Urla e fischi e il Tenente Graziani è soddisfatto; certo aver “buggerato” gli assaltatori che ‘ste cose le facevano quasi tutti i giorni, fu un grande vanto. In bacheca, la”tabella” famosa, poi fu esposto il comunicato ufficiale con tanto di nomi e cognomi e graduatoria: primi! Fu una grande soddisfazione e confesso che non riuscii di far a meno questa volta, di appropriarmi di una cosa dell’Esercito; aprii subdolamente la bacheca e “requisii” lestamente il foglietto con tanto d’intestazione “Compagnia Armi d’Accompagnamento “Tobruk” ecc. ecc., e di timbro e firma del Tenente Graziani. “Reperto” che conservo tutt’ora tra i miei ricordi militari. In aria c’è odore di campo addestrativo, “i tiri” come in gergo si diceva allora. Sono prossimi e si andrà in zona montagnosa, si dice su per la Carnia. Ma questa è un’altra puntata. San Marco! Lagunare Dino Doveri.
Ed eccola un’altra puntata: la 18ª che dovrebbe essere l’ultima secondo i miei recenti programmi di stesura. Immagino la gioia e il sentimento di sollievo con le quali la maggior parte dei miei “amici” consociati accoglieranno tale notizia. Ebbene, proprio così non è; le puntate, lo ho deciso dopo ponderate valutazioni, saranno ventuno! Lo so che la notizia getterà i di cui sopra nella disperazione più nera, ma tant’é. Anche in funzione di quell’esiguo numero di comunque estimatori che più volte hanno incitato il prosieguo di questo diciamo così e con molta superbia, scherzo autobiografico. La diciannovesima vedrà il congedo. La ventesima sarà dedicata al periodo del CAR, dove invece avevo volontariamente omesso di scriverne perché nella progettuale visione generale della cosa, questo momento di naja così lontano dalla realtà “lagunare”, mi appariva, ad una considerazione superficiale, poco interessante e troppo “canoistico” (i Lagunari m’intenderanno di certo…). Invece ora, quasi alla fine della fatica, ritengo che pure questo tragicomico periodo per certi versi e di grande impatto per altri, fu un’esperienza di tutto rispetto e vale la pena di tornarci sopra. La ventunesima puntata invece, dovrebbe articolarsi a guisa d’appendice e buone ultime, le considerazioni conclusive su quindici mesi di naja e questi quanto abbiano influito sul bagaglio di acquisizioni che poi tutta la vita mi sono trascinato dietro. E come le vostre sveglie e frizzanti menti facilmente intuiscono, ci siamo: voci insistenti di campo estivo circolano con persistenza. Gli informati che si “svenano” di lavoro presso uffici e furerie, portano la conferma che tira aria di “tiri” e di campo d’addestramento. C’è fermento nell’aria: si rinverdiscono le nozioni mortaistiche, si assiste al sermone di comportamento su il cosa, il come ed il perché si faranno le prove a conclusione del nostro addestramento. Si delinea che il prossimo teatro delle nostre imminenti gesta, sarà con molta probabilità ancora una volta il carnico e prealpino ambiente a servitù militare. Ed in quel luogo si svolgerà in buona sostanza, l’esame finale! Si controlla l’attrezzatura e si verifica che al corredo richiesto non manchi niente. Sicché, Anno Domini 1967, poteva essere giugno o luglio, si carica tutta la mercanzia in CM e si parte per imperscrutabili orizzonti di gloria. Destinazione: poligono naturale della Val Cellina, località Klaut. Val Cellina mi evoca un termine dialettale delle mie parti con il quale viene – parlo degli anni ’60 – identificata l’azienda che distribuisce energia elettrica: "Celina” sta (stava), per quello che ora è “Enel”. Klaut ha assonanze con la ruvida e gutturale lingua teutonica e mi suona a guisa di Klagenfurt o Kurt; stabiliamo con la sicurezza e la proverbiale supponenza dei vent’anni, che il posto sarà senz’altro ai confini con l’Austria. Tuttavia c’è quel “K” dato per scontato e che in Claut c’entra come i cavoli a merenda, dicono gli intellettuali televisivi, e cioè: Klaut non è Klaut ma Claut…”ostregheta”! Naturalmente scopriamo subito, consultando le ingiallite carte della Compagnia Tobruk, che proprio così si chiama il borgo che sarà teatro delle mirabolanti nostre gesta; trattasi di località sopra il Lago di Barcis, non molto distante da dove siamo. Peccato, si sarebbe potuto conoscere misteriose contrade di frontiera ed invece una corsettina appena sopra Maniago e saremo arrivati sul posto che vedrà le nostre conclusive ed indubbiamente “epiche”, nonché sicuramente gloriose imprese di consumati mortaisti. Sta di fatto che l’entusiasmo è alle stelle e i Lagunari, come dice uno degli attuali Comandanti in servizio, “sono gasatissimi!” Bacio in bocca (da fuoco) il mio mortaione, lo depongo con delicatezza e cura amorevole in una cassa di legno color verde militare con un bel numero 1 bianco dipinto sopra, lo carico con i suoi fratelloni nel mezzo di trasporto, mi piglio in armeria una Beretta mod. 34 con tanto di fondina e correggiolo (non il Fal questa volta per noi vecchi mortaisti, ma il buon vecchio Garand di onorata fattura statunitense: se ci fossero guardie da fare, seguirà per suo conto verso il Campo di tiro), e dopo aver caricato zaini e zainetti sul centro del CM, in una rutilante alba estiva, partiam, partiam, partiamo! La gente è allegra perché finalmente si va fuori della routine di caserma; discretamente compressi sulle panche del CM, con bagagli e attrezzature varie che protrudono da tutte le parti, qualcuno ha la rischiosa idea di dar dentro all’assaggio del micidiale “cordiale” di produzione militare, incandescente e caustico liquido venefico contenuto in bustine di plastica trasparente: l’indefinibile liquore, che comunque come gradazione alcolica era ben dotato, favorisce una raffica di cori di estrazioni ed origini le più disparate ed eterogenee. Tra un “Se non ci conoscete guardateci sul basco…” che si concludeva invariabilmente con “Se la corrente elettrica è una corrente forte, chi tocca il Lagunare pericolo di morte – bombe a man e carezze col pugnaaaal!”, ed un “Allarmi! Allarmi! Siam congedanti! Un passo avanti…” e dove si cantava di un treno ricoperto di “fiori bianchi, tutto pieno di congedanti…”, verso il Lago di Barcis un reverente intervallo per ammirare un orrido dove un torrente con l’acqua più cristallina che si fosse veduta, aveva creato una meraviglia da gustare anche se “accalorati” da canti e libagioni mattutine. Quindi come tradizione, un immancabile tributo alla “Fanteria” alla quale notoriamente capita che “e se la sposa, la sposa con onore, perché ch….ta da un Lagunar!” Tiè! ‘Sta “fanteria” (e pure tutti sapevamo che noi pure c’eravamo dentro), in casa lagunare proprio non la sopportava nessuno; quell’àncora sul fregio…quel Leone di San Marco…avranno pure significato qualche cosa…?! Verso la massima azione del cordiale ingurgitato, la vena malinconica faceva attaccare roba di molti anni addietro e quasi sicuramente un “Di la e di qua del Piave ci sta un’osteria, un osteria…” dove c’è da (haimè) bere e da mangiare...”. All’apice dell’azione di raffreddamento, si concludeva con un quanto mai mesto “Era una notte nera nera, e tirava un forte vento, immaginatevi che grande tormento per un Lagunar fare il soldà” , dove la corretta dizione prevedeva al posto dell’errato “Lagunar”, un più appropriato “Alpin”. E via così sin che il cartello stradale di Claut ci dice che ci siamo. Subito prima di un ponticello di pietra, si volta a destra e ballonzolando su stradine tutte sassi e costeggiate da bassi e novelli alberetti di conifera, larice e latifoglio, ci depositano ad un tiro di schioppo dal greto, larghissimo e composto da ciotoloni e massi bianchi, del leggendario torrente Cellina parte integrante ci spiegheranno poi, del bacino idrico relativo al comprensorio del Meduna - Cellina. Il sole ha da poco fatto capolino sopra le alture crestate che circondano il luogo e l’aria è frizzante e secca. Allestimento del campo. Brache corte, calzettoni ed anfibi e petto nudo, e naturalmente basco ben calcato sul cranio, riceviamo istruzioni dal Sergente Francis sul come assemblare una tenda per sei anime usufruendo dei misteriosi teli tenda e degli altrettanto misteriosi tubetti in metallo che ci trascinavamo dall’inizio della naja avvolti nella coperta allacciata al mitico zainetto tattico. É la prima volta che, pur avendo già avuto esperienza di campi, mi e ci capita di dormire nella tendina che se ne ricava con questo sistema. Maraviglia delle meraviglie, i teli combaciano, i bottoni metallici si infilano nelle rispettive asole del telo tenda del commilitone coabitante “fratello di naja”. I tubetti metallici uniti ad incastro tengono in tensione e sollevano il tutto per davvero e orgoglio misto a soddisfazione, l’assemblaggio prende corpo; alcuni studi per “combinare” le due teste della tenda, “et voilà”, la superlativa progettazione tecnica del materiale militare, si rivela nella sua fantasmagorica magnificenza. Pure le aperture/finestrine per guardare fuori della tenda ottenute con il buco ricavato per far fuoriuscire la testa dell’inarrivabile “poncho” che il telo tenda noi credevamo, avesse come unico uso e scopo. La bassa tendina così ottenuta, era anche bellina e orgogliosamente, scartando l’idea poco maschia e “guerriera” di ornare il tutto con qualche rametto di pino o orribile a dirsi, qualche ciclamino del sotto bosco vicino, qualcuno ci appese all’apertura un pezzo di cartone con la scritta “ ho tu che entri, baffo maledetto, abbandona ogni speranza!”, reminescenza di scolastiche scorribande nell’opera dantesca. Il vecchio che per niente viene chiamato “vecchio”, e cioè alcuni di noi che hanno già provato a dormire sul duro terreno nudo e non fo' per dire ma "gente di mille primavere", approntano uno spessore di ramaglie di pino da coprire con i famosi fogli di plastica reduci dalla “Down Clear” di Bibione; il tutto attentamente sistemato sotto il micidiale “materassino pneumatico gonfiabile” di infausta esperienza. Passiamo tutta la mattina affaccendati a tale impegno ed al rancio percepisco che le spalle mi bruciacchiano assai; nel pomeriggio i bruciori si fanno micidiali e delle belle bolle alte un dito, ovviamente messo in orizzontale, come da classica scottatura solare compaiono copiosamente sulle mie spalle: mi sono beccato da “mona”, una fantastica rosolata. Manco riesco ad infilarmi la camicia per la libera uscita della sera. I solidali “fratelli di naja” che vedono tale scempio, invece di andar per trattorie, si precipitano in farmacia del paese a qualche chilometro e mi portano a casa (si fa per dire…in tendina insomma!), un tubone di pomata anti scottature che ancora ricordo, si chiamava “Vegetallumina”: una pasta bianca puzzolente e molto solida che a spalmarla sulle martoriate carni, era un supplizio. Il buon Dario Bari, che Dio l’abbia in gloria, pazientemente e da vero amico, con delicatezza mi spalma sulle spalle ‘sta pasta che non vuol farsi spalmare: la schiena diverrà tra urli ed imprecazioni, completamente bianca. Poi a pancia in giù affronterò la prima notte di sonno (quasi tutta veglia per la verità), in quel di Claut. L’indomani sento che i bruciori sono diminuiti notevolmente ma passando le dita sulle spalle, rilevo che bolle ed ipersensibilità sono ben presenti. L’eritema è al massimo del suo splendore. Dopo i relativi riti militari della sveglia, ci comunicano che la mattinata sarà dedicata ad ambientarci con il mortaio in previsione della imminente sparatoria. Vado in tenda che funge da armeria e dove il mio “mortaione” torreggia nel suo nobile e minaccioso gigantismo; imbrago il “tubo” nell’apposito sistema/zaino, e con l’aiuto del fratello di naja, con cautela lo appoggio alle spalle: dolore lancinante, lacrimazione, bruciore ed inevitabile rottura delle vesciche in corrispondenza degli spallacci! Non ce la faccio! Invece di marcare visita, mi viene in mente di dirigermi verso la tenda che funge da Comando di Compagnia con l’intenzione di evitare il medico per una simile puttanata, ma di chiedere al Comandante di Compagnia di essere esentato dal trasporto della “bocca da fuoco”, essendo quella per l’occasione, la mia competenza nell’organizzazione del sistema/arma. Haimè scopro che per quella esercitazione, il ruolo di Comandate di Compagnia è stato preso dal Capitano Canfora ed il Tenente Graziani passa a Vice Comandante. Oramai la frittata è fatta e mi presento da quest’uomo che in me desta dall’episodio del Circolo Sottufficiali, una sensazione di disagio e anche qualche cosa d’altro. Gli espongo i fatti, gli faccio vedere la scottatura che mi variega le spalle e chiedo di poter essere momentaneamente esentato dal trasposto del pezzo. Come era oramai prevedibile reazione dell’uomo, egli prendeva subito una colorazione carminio/ violacea per poi degradare gradatamente, durante l’emissione del suo forbito eloquio da caserma, in un caldo color granata che poi si stabilizzava sul rosso porpora medio/chiaro. Una sequela di considerazioni colorite a me rivolte in dialetto campano e probabilmente partenopeo, delle quali ricordo, quella meno offensiva fu un “…ma guarda se si può essere più coglione di così, chist’ so’ uomm e’mmerda…” Tuttavia ne esco con un’esenzione per quel giorno, e la indiscutibile certezza che io e quell’uomo non avremmo mai potuto avere un punto di contatto. Me ne sto tutto il giorno in tenda ed ogni paio d’ore mi faccio dare da qualche volontaria buonanima , una spalmata della miracolosa pomata. Il giorno seguente è un giorno di transizione; il Sergente Francis mi evita ancora il trasporto e me la cavo con le paline ed il congegno di puntamento. I bruciori tendono ad attenuarsi ma devo stare ben attento al calore del sole che pur attraverso alla giacca della mimetica, se non direttamente, ma ottiene dei risultati di tutto rispetto. Tuttavia, visto che sono già due giorni che si va in postazione ma non si tira un colpo, e teniamo presente che questa era l’occasione ultima per “per dargli una botta” con ‘sto accidenti di mortaio, cominciamo a porci delle motivate domande: ma si sparerà sul serio con la famigerata arma…o no? Durante l’intervallo dell’ennesima sessione d’addestramento “in bianco”, decido di gironzolare dalle parti della postazione di Comando; chiedo al Francis che ne sa meno di me, tento con lo Sten. Bordon e qui colgo che c’è qualche cosa che non va. Giracchio attorno Tenente Graziani, vedo che l’atmosfera è cameratesca e allora tento e la butto li: “ma Signor Tenente, quand’è che spariamo le bombe vere invece di fare il solito bum con la bocca?” La risposta è più o meno questa: “ragazzi, forse se tutto va bene tiriamo qualche colpo con l’ 81; con il 120 sembrerebbe, anzi è certo, che le famose bombe Pepa manco le vediamo in fotografia!” “Ma Signor Tenente” dico, “e tutto ‘sto impianto per non tirare neanche un colpo con il 120? Non ci credo!” “Credici, credici” mi conferma Lui. “E allora tutta la naja per imparare un cosa che non faremo mai. Dodici mesi e mezzo di su e giù con il Mortaio da 120 per poi andare in bianco. Tutto: corso, esercitazioni, scarpinate e quant’altro, per niente?”, dico io. “Amici miei, qui le cose da quel che ho capito io, stanno così: soldi per le bombe, e chissà per quante altre cose ancora, non ce ne stanno. Lo Stato non sgancia. Punto e basta”. Mentre scrivo (novembre 2006) mi rendo conto che quarant’anni fa, già i finanziamenti per le Forze Armate, erano intristiti dei cronici tagli di spesa che pure attualmente vengono sofferti dal comparto militare e denunciati dai vari Capi di Stato Maggiore. Ora con la figura del volontario e la diminuzione del personale, è cambiato tutto. Ma è cambiato tutto nel senso “gattopardesco” del concetto e cioè “cambia tutto perché non cambi nulla!” Mah! Un senso di incompiutezza e di demoralizzazione ci assale. Qualche imprecazione, nei confronti dell’ “establishment”, considerazioni le più disparate ma assolutamente negative. Tutte. Ci cuociamo per un paio di giorni sotto un sole impietoso, dentro a buche ricavate tra i sassi nel larghissimo greto del torrente Cellina; guardo triste la bocca del “tubo” che sembra mi dica “hai hai, hai; mi avete tradito! Manco una fiammata mi fate fare!” Poi, visto che tutti avevamo capito che così sarebbe andata, i nostri Comandanti per far passare il tempo ci faranno fare delle mirabolanti scarpinate su è giù per le rive di ‘sto torrente, che alla sera s’arrivava al campo distrutti e demoliti. Sempre alla facciaccia dei colleghi imboscati al fresco in qualche tenda o a spellarsi le natiche su qualche sgabello di fureria. Domani mattina si va a fare “sgombro poligono” che poi sarebbe che si deve controllare che nessuno deve accedere a quel ghiaione perché li ci tirano gli 81. La sera imbastiamo un programma dove si prevede una sontuosa mangiata in qualche trattoria di Claut. Vado a lavarmi alla bellemmeglio con l’acqua del torrente; è ghiacciata! Sollievo per la schiena ustionata ma per il resto… da farsi venire una sincope. Urlando e lavandomi a pezzi, nudo come un verme in bilico su di un pietrone, mi risciacquo il mitico sapone tutto fare della naja usando la gavetta d’alluminio ad uso rancio ed a pezzi riesco a compire l’opera; una saponata pure al cespuglio di corti capelli massacrati dal famigerato barbiere di battaglione, e mi sembrava d’essere tornato nuovo e pimpante. Torno ciabattando verso la tendina; mi vede il Tenente Mangione del “Marghera”: “dove vai in quelle condizioni, minchione a tre punte?” scartavetra nei miei confronti l’Ufficiale. Chissà cosa avevo che non gli andava datosi che a fine servizio tutti se ne andavano in giro per il campo conciati nei modi più diversi ed estemporanei. “Stai punito!” Vabbè…starò punito…Bho, non mi chiede il nome e mi lascia così su l’attenti in mezzo al campo. Se ne va. Mi guardo in giro: tutti sono affaccendati per andare fuori; ma vaffa…me ne vado in tenda e mi vesto per la libera. All’uscita dal campo a passarti d’ispezione c’e lui. Si… il Mangione! Mi metto in riga, questo passa, controlla, non mi riconosce o almeno credo, ci intima di limitare le coglionate d’uso e via… fuori! Succede che a far le stesse cose che eravamo andati a fare noi Lagunari, c’era pure (spero che la memoria non mi tradisca nell’identificazione), il 151° Reggimento di Fanteria “Sassari” di stanza a Trieste: l’incontro avviene dopo una curva sulla strada che porta a Claut. Accedono alla strada uscendo da un sentiero che porta al loro campo: quasi ci sbattiamo contro. Loro hanno le mostrine bianche e rosse, non ci giurerei ma parlano in sardo ma poteva essere pure una parlata meridionale per quello che allora ne capivo io. I baschi cloro cachi, stature bassine, carnagioni brune, divise smisurate, mal messi ed ingrugniti. Siccome nessuno cede il passo, ci affianchiamo già guardandoci in cagnesco. Il clima diventa elettrico in un baleno. Certo noi, per quell’inveterata abitudine di ritenerci meglio, più belli, Lagunari poi…”della laguna la più bella gioventù”, con il bascaccio nero (in giro di baschi neri non se ne vedevano mai e quindi si pensava di essere gli unici a portarlo di questo colore), con le nostre “differenze” sulla divisa, il Mau al taschino, il volantino sulla spalla sinistra con i luccicanti distintivi d’incarico, le sole stellette alla camicia, quasi tutti muniti del bel cordone rosso-giallo – dai “vecchi” sino agli alti gradi - tutti con le nostre scarpette fuori ordinanza, e loro… bruttini anzichennò, con degli scarponacci dissestati da marmittoni, la onde per cui succede che una battuta ne tira l’altra - come le ciliegie - loro rispondono in “lingua” ma i visi sono seri e decisi, si forma qualche capannello con la sana e convinta convinzione di addivenire allo scontro fisico. Passa fortunatamente la campagnola nostra con tanto di ronda e quindi si riesce ad arrivare in paese senza spargimenti di sangue. In trattoria, mangia, bevi, ridi, scherza purtroppo anche pesantemente da ambo le parti, intuisco la mala parata e propongo di cambiare aria; andiamo in una birreria e trascorriamo li il tempo della libera uscita. Giunge l’ora del rientro e la logica vuole che ci troviamo loro del Sassari e noi Lagunari, sempre percorrendo la stessa strada del rientro. Gli animi son caldi più per le bevute che per la reale antipatia. In una piazzola incomincia la bagarre: uno da Sacca Fisola profferisce un classico “chi cani dei to’ morti!”, simpatico (forse), intercalare dialettale che di solito vuol dire “ma va la”, un Sassari intuisce invece la versione letterale e tosto appioppa una testata in pieno viso al veneziano; i nostri, più altini di statura, rispondono con precisi diretti al cranio e nello specifico al mento senza disdegnare le folte arcate sopraciliari che caratterizzano le fisionomie moresche della controparte. In pochi secondi, c’è gente che si sta strozzando ai bordi della strada; cerco di defilarmi ma all’improvviso quando oramai stavo guadagnando il limbo, mi arriva una pedata a mezza coscia che mi toglie il fiato e mi fa inginocchiare per terra. E’ buio profondo e la scena si svolge ad intuito, favorita dal chiarore degli astri che rabbrividiscono alla furibonda scena; percepisco che il “calciatore” è dietro di me in attesa del prosieguo. La cosa è cinematografica. In ginocchio, con un dolore lancinante al muscolo della coscia, alzo velocemente il braccio per parare una seconda botta che mi sembra arrivare e fortuna degli innocenti… con forza colpisco il tizio proprio nei “pendenti”: questo si accascia e digrigna i denti intuisco nel buio dagli ululati, tenendosi i gioielli di famiglia nell’intento di lenire il dolore. Rimane li per terra e per quanto mi riguarda me ne vado e si arrangi. Chi di spada ferisce, di spada perisce! Sassari Uno, Venezia uno! La caciara continua financo l’arrivo precipitoso degli addetti alla sicurezza di ambo i reparti; io e gli altri amici già siamo a qualche centinaio di metri dalla bolgia incandescente ed alle nostre spalle si perpetra una bella “retata”in stile filmico: molti se ne finiscono direttamente in CPR per proprio conto nei rispettivi campi. Concludo la serata disteso sul materassino tra un’imprecazione per le pulsazioni al muscolo della coscia, una litania per le sfiammate della schiena arrosto, ed un cantata favorita dalle abbondanti libagioni di poco prima, intonando le canzoni di allora, alla cow boy con tanto di chitarra, la mia fida Eko detta “Bruna” pervicacemente trascinata appresso per tutta la naja.. Arriva il Ten. Graziani, mi supplica di non distruggere con la mia esecuzione, i padiglioni auricolari del prossimo, e visto che non la mollo, mi intima, pena l’indomani lo svuotamento delle latrine da campo. Il salutare ed immediato silenzio e…tutti a nanna. Il mattino dopo, all’adunata, dopo la classica gamella di caffellatte e lignee gallette della Cric, troviamo ad attenderci il Capitano Canfora. Aveva già assunto il caldo color violetto di quando era in sovra pressione, colore che caratterizzava la nobile espressione. “Se succede che quando andate fuori la prossima volta, attaccate ancora briga con il Sassari, fuori non ci andate più!”. “Se qualcuno di voi rompe ancora le palle con quelli della Sassari, gli do tanta di quella CPR che va in congedo a Natale!” Ci guardiamo e sapendo il caratterino dolce e bonario dell’uomo, i “vecchi” non aprono bocca; un “baffo” se ne esce con: “ma sono stati loro ad attaccarla e vuole che noi, che siamo quello che siamo, non rispondiamo per le rime?”. Il Canfora strabuzza gli occhi ed il colore violetto si manifesta pure sulle labbra e sulle orecchie: “Perche, noi cosa siamo, di grazia?” Quell’altro si fa coraggio e sicuro la butta li: “noi siamo Lagunari, la nostra storia, la nostra tradizione, siamo gli eredi delle tradizioni della Serenissima…i Fanti da Mar… e poi… loro sono terroni!” Le vene del collo dell’ufficiale divengono gonfie e turgide, gli occhi tendono a fuoruscire dai rispettivi fori orbitali, ha un intorcinamento delle labbra, arrota i denti e sputa bava: “ ma chist’ cazz, coglione d’un “polentone”! Ma che cazz’ vuoi saperne tu di tradizioni e di storia! Ma lo sai che storia ha la Sassari alle spalle? Terroni sono? (lui mi sembra era campano); certo!” “Certo, è vero che i terroni sono differenti di voi, anzi siamo differenti. Ma lo sai dove sta la differenza? La differenza sta sul fatto che voi pensate solo a lavorare da polentoni di “mmerda” ed invece noi terroni pensiamo a fottere! Capito bene: a fottere!” “C’è qualcuno di voi “polentoni del cazz’” che deve replicare su quanto ho detto?” L’occhio era cosparso di impressionanti venuzze sanguigne e le narici dilatate in attesa del polentone che replicasse. E qui la sopraggiunta prudenza del “polentone di mmerda”, si dimostrò più produttiva del carattere sanguigno del terrone, perché tutti se ne stettero zitti e ben si ritenne che la cosa doveva decantare opportunamente. “Questa mattina tutti una bella passeggiata su e giù per il Cellina!” “Tenente, mi formi una Guardia che vada a fare “sgombro poligono” . Lo Sten. ne piglia una decina, io tra questi, e quel giorno si va a controllare che qualche laborioso contadino friulano, vada a farsi centrare da qualche “pillola” da 81. Mi agguanto il Garand, e con la campagnola mi portano sul luogo; mi schiaffano sul ponticello in pietra fuori dello sterrato del Campo; a lato una carrabile all’inizio della quale c’è una specie di sbarra, una pertica, chiude la stradina che fiancheggia un canalone che s’innalza verso la montagna. L’ordine è perentorio: nessuno deve andare oltre quella sbarra, neanche i paesani che vanno a fieno. Possono passare solo militari del Serenissima! Saranno le 08,30; comincio a ciondolare davanti alla sbarra. Passa poco tempo e si presenta il buon contadino friulano con tanto di gerla e falce per andar a fieno occorrente al bovino in stalla. Gli spiego che non si può passare. L’ometto mi guarda malevolo e comincia una sfilza di imprecazioni impressionante; non capisco un’acca di quello che il nervoso ometto insiste a comunicarmi in stretta lingua friulana. Cerco di esprimermi in italiano ma lui o c’è o ci fa, sta di fatto che la cosa si “inghippa”. Piglio la radio che ho in dotazione e comunico la crisi nascente. Arriva un nostro Ufficiale, cerca di convincere il tizio che li si stanno tirando “mortaiate” se pur da 81, ma questo niente! Sbraita e vuol forzare il “posto di blocco”. Impugno a due mani il Garand e mi metto per traverso davanti alla sbarra; l’ometto brandisce minacciosamente la falce ed il sottoscritto se la vede brutta. Tuttavia prudentemente e fortunatamente (per me), non emula la Nera Signora che recidendo teste limita la popolazione del Mondo, ma incazzato urla offese incomprensibili sino all’arrivo di due Carabinieri chiamati all’uopo, che lo convincono per quel giorno ad andar alla malga a far formaggi. Scosso più che mai, mi ricompongo e mi accorgo che con ‘sta storia sono già passate diverse ore. Ad un certo punto, sarà per l’emozione della scaramuccia di prima o sarà perché così doveva essere, ho un impellente necessità di espletare una funzione fisiologica; “Mai abbandonare il posto di guardia! Pena Peschiera o Gaeta!” Quindi memore di tale norma, radiochiedo una momentanea sostituzione; di la mi dicono che arriva tosto uno. Passa il tempo, la pressione aumenta ma di cambi non se ne vedono. O macchiare la mia mimetica, o infischiarmene del regolamento e compiere l’atto liberatorio. Opto per la seconda soluzione. Appoggio il Garand all’interno dell’arcata del ponticello, m’inoltro sotto la volta e identifico un anfratto dietro un arbusto. Finalmente disbrigo l’impellenza. Sono nel bel mezzo dell’opera, quando arriva la campagnola con il momentaneo sostituto. In campagnola c’è anche il Tenente Graziani; vede il Garand appoggiato all’arcata del ponte e lo prende! Tragedia! “Non si deve mai abbandonare l’arma!” Non mi ricordo più se la cosa era considerata “mancanza grave” e ripagata con la fucilazione sul posto, ma di cosa serissima comunque si trattava. “Hao? Ma dove cacchio si è cacciato questo qua?” “Son qui Sior Tenente. Mi scappava di brutto…” Con la brache in mano, alla bellemeglio galoppo fuori da sotto il ponte e mi trovo il gruppetto in campagnola che sghignazza ed il mio Garand tra le mani del Tenente Graziani. L’occhio è severo e l’aria è elettrica: “Sior Tenente, non ce la facevo più. Ho dovuto…ho dovuto...non c'era alternativa!”. “Ma almeno potevi portarti dietro il fucile! Ma lo sai che potrebbero essere cazzi?” Già il fatto che dicesse “potrebbero” invece che “sono”, è buon auspicio. Attacco al solfa: “ho chiesto la momentanea sostituzione un’ora fa e io più di così non riuscivo a tenermi Sior Tenente… Ero sull’orlo dello svenimento dai dolori di ventre e non ci ho capito più niente ed ho ammollato il fucile dove mi è capitato…” Come sempre faceva, il Tenente Graziani ti guardava dritto negli occhi per vedere se raccontavi una bubbola o se eri sincero. Ero sincero, pensò. Mi lancia il Garand e se ne va in campagnola dove gli altri si sganasciano per la scenetta appena goduta; ormai è l’ora di rancio. La paura è passata e ringrazio Dio di aver provveduto ad assegnarmi un Comandante così comprensivo; la pancia brontola dalla fame ora, ma non arriva nulla. Mi trascino verso sera, oramai non sapendo più come passare il tempo; ogni tanto uno si ferma a chiacchierare, ma di cambio nemmeno l’ombra. Consumo una quantità industriale di Nazionali con Filtro, mi esercito nel tiro della baionetta contro un grosso albero, accendo al radio ma smenando colgo solo trasmissioni incomprensibili di coordinate per i tiri. Due palle… I colleghi dall’altra parte della strada, affluiscono verso Claut per la libera uscita, la luna scompare dietro le creste rocciose e gli astri cominciano a luccicare (in qugli anni non c’era l’ora legale), nella volta celeste. Dopo un’altra buona oretta, passa la campagnola a recuperarci: oltre dodici ore di guardia ininterrotta. Dopo esserci precipitati alle cucine da campo a recuperare qualche fondo di pignatta, ci scaraventiamo in cuccia e partiamo per una dormita ristoratrice. Prima della sveglia, cosa oltremodo sospetta, mi scuote il Sergente Francis: “hoè angioletti, sveglia e prepararsi a fare un’altra giornatina di guardia “sgombro poligono!” Ma come? Me se ieri per tutta la giornata ci siamo “ingroppati” ‘sto cavolo di “sgombro poligono” senza neanche un intervallo…una turnazione, per più di dodici ore?. “Guagliò, questo sono gli ordini, rapidi e prepararsi! Azione!” Bestemmie a raffica. Uno la butta li: “ma il regolamento dice che non si può fare più di un tot di ore di guardia consecutiva (non ricordo i termini), in ventiquattrore e a noi ci rischiaffano un’altra volta per tutta la giornata a romperci i cosiddetti con ‘sta cazzata di “sgombro poligono!” Ammutinamento! Beh, ammutinamento no ma parlarne si… Uno dice: “tanto mica ci ascoltano a noi. Però un’altra giornata intera di guardia è da suicidio” Mi viene l’idea: dico “se fisicamente non ce la facciamo, vuol dire che non stiamo bene; e se non stiamo bene, significa che abbiamo dei disturbi fisici e quindi si prospetta la possibilità di marcare visita…” Sei, che marcano visita (mai marcato visita in tutto il periodo di naja), sono sospetti, tuttavia pensiamo che qualcuno ci chiederà pure perché marchiamo visita. Il regolamento parla chiaro (almeno spero che non mi abbiano raccontato una cacchiata). Andiamo dal Caporale di Giornata e diamo i nomi per la visita medica. Ci presentiamo dal medico tutti e sei e giù a spiegare che la faccenda di un altro giorno di guardia in quella maniera, non è giusto e non è corretto e manco previsto dal regolamento. Il medico fa due più due e ci spedisce dal Tenente Graziani. “Oh!? Ma che accidenti mi state combinando? Cos’è ‘sta faccenda che non volete eseguire un’ordine?” Siamo li sull’attenti, nessuno parla, ma convinto dell’ingiustizia attacco io e spiego il prologo della torbida faccenda. “Non muovetevi da qui che vado a sentire io com’è la cosa”, dice il Tenente Graziani. Se ne parte di gran carriera verso il Comando e se ne sta via un’oretta buona. Noi in tenda neanche fiatiamo e attendiamo di sapere quanti giorni di CPR ci ammollano questa volta. Il Tenente Graziani ritorna, noi ci schiaffiamo sull’attenti e ci accingiamo alle dolenti note: “siete esentati dal prossimo turno di guardia per “sgombro poligono” e… farete normale attività di Compagnia; adesso mi hanno sentito e imparino a mandare anche quelli delle altre compagnie… porca miseria!” Non ci sembra vero. Ma non è finita li: “ma siccome queste cose un Lagunare non le fa, voi avete sbagliato! Non avete avuto fiducia nel comunicarmi il problema; non avete avuto fiducia del vostro Comandante e se mi aveste serenamente detto della cosa, avrei agito in merito prima di questo casino che avete piantato, mannaggia a voi! Per mancanza di fiducia nel vostro Comandante e perché avete disobbedito ad un ordine…(immaginavo cose tragiche in arrivo), questa sera niente libera uscita e questa volta per passatempo andate a occuparvi delle latrine da campo!” Un sospiro di sollievo, anche se le latrine da campo erano una vera prova infernale; tuttavia tra quello che ci capita e quello che poteva capitarci, la bilancia pende notevolmente a nostro favore, per cui visi più distesi e via a far chissà che cosa. La lezione fu importante, ma tutti noi capimmo che il nostro Comandante, il Tenente Graziani, ci aveva difeso e nel contempo ci aveva evitato guai grossi. La mia stima e rispetto per quell’ Uomo con la “U” maiuscola mi permetto io di asserire, crebbe a dismisura e a tutt’oggi penso di aver trovato nella mia vita, pochissime persone di quello spessore morale . Grazie per la lezione e “Comandi, Signor Tenente!”. Anche a quarant’anni di distanza. Una paio di giorni ancora, è chiudemmo bottega; tiri a fuoco per quanto ne so io, con il mortaio da 120, il 2° 66 del Rgt. Lagunari “Serenissima” non ne fece e mai li farà. Torniamo a Villa Triste per l’ultimo mese, mese e mezzo di naja . Il traguardo è prossimo e la cosa ci mette di buon umore, tuttavia incomincia se pur molti di noi lo avvertano segretamente e non lo manifestino più di tanto, a profilarsi un certo clima di malinconia… Ma come mi è oramai consueto uso per accomiatarmi…. questa sarà un’altra puntata! San Marco! Lagunare Dino Doveri.
Conseguentemente al progetto di procedere alla chiusura dei “racconti di naja” delineato nella precedente puntata, vi propongo l’ultima tranche delle mie vicende propriamente “lagunari”. E’ la diciannovesima e sarà dedicata all’addio ai sacri suoli. Non so come impostarla questa puntata; fatti degni di nota non me ne ricordo o non ne avvennero. Si tirava a campare in attesa del giorno fatidico. Scrivendo queste righe, strada facendo mi sforzerò di rovistare nella memoria. L’estate era splendida e qualche “passeggiatina” su è giù per la campagna friulana si riusciva ancora a portarla a termine: delle pattuglie mica male e sempre infarcite di percorsi lunghi e polverosi, ma mitigate da un’aria di sbaraccamento. Più che a piazzarsi secondo gli standard competitivi o ad arrivare primi, si pensava a trovare un buon albero frondoso dove sotto la sua ombra, fagocitare la bella e fragrante frutta che qualche agricoltore locale avrebbe pianto. Le calure estive inducevano a fine del servizio pomeridiano, ad una bella doccia ristoratrice naturalmente fredda e rinvigorente, alla fine della quale ci asciugavamo con il mitico “telo-asciugamano” una telaccia dura e cartavetrosa dai molteplici usi. Poi la libera uscita a ciondoloni in giro per le vicinanze. Contrariamente al periodo invernale, dove la doccia, calda naturalmente, era un lusso ed era concessa una volta la settimana, d’estate ci lasciavano sguazzare senza limiti e tempi determinati; tutti capivamo che tanta magnanimità e senso dell’igiene, era dovuto al fatto che l’acqua non doveva essere scaldata e quindi consumi di combustibile non ne avveniva e l’acqua (fredda), si supponeva, era un costo sicuramente abbordabile dall’amministrazione militare. Quando si finiva la doccia dopo una giornata di copioso sudore, era bello sedersi all’ombra sulla pensilina delle compagnia ed attendere l’ora della libera uscita, godendosi belli lindi di bucato e rinfrescati, un momento di pace e tranquillità: si chiacchierava dei futuri programmi, di cosa da civili avremmo voluto o potuto fare. Molti progetti ed un’ondata di sogni e di successo. Non era tutto roseo quel che si prospettava: chi non aveva un lavoro o non era specializzato in qualche cosa, chi prima della naja aveva lasciato una situazione incerta e si sarebbe trovato ancora nella stessa situazione di prima della partenza. Per molti in conclusione, le cose erano molto nebulose e freddamente incerte. Si era contenti si di finire la naja, ma nel contempo si era pure timorosi per quello che ora dopo il congedo ci attendeva. Durante queste pause in uno di questi tardi pomeriggi estivi, seduti tra le scale che portavano in camerata, la pensilina e la scaletta che discendeva sui binari, ci si stava appunto scambiando pareri e timori, suggerimenti ed impressioni, quando se ne esce dal magazzino di Compagnia il Maresciallo Lo Cascio. Non pensavamo, data l’ora, che ormai ci fosse rimasto qualcuno in Compagnia. Si parlava ad alta voce ed il Maresciallo aveva, attraverso la finestra aperta del magazzino, sentito tutto il nostro discorrere. Per la prima volta lo vediamo sorridere e il piglio è, invece del solito burbero e ruvido porsi, più morbido e accomodante. “Eh, ragazzi miei…certo che adesso per voi “l’hè dura”; se volete un suggerimento, chi non ha prospettive concrete di lavoro che lo aspettano a casa, ha mai pensato di mettere la firma nell’Esercito?” Ci si guarda in faccia piuttosto sorpresi e perplessi: difatti ogni tanto se ne era pure parlato. Il Sergente Francis più volte ci aveva illustrato che la cosa non era poi tragica come noi ritenevamo; da “firme” le cose cambiavano notevolmente e poi la vita militare non era poi questa tragedia che inizialmente ritenevamo. Ma troppo avevamo sognato di finire ‘sta vita inquadrata e scandita da regolamento, ordini e comparti predefiniti d’autorità, da altri. Noi sognavamo per l’immediato futuro, di far bene e far bene sopratutto da civili. Il Maresciallo Lo Cascio però prima di andarsene quel pomeriggio, disse la frase immortale: “Voi pensate che con il congedo i vostri problemi siano finiti, che le cose saranno senz’altro migliori solamente per il fatto che non avverranno più nel contesto militare. Io invece vi dico, e vedrete che per molti di voi avrò ragione, dopo il congedo incominciano veramente le cose serie della vita! Tra qualche anno se avremo occasione di rivederci, mi direte…mi direte…” Mai frase come quella fatidica del Maresciallo Lo Cascio fu così centrata e mi rincorse così spesso nei pensieri successivi, da “borghese”. I “cavoli amari” erano in agguato dopo il congedo e non prima; quasi tutti in quel momento non lo sapevamo e ci interessava solo di varcare il fatidico portone per l’ultima volta. Ah si, è vero…mi dimenticavo di Monfalcone e del “buco”. Per cui una sera si profila la possibilità, dato che il Dario ha portato da casa la fida e sgangherata 600, di andarsene a zonzo fuori distretto. Già a Grado l’avevamo rischiata bella, certo era che così, con il macinino del Dario, l’autostop non si sarebbe attuato giammai e quindi i pericoli diminuivano notevolmente e la possibilità dell’incontro devastante con il Tenente Di Benedetto detto Kriminal, si riduceva ai minimi termini. Quindi si decide e quella sera si va a Monfalcone. Luogo in cui nessuno di noi era mai stato e anche se naturalmente non si sarebbe trovato chissà che, era pur tuttavia una novità nella lagna di vita da caserma che oramai era diventata piatta e noiosa. Belli e stirati, tirati “a rajo” dicono in Veneto, ci involiamo con la sputacchiante 600 blu scuro, alla volta della rivierasca città caratterizzata da numerosi e storici cantieri navali. Una volta arrivati, si ciondola su e giù, si cerca di attaccare bottone con qualche ragazza: i tentativi naufragano uno dietro l’altro e perché si è compreso che le ragazze diffidano dei militari, e anche probabilmente perché nessuno di noi tre, il Dario, il Gianni ed io, eravamo campioni di bellezza virile: non eravamo “fighi” si direbbe adesso ed in verità eravamo dei normali, ne belli ne brutti; si faceva quel che si poteva ma certo è che le fanciulle non è che cadessero stecchite al nostro proporsi. Ci voleva tempo e metodica… Almeno…nelle immediatezze. Si giracchiò a zonzo qua e la, e come sempre ci si cacciò dentro una qualche trattoria e dopo il giusto rifocillamento, si pensò bene di guadagnare il rientro visto il tempo appena sufficiente. Sul forsennato filo dei sessanta all’ora, velocità consigliabile la onde escludere grippamenti e fusioni varie, l’asmatica 600 comincia qualche centinaio di metri prima del ponte sull’Isonzo, ad andarsene a zig-zag. Capiamo subito che abbiamo forato! Ruota anteriore sinistra! Manca un quarto d’ora al rientro. Ci fermiamo con il cerchione quasi a vivo sull’asfalto, davanti ad una osteria e ci apprestiamo a sostituire la ruota. Il Dario apre il cofano anteriore dove nella 600 alloggia la ruota di scorta e …tra mille imprecazioni si prende atto che della ruota suddetta…nemmeno l’ombra! Succede che il buon Dario aveva cambiato una lampadina la settimana prima e vai a capire il perché, l’elettrauto leva la ruota e evidentemente si dimentica di ripiazzarla al suo posto. Immane tragedia! Il cric e la chiave ci sono per cui leviamo intanto la ruota bucata, ma poi cosa fare mica ci era chiaro. L’orario è tale che tutti i luoghi deputati ad una possibile riparazione della gomma sono già chiusi da tempo. L’orologio ci dice che siamo già fuori orario. Tristemente valutiamo che ormai da “vecchi” congedanti, ci appiopperanno una punizione da leccarsi le orecchie. La necessità aguzza l’ingegno. E come sappiamo, se l’ingegno delle persone normali è buono, é manifesto e risaputo che l’ingegno dei Lagunari è eccelso. Sopraggiunge una seicento color verde oliva chiaro e ne scende non senza difficoltà, un ometto dal naso paonazzo e dalle guanciotte rubiconde assai, l’occhio acquoso e la risatina significativa ed arguta di chi non si è risparmiato in libagioni. Si ordina una misura da mezzo litro di “blanc” e si siede sui tavolini esterni dell’osteria; da li ci osserva armeggiare con la ruota e tirare moccoli in varie configurazioni. Gli sguardi s’incontrano e io penso che lui anche se parzialmente ottenebrato dai “tajut”, avendo una seicento già si è fatto un ragionamentino coerente. Lo stesso che ho fatto io. Mi dirigo dal tizio e ispirato attacco: “senta egregio signore, lei abita da queste parti?” Non ve la faccio lunga e quindi vado al sodo dettagliandovi che dopo due mezzi litri offerti di tasca nostra, l’ometto più ridanciano ed ingarbugliato che mai, apre il cofano e ci presta la sua ruota di scorta; domani sera dopo le opportune sostituzioni, il Dario provvederà a riportare la ruota in osteria dove l’oste la conserverà per renderla al nostro allegro benefattore. Buttiamo su la ruota ringraziando l’ometto che ancora mi ricordo, ci confida di chiamarsi Teonisto (e come si fa dimenticare un nome così), e ringraziando pure il dio Bacco di cotanta collaborazione, e toccando vette oltre gli ottanta all’ora, giungiamo incuneandoci ad incastro, nella stradina dove la 600 è normalmente parcheggiata vicino alla “A Bafile”. La stradina costeggia il perimetro della caserma e uno dei due amici, il Gianni De Prà dei due mi sembra, ha il lampo di genio che nella rete metallica di recinzione ci dovrebbe essere il famigerato “buco”. Per “buco” intendasi apertura proditoria di fortuna atta al rientro fraudolento fuori orario dei Lagunari ritardatari. L’alternativa era il rientro attraverso la porta principale ed automaticamente una botta di punizioni oltremodo sgradita ed inappropriata per il nostro amor proprio di “vecchi” già “borghesi” ed anche se vogliamo, di per se oltraggiosa. La logica immediata c’indirizza al “buco”. E’ buio, a fatica radendo la rete metallica con le mani, individuiamo l’apertura, guardiamo in giro oltre la recinzione per quanto si potesse vedere nell’oscurità totale, e via…si passa attraverso la rete. Io sono l’ultimo dei tre e non appena metto suola sul sacro territorio lagunare, da dietro una baracca si accende il raggio di una pila e perentorio e proferito da voce familiare giunge un secco “fermi la signori miei!” Porca la miseriaccia! Come baffi. Tali a baffi novellini. Peggio dei baffi… in quanto “noni”. Ed il bello è che accompagnato da altri due Lagunari di servizio, a “sgamarci” è proprio, la voce mi aveva fatto presagire la dura realtà, il nostro Comandante di Compagnia, il Tenente Graziani! Inizia una sequela di cazziatoni che noi in veneto traducevamo in “ciapar a carne”. Ma porca la peppina! Mi risulta che tre quarti del Battaglione “Isonzo”, dal “buco”, va dentro e fuori dalla caserma forse di più che dalla porta principale; tutti vanno e vengono senza essere mai beccati, e vuoi vedere che proprio noi sempre attenti a non fare cazzate, l’unica che abbiamo fatto ci triturano ben bene? Mi viene un moto di spavalderia inopportuna e poco adatta alla situazione. Lancio li: “E va ben Sior Tenente. Oramai siamo “noni”. Non sarà mica la fine del mondo… e poi siamo già “borghesi”…civili…” Mi arriva una manrovescio (anzi mandritto), che mi lascia impietrito sul posto. Ancora brucia sulla guancia sinistra! L’indole avrebbe dettato una reazione, ma la ragione ed il rispetto che avevo per il mio Comandante m’impongono la calma e mi fanno solo massaggiare la guancia arrossata per cotanto impatto. “…e ringrazia Dio che sono di luna buona! E ancor di più ringrazia Iddio che se c’era il Tenente Di Benedetto vedevate voi “borghesi” di che colore è il cielo dietro le sbarre. Via in camerata di corsa e senza rompere i cosiddetti!” La botta è dura da assorbire ma senza indugi e con la coda tra le gambe, ce ne andiamo in camerata. Io sento una rabbia sorda che mi macina le budella: pigliare uno sberlone di quella entità senza ritornarlo al mittente? Era dura a mandar giù. Non riesco a pigliar sonno: mi rosica. Poi calmandomi e cominciando a ragionare a mente fredda, stabilisco che: effettivamente eravamo noi in torto. Se ad aspettarci invece di Graziani c’era Di Benedetto o altri, senza dubbio la cosa sarebbe divenuta seria. Ma non seria poco: seria mooolto. Che non avessi compreso lo stato d’animo dell’Ufficiale e la sua reattività alle mia battuta da “smargiassetto” era evidente. Poi dovevo anche mettere sulla bilancia che il Tenente Graziani non aveva preso nei nostro confronti nessun provvedimento disciplinare. Era il “manrovescio” che dava fastidio più che altro. Il Dario mi fa: “certo che l’abbiamo scappata bella. Pensa se c’era qualche altro Ufficiale…” era vero. “Ma dai! Non incazzarti! Forse che tuo padre per farti comprendere con più efficacia quando ne fai una sbagliata, non ti ammolla qualche ceffone ben assestato?”. Il buon Dario era un filosofo e progenie come quasi tutti noi, di coppie nate agli albori del secolo, dove per rafforzare gli insegnamenti, i buoni genitori all’antica, corroboravano i dogmi educativi con qualche ben assestato ed amorevole sganassone. Il babbo erano diversi anni che mancava ma, per la verità gli insegnamenti me li aveva tonificati con qualche (molti), sonori e ruspanti schiaffoni di una volta. Ragionando in tali termini, la rabbia per il torto subito andava ridimensionandosi e tant’è che il giorno dopo, valutando tutte le “rogne” che il Tenente Graziani ci e mi aveva risparmiato, vedevo la “lecca” sopraggiunta, addirittura con riconoscenza. E oggi dopo tanti anni, non mi vergogno assolutamente nel dire: “grazie Signor Tenente!”. Grande personaggio il mio Comandante; anche quando menava fendenti! Qualche settimana dopo, durante il rancio di mezzogiorno, si presentano in mensa il Comandante di Battaglione Colonnello Mazzarella ed il Tenente Zitter. Il Comandante di Battaglione era l’autorità massima data a conoscere. Sapevamo di un Comandante di Reggimento al Lido di Venezia, ma questo per noi era figura astratta, leggendaria e per altro, evanescente e quasi sacra: mai lo avevamo visto e ritengo che molti di noi sospettassero che, o aveva l’aureola o addirittura si trattasse un’entità trascendentale. Comunque il fatto di essere a contatto con il Comandante di Battaglione, era cosa inusitata ed inconsueta; mai lo avevamo visto alla stessa nostra stessa altezza. Visto pochissime volte in occasioni speciali dove ci arringava da una pedana e altre volte ci esaminava, sempre dalla pedana famosa, quando alla mattina, reazione fisica si chiamava, ci si impegnava in pieno assetto di combattimento, in corse forsennate sul perimetro della piazza d’armi. Quindi, figura vista da noi sempre dal basso verso l’alto; nel frangente attuale, allo stesso piano: strabiliante e sbalorditivo! Su di un carrello della mensa ci mettono un paio di scatole e, traendole da quelle e sfilando tra i tavoli, il Comandante Col. Mazzarella ci consegna uno per uno, una medaglia bronzea che ancora conservo. Da una parte c’è effigiato il Mau e la scritta “Reggimento Lagunari Serenissima” e dall’altro lato il fregio lagunare ed il motto “Come lo scoglio infrango, come l’onda travolgo”. Ed uno per uno, cosa straordinaria ed inaspettata, il Comandante ci stringe la mano e ci indirizza uno stringato “Auguri!” Quando se ne va, siamo tutti a bocca aperta e ci rigiriamo pensando chissà a che, la medaglia che vale quattordici mesi di naja. Di naja nei Lagunari. Nei Lagunari del Battaglione “Isonzo”. Nei Lagunari del Battaglione Anfibio “Isonzo” del Reggimento Lagunari “Serenissima”! Oserei dire: mirabolante e stupefacente! La cena dei congedanti, rigorosamente organizzata al “Ragno d’Oro”, ci occupa per giorni: si raggranella qualche lira con la “vendita” ai baffi delle solite puttanate tipo “squadrazaino”ed “attaccapanni tattici”… e varie; si recupera quel che a nostra volta i nostri “vecchi” ci hanno estorto d’autorità. Alla cena dei congedanti e non mi ricordo per quale motivo, il Tenente Graziani non è presente ed in verità non lo vedrò più e me ne dispiace perché avrei voluto ringraziarlo. Anche della sberla, ebbene si! E la mia non è piaggeria ne vigliaccheria: è rispetto. C’è lo Sten. Bordon e lo facciamo diventare matto tra frizzi e lazzi. Una ciucca memorabile mi offusca i ricordi ma rimembro benissimo che tra le altre cose si mangiò anche peperonata… Dopo il fatto delle medaglie, capiamo che la va a giorni. Incominciamo a scambiarci indirizzi, numeri di telefono; “dove ti trovo?”, “come arrivo a casa tua?”, “guarda che vengo a trovarti”, “se hai bisogno mi trovi qui”, e così via, rinverdendo progetti, pronosticando fortune, augurando successi e figli maschi. In effetti l’aria è elettrica, le pazzie aumentano, qualche baffo se la vede brutta, qualche “vecchio” rischia Peschiera, ma tutti cogliamo in quell’atmosfera euforica, una vena di malinconia: non si vedranno più le facce di quei pirati che hanno condiviso gli spazzi d’ogni giorno; quei brutti musi con i quali abbiamo corso, sguazzato nel fango, faticato, sudato, tremato dal freddo e sbuffato dal caldo assieme. Non vedrò più la barbona del Sergente Francis, non sentirò più le battute salaci del Tenente Graziani, non vestirò più la mimetica divenuta oramai una seconda pelle, non calzerò più gli anfibiacci mutati per l’uso, da ignobili e rigide scarponacce a morbidi e confortevoli calzature. Non vedrò più il Mau appuntato al petto o sui polsini, non calzerò più il nero basco con il bel fregio dorato, ne mi allaccerò più al collo lo straordinario fazzoletto con il “Leon”. Vado in armeria e mi saluto con una carezzina, senza che nessuno mi veda, per carità, il mortaione che tanto mi aveva fatto sbudellare. Do un’ultima scarrellata al Fal detto tipo “Alpino” (fucile automatico leggero), mod. BM 59. Non lo do a vedere ma sento che queste cose erano divenute parte di me stesso. Per sempre. Una bella mattina ci leggono gli elenchi e ci danno la data della partenza. Io sono arrivato al CAR con un giorno di ritardo e quindi tutti gli altri se ne andranno via ed io dovrò attendere un giorno in più: andrò via da solo, porca la miseria. Consegniamo il corredo: c’è tutto. Al Maresciallo Lo Cascio viene in mente di misurare il cappotto. Il cappotto non è quello che mi hanno dato al Car, ma l’ho scambiato con un vecchio al “Marghera”: infatti essendo il mio grande ed a lui andava bene, ed il suo più stretto e piccolo e quindi si adattava meglio alla mia figura le cose combaciavano. Mancano tredici centimetri di lunghezza da quella annotata nel libretto di assegnazione corredo. Il Maresciallo Lo Cascio tira una susina e mi ventila il progetto di farmi pagare il cappotto; io faccio la faccia del cane bastonato e guardo contrito il pavimento. E chi li aveva i soldi per pagare il paltò? Si vede che ho l’espressione che fa pena, ed infatti il Sottufficiale mi manda a quel paese e scaraventa nel mucchio dei paltò accatastati in mezzo al magazzino anche il mio: tutto in ordine! Non mi lasciano nulla se non la divisa estiva che indosso: non porterò a casa nulla in più che la camicia, cordone rosso e giallo, volantino da spalla con distintivo da mortaista, cravatta, pantaloni con cintura, un paio di calzini, un fazzoletto da naso, il basco. In borsa trovano posto, una canottiera della naja, due Mau da polsino in plastica e due in stoffa fuori ordinanza, il fazzoletto da collo, due stellette metalliche fuori ordinanza della giacca a vento, due bossoli inerti di 7,62 Nato ed uno di 12,7, una linguetta della bomba a mano SRCM, il najometro scrupolosamente compilato, un abbozzo di “stecca” in primo abbozzo intagliato su una porzione di manico di scopa nelle fredde e lunghe notti invernali. Poi mai completato. Gli scarponcini da libera uscita li lascio al baffo che i suoi li ha dovuti dare ad una “tuba” rompiballe ed uso le scarpe fuori ordinanza. I “fratelli di naja” quella mattina sono già desti prima della sveglia: l’euforia li contagia mentre io sono un po’ sotto tono. In mensa si scambiano le ultime battute, i saluti, le promesse di rivedersi. Salutano i vari Ufficiali e Sottufficiali, (dicevo sopra che il Graziani non c’è), abbracci seri e pacche sulle spalle commoventi: sta terminando uno spicchio di vita. Quando vedo i miei “fratelli di naja” inquadrati per il fatidico oltrepassare per l’ultima volta la porta della caserma mentre io me ne sto dentro, mi piglia un groppo e la malinconia mi attorciglia le budella. Un ultimo saluto dalla recinzione e poi vado a sdraiarmi in branda. Guardo il soffitto e cogito in un’atmosfera lugubre. Passerà anche quel giorno e domani toccherà a me. L’indomani saluto a mia volta le “tube” ed i “baffi”; il mio baffo mi da la mano ed il commiato è in buona armonia. Per lui tutto sommato è andato bene ed il suo è stato un buon periodo da “baffo”. Guardo la branda e la camerata. La scala, la pensilina della Compagnia, la piazza d’armi con il pennone della bandiera. Foto indelebili nella mente. Vado alla porta dove le “tube” di guardia mi salutano con invidia e…me ne esco per l’evento conclusivo. Mi volto e l’occhio è attratto come la prima volta quando arrivai a Villa Triste, dalle colonne del cancello, dipinte in strisce rosse e gialle: mi debbo sforzare di pensare al rientro, ma mi sento a disagio. E’ dunque tutto finito. Di colpo. Arrivo a casa in tarda mattinata di una splendida giornata dell’ agosto del 1967; scendo dall’autobus e subito vado a pigliarmi il caffè nel bar dove ci si trovava sempre con gli amici del paese: non vedo nessuno; ostento la divisa con l’orgoglio d’indossarla ma anche con la malinconia indotta della consapevolezza che sarà l’ultima volta che porterò addosso quelle vesti. Arrivo a casa, piglio una scatola da scarpe vuota e con delicatezza ci metto dentro il basco, piego a triangolo ed accarezzo il fazzoletto con il “Leon” e lo metto sopra il basco con religiosa attenzione; sistemo i Mau in una scatolina con il resto dei “cimeli” e chiudo con il coperchio. Mia zia mi chiama per il pranzo. Prima di scendere mi affaccio al balcone e luccicante di sole estivo guardo la laguna che si scorge in lontananza. San Marco! Lagunare Dino Doveri.
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Subject: 20ª Puntata.
Contrariamente alle precedenti, questa e cioè la puntata conclusiva, sarà succinta e per i miei standard, breve. Invece di diffondere e “rivelare il verbo”, pseudo dogmi o improbabili morali, laddove anche fossero tutto sommato attendibili, mi rendo conto che mi suona questa, un’operazione discordante, poco opportuna e per nulla indicata dato l’argomento nel quale ci si potrebbe perdere in sabbie mobili sempre in agguato. Mi accontento invece per articolare la conclusione, di prendere spunto da un pensiero espresso in una e-mail giunta al Sito e riportata nella rubrica “Chi ci scrive”. La lettera è a firma di Carlo Bassani, II° 68, un annetto circa dopo di me. Egli tra la altre cose dice: “Vi garantisco ragazzi che ne abbiamo combinate di tutti i colori, dagli sbarchi notturni a Casalborsetti, al comprensorio della caserma Bafile, ma era solo addestramento! Di certo non si trattava delle eroiche operazioni dei nostri Lagunari di oggi. Sono molto orgoglioso di appartenere ad un corpo così prestigioso – dico appartenere perché un Lagunare rimane Lagunare tutta la vita!” Per terminare i miei racconti, io non so proprio cosa potrei dire in più della frase formulata dal commilitone Bassani. E’ una frase che dice tutto. Che si siano vissute cose per certi versi formidabili, è un fatto inconfutabile. Che gli addestramenti, la vita lontana dalle “mollezze” di casa, le esperienze maturate, siano state importantissime, non v’è dubbio. Sicuramente poi, durante quel periodo si è cominciato a capire le cose della vita, a parare i colpi bassi, ad arrangiarci nelle difficoltà. Una bella ed efficace scuola di vita, non c’è che dire. Personalmente, io che amo l’avventura (oramai haimè, non c’è più l’età ed il fisico… e la “panza” incombe…), ho vissuto momenti irripetibili, che mi gasavano e mi trasmettevano lampi e sferzate d’adrenalina: sensazioni impagabili. Certo è che in confronto a ciò che viene vissuto dai Lagunari d’oggi, Bosnia, Kossovo, Iraq, Libano, le nostre se proprio goliardate non erano, ma certo nella maggior parte delle occasioni, ci si avvicinava molto. Però pensando a frasi del tipo: “noi che abbiamo fatto il militare veramente, noi che abbiamo fatto questo… noi che abbiamo fatto quello…si però vuoi mettere noi… però qui, però là…”, debbo schierarmi con un’ intendimento ben preciso. Le pallottole non le abbiamo sentite saettare a pochi centimetri dal nostro corpo; non abbiamo scrutato fino a lacrimare cercando con gli occhi di forare l’oscurità della notte, nel buio in pattuglia su un VM fragile ed inadeguato, dove le parole non potevano essere pronunciate perché la bocca secca di paura e lo stomaco attorcigliato lo impediscono; non siamo stati fatti segno di bombe da mortaio e di rpg e di quant’altro ben di Dio. E per non buttarla in retorica e stare più terra terra, non abbiamo boccheggiato dall’interno di un AAV7 o appena riparati da un muretto di fango con 64 gradi di calore negli anfratti cotti dal sole di Nassiriya, o rischiato il congelamento a temperature di - 5, -10, -18 nella notti in Check Point sulle alture attorno a Djakovica o Pec. Ed ancora pensando a certi paragoni, mica siamo stati a migliaia di chilometri lontani da casa, dalla famiglia, dai nostri affetti più cari, per mesi e mesi: per la maggior parte di noi, quando ci andava male si rientrava una volta alla settimana a casetta nostra che distava dalla caserma il massimo una ottantina di chilometri od un’ora e mezzo di auto per i più distanti. E per molti invece c’era un venti minuti d’autobus e/o una mezz’oretta di motoscafo. Quindi la nostra esperienza, la mia, quella di tutti noi della leva, è stata sicuramente onorevole e produttiva. Certo è che deve essere collocata una galassia lontano a ciò che hanno vissuto i nostri “nipotini baffi” di adesso. Perciò diamo il giusto ed equilibrato valore al nostro passato di naja e consideriamo con altrettanto equilibrio e rispetto, le cose vissute dai Lagunari di oggi. Il reclutamento locale è un discorso poi, che a prescindere dall’indubbio vantaggio di chi in laguna ci ha sguazzato sin da piccolo e quindi familiarità con i luoghi, che non lo prendo neanche in considerazione e non mi ci voglio neanche cimentare. Molti che mi conoscono sanno come la penso nel riguardo dei “campanilismi” e degli “orticelli” vari. Certo è facile pronunciare frasi “ non è più come una volta!”, “noi non facevamo orario da dipendenti statali!”, “Non c’è più il clima e la severità di allora!”; in effetti potrebbe ed anzi sarà tutto vero, però, però…sarò anche stucchevole e fissato ma noi non abbiamo mai fatto la funzione del bersaglio a migliaia di chilometri da casa. A nostro suffragio dico: saranno stati anni in cui appartenere ad una entità per certi versi leggendaria come i Lagunari, ti trasmetteva orgoglio e fierezza ed ora forse, ripeto forse, la società è più “scafata” e di valori ne sono rimasti pochini… tuttavia dico parafrasando il pensiero del commilitone del II° 68, nessuno più di noi convive con la certezza dell’affermazione “Lagunare una volta, Lagunare per tutta la Vita!” Mi ero preparato "un’omelia” di chiusura dove davo i voti alle cose, ai fatti ed alle persone, dove con poco trasporto mi arrovellavo di fare confronti, rapporti e proporzioni con l’attuale e le nostre cose di allora; e mi solleticava d’inerpicarmi in considerazioni (para)filosofiche. Ci ho lavorato sopra parecchio ed ho più volte impostato il brogliaccio: non mi piaceva e quindi ho reimpostato; non convinto ho brutalmente cancellato parecchie volte la bozza e ricominciato da un’altra angolatura. Alla fine ho rinunciato perché l’argomentare che ne usciva mi sembrava eccessivo e per altro inadeguato; ed ho preso in prestito al frase del Lagunare Carlo Bassani che nella sua sinteticità, è mia opinione, dice molto. Anzi dice tutto. Un grazie a che mi a seguito nel mio andare indietro nel tempo. Un grazie perché lo scrivere questa ventina di puntate mi ha dato modo di ricordare volti, di rivivere ricordi, situazioni. Emozioni ed accadimenti sono potuti essere ricordati davanti alla tastiera del PC, con attenzione e assaporati nei particolari; mi sono commosso non lo nego, ricordando i “Fratelli di naja” che non ci sono più. Scrivendo, ho avuto ancora la sensazione del gelo che attanaglia le estremità durante le notti in altana, degli accecanti rivoli di sudore durante le marce interminabili; la strizza ad ogni rumore nelle notti di guardia… Ero ancora la! Ho ridacchiato come uno scemo, da solo, rivedendo nella mente alcune delle ingarbugliate, abnormi e comiche vicissitudini di quarant’anni fa; mi sono imbufalito ricordando certi “gentiluomini” di quel periodo e riandando alle umiliazioni ed i torti subiti. Ecco, giusto a proposito: un’unica certezza mi preme ribadire e già l’ho esternata in diverse puntate. Confermo la mia avversione per gli imboscati di allora e li odio (naturalmente espressione di eufemismo circonlocutivo…forse…), ancora di più ora perché la loro peculiarità d’allora, lo “strissonismo”, (neologismo coniato per argomentare più vigorosamente, il cui etimo ci riconduce al gergo lagunare dove le parole “strissòn” – altresì “bìssa”, serpe in lingua - e che i vecchi “Baffi” capiranno alla grande), si è raffinato ed è maturato in un "Crescendo" sinfonico e perciò essi ne sono risultati nell’interpretazione più dispregiativa, gli imboscati di adesso. Buon pro gli faccia. Certo che vivere una vita da parassita… Il valore aggiunto di tutta questa storia? Ritengo che se fossi stato destinato di far la naja presso uno dei tanti anonimi reparti di fanteria, con tutto il rispetto per la Fanteria nella quale siamo stati “innestati” e della quale siamo parte, reparti anche se custodi di importanti quarti di nobiltà sepolti nella notte dei tempi, non vi avrei raccontato nulla perché per me il valore aggiunto e del quale mi è premuto d’aver raccontato, è stato l’onore di essere stato e quindi di essere per sempre un Lagunare. San Marco! Lagunare Dino Doveri. | |||||||
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